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L'ordine del sole nero
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Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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Un movimento attirò l’attenzione di Gray. Monk aveva estratto la sua Glock da 9mm e l’aveva puntata alla porta a vetri.

«No!» gridò Gray.

Troppo tardi. Monk aveva già premuto il grilletto.

Il colpo di pistola echeggiò nella stanza, accompagnato da un acuto ping: il proiettile rimbalzò sul vetro e colpì una delle bocche di aerazione d’acciaio, facendo scoccare una scintilla. Perlomeno il gas non sembrava infiammabile. Quella scintilla avrebbe potuto farli fuori tutti.

Monk se ne rese conto. «Antiproiettile.»

«Abbiamo dovuto installare sistemi di sicurezza aggiuntivi», confermò il curatore. «Troppi neonazisti cercavano di intrufolarsi qui dentro.» Il riflesso delle torce sul vetro nascondeva la posizione dell’uomo.

«Bastardo…» borbottò Monk.

Il gas cominciò a riempire i livelli più bassi. Aveva un odore dolciastro e stantio, ma un sapore pungente. Non era cianuro, quantomeno. Quello profumava di mandorle.

«Restate in piedi», disse Gray. «Tenete la testa alta e venite al centro della stanza, lontano dalle bocche di aerazione.»

Si raccolsero attorno al pozzo cerimoniale. Fiona gli prese la mano e la strinse forte. Poi sollevò l’altra mano: «Gli ho sgraffignato il portafogli, sempre che serva a qualcosa».

«Fantastico», ironizzò Monk. «Non potevi rubargli le chiavi?»

Ryan gridò, in tedesco: «Mio padre sa che siamo qui! Chiamerà la polizia!»

Gray dovette riconoscere che il giovane stava facendo del suo meglio.

Gli rispose una nuova voce, senza volto, dietro il riflesso nel vetro. «Temo che suo padre non chiamerà nessuno, mai più.» La frase non fu pronunciata in tono minaccioso, era una semplice constatazione.

Ryan fece un passo indietro, come se l’avessero colpito fisicamente. Lanciò un’occhiata a Gray, poi guardò di nuovo verso la porta.

Gray riconobbe quella voce. Anche Fiona. Gli strinse la mano ancora più forte. Era il compratore col tatuaggio, quello che avevano visto alla casa d’aste.

«Non potrete usare nessuno dei vostri trucchi questa volta», disse l’uomo. «Non avete scampo.»

Gray cominciava a sentirsi intontito. Scosse il capo, cercando di schiarirsi le idee. Quell’uomo aveva ragione, non potevano fuggire. Ma ciò non significava che fossero indifesi.

Sapere è potere.

Gray si voltò verso Monk. «Prendi l’accendino.»

Mentre l’amico obbediva, Gray estrasse dallo zaino il taccuino e lo gettò nel pozzo. «Monk, butta le fotocopie di Ryan; Fiona, la Bibbia, per favore.»

Obbedirono entrambi.

«Accendi», disse Gray.

Monk fece scattare l’accendino e appiccò il fuoco a una delle fotocopie appena fatte da Ryan, poi la gettò nel pozzo. In pochi secondi, si levarono fiamme e fumo. Sembrava persino che la colonna di fumo respingesse momentaneamente il gas, o almeno così Gray sperava. Gli girava la testa.

Sentì le persone al di là della porta borbottare qualcosa, senza distinguere le parole.

Gray sollevò la Bibbia di Darwin. «Soltanto noi conosciamo il segreto nascosto in questo libro!»

L’assassino dai capelli biondo platino, ancora invisibile dietro il vetro, rispose, vagamente divertito: «Il dottor Ulmstrom ha visto tutto ciò che volevamo sapere: la Menschrune.Ormai la Bibbia non ha più nessun valore per noi».

«Davvero?» Gray mostrò il libro, illuminandolo con la torcia. «Abbiamo mostrato a Ulmstrom soltanto ciò che Hugo Hirszfeld ha scritto sulla terza di copertina, ma non quello che ha scritto sul davanti!»

Ci fu un momento di silenzio, poi ancora qualche mormorio furtivo. A Gray sembrò di sentire la voce di una donna, forse la diafana gemella dell’uomo.

Ulmstrom pronunciò un chiaro neinad alta voce, in tono difensivo.

Fiona incespicò accanto a Gray: le cedevano le ginocchia. Monk l’afferrò, tenendole la testa sollevata oltre il livello crescente del gas velenoso. Ma anche lui barcollava.

Gray non poteva più aspettare.

Spense la torcia per ottenere un effetto drammatico e lasciò cadere la Bibbia nel fuoco. Le vecchie pagine presero fuoco immediatamente, facendo divampare le fiamme. Un nuovo filo di fumo cominciò a fluire verso l’alto.

Gray fece un respiro profondo, mettendo tutta la convinzione possibile nella voce: doveva vendere bene quella menzogna. «Il segreto della Bibbia di Darwin morirà con noi!»

Aspettò, pregando che lo stratagemma funzionasse.

Un secondo… due…

Il gas continuava a salire. Ogni respiro era soffocato sul nascere.

Ryan crollò improvvisamente, come se qualcuno avesse tagliato i fili che lo tenevano in piedi. Monk cercò di afferrargli un braccio, ma cadde in ginocchio, appesantito da Fiona. Non si rialzò, anzi si accasciò, trascinando con sé la ragazza.

Gray fissava la porta scura. La torcia gli scivolò dalle dita ormai inerti, rotolando via. C’era ancora qualcuno là fuori?

Non l’avrebbe mai scoperto.

Il mondo scompariva lentamente, finché Gray non fu avvolto dall’oscurità.

Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,

ore 17.30

A migliaia di chilometri di distanza, un altro uomo si risvegliò.

Il mondo ricomparve, in un marasma di dolore e di colori. Sbattendo le palpebre, aprì gli occhi, per ritrovarsi qualcosa che gli svolazzava sul viso: le ali di un uccello. Un canto gli riempì le orecchie.

«Si sveglia», disse qualcuno, in lingua zulù.

«Khamisi…» disse una voce di donna.

L’uomo impiegò qualche istante per collegare quel nome a se stesso. Sentì un lamento: era la sua voce.

«Aiutalo a mettersi seduto», disse la donna. Parlava anche lei zulù, ma aveva un familiare accento britannico.

Khamisi si accorse che lo sollevavano e si ritrovò seduto, floscio, sostenuto da qualche cuscino. La vista si stabilizzò. La stanza, una casupola di mattoni di fango, era buia, ma dai bordi delle tende alle finestre e di un tappeto appeso alla porta penetravano dolorosi dardi di luce. Il soffitto era ornato con zucche colorate, trecce di cuoio e piume. La stanza era impregnata di odori strani e nauseanti. Gli fu sventolato sotto il naso qualcosa che puzzava di ammoniaca. Gettò la testa all’indietro e si agitò convulsamente. Si accorse che il braccio destro trascinava il tubo di una flebo. Aveva le braccia bloccate.

Da un lato, lo sciamano a torso nudo, con una corona di piume in testa, lo teneva fermo per una spalla. Era lui che cantava e che aveva sventolato un’ala essiccata di avvoltoio, per scacciare i mangiatori di morte.

Dall’altro lato, la dottoressa Paula Kane gli aveva preso il braccio e lo stava appoggiando sulla coperta.

Era nudo e il sudore gli aveva appiccicato la stoffa alla pelle. «Dove… cosa…»

«Acqua», ordinò Paula.

La terza persona nella stanza, un anziano zulù ingobbito, obbedì, passandole una borraccia ammaccata.

«Riesci a tenerla?» chiese la dottoressa.

Khamisi annuì, sentendo le forze ritornare piano piano. Prese la borraccia e sorseggiò l’acqua tiepida, che gli sciolse la lingua impastata e i ricordi. L’anziano che aveva portato la borraccia… l’aveva visto a casa sua!

Il cuore cominciò a battergli più forte. Trascinandosi dietro il tubicino dell’endovenosa, si portò l’altra mano al collo. C’era una benda. Ricordava tutto quanto. La freccia, il mamba nero, la simulazione dell’attacco di un serpente.

«Cos’è successo?»

Il vecchio colmò le lacune della sua memoria. Era l’anziano che per primo aveva riferito di aver visto un ukufanel parco, cinque mesi prima. All’epoca, non era stato preso sul serio, nemmeno da Khamisi. «Ho sentito quello è successo a signora dottoressa», disse, facendo un cenno di solidarietà e condoglianze a Paula. «E ho sentito quello tu hai visto. La gente parla. Io vado casa tua, per parlare con te. Ma tu non in casa. Così aspetto. Altri vengono, allora io nascondo. Tagliano un serpente. Mamba. Magia cattiva. Io resto nascosto.»

Khamisi chiuse gli occhi. Era arrivato a casa, era stato punto e dato per morto. Ma i suoi aggressori non sapevano dell’uomo nascosto sul retro.

«Io vengo fuori», proseguì l’anziano. «Chiamo altri. In segreto, noi portiamo te via.»

Paula concluse il racconto: «Ti abbiamo portato qui. Il veleno ti ha quasi ucciso, ma la medicina, quella moderna e quella antica, ti ha salvato. Per un soffio».

Khamisi guardò la flebo e lo sciamano. «Grazie.»

«Ti senti abbastanza in forze per camminare? Dovresti mettere in movimento gli arti. Per la circolazione sanguigna il veleno è come un carico di mattoni.»

Assistito dallo sciamano, Khamisi si alzò, tenendosi pudicamente in vita la coperta fradicia. Fu accompagnato alla porta. Ai primi passi si sentiva debolissimo, ma ben presto una fragile forza gli si diffuse negli arti.

Scostarono il tappeto appeso alla porta, facendo affluire nella stanza una luce accecante e un caldo rovente. Doveva essere metà pomeriggio, pensò Khamisi. Il sole stava calando a ovest. Schermandosi gli occhi, uscì.

Riconobbe il piccolo villaggio zulù. Era ai margini della riserva di Hluhluwe-Umfolozi, non lontano da dove avevano trovato il rinocerente e la dottoressa Fairfield era stata attaccata.

Guardò Paula Kane. «È stato il sovrintendente.» Non aveva dubbi. «Voleva mettermi a tacere.»

«Perché non raccontassi come è morta Marcia.»

Lui annuì.

«Che cosa hai…»

La donna fu interrotta dal rumore di un elicottero bimotore che sfrecciò a bassa quota sopra le loro teste. Il turbinio dell’elica sferzò i cespugli e i rami degli alberi. I tappeti alle porte sventolavano, come se cercassero di scacciare l’intruso.

Il pesante velivolo sfrecciò via, volando radente alla savana.

Khamisi lo guardò. Non era un giro turistico.

Accanto a lui, Paula aveva impugnato un binocolo Bushneil e stava seguendo i movimenti dell’elicottero. Dopo essersi allontanato ancora un po’, si preparò ad atterrare. Khamisi fece qualche passo per vedere meglio.

Paula gli passò il binocolo. «È tutto il giorno che vanno e vengono.»

Khamisi vide il bimotore scendere dietro una recinzione nera alta tre metri. Segnava il confine della tenuta privata dei Waalenberg.

«Qualcosa li ha messi in agitazione», commentò Paula.

Ma Khamisi aveva notato qualcosa. Mise a fuoco la recinzione e riconobbe l’antico emblema della famiglia, apposto sul cancello d’ingresso in filigrana d’argento: la corona e la croce dei Waalenberg.


TERZO

11. IL DEMONE DENTRO LA MACCHINA

In volo sull’oceano Indiano,

ore 12.33

«Il capitano Bryant e io faremo del nostro meglio per indagare sui Waalenberg qui a Washington», disse Logan Gregory al telefono.

Painter stava usando un auricolare, perché gli servivano le mani libere per vagliare la montagna di documenti che Logan aveva faxato a Katmandu. C’era di tutto sui Waalenberg: la storia della famiglia, i rendiconti finanziari, i legami internazionali, persino i pettegolezzi e le insinuazioni.

In cima alla pigna c’era una fotografia sgranata: un uomo e una donna che scendevano da una limousine. Gray Pierce l’aveva scattata dalla suite di un hotel dall’altra parte della strada, prima dell’inizio di un’asta. Il controllo digitale aveva confermato la valutazione di Logan. Il tatuaggio era legato al clan dei Waalenberg. I due nella foto erano i gemelli Isaak e Ischke Waalenberg, i due eredi più giovani della fortuna di famiglia, un patrimonio che poteva competere col prodotto interno lordo della maggior parte dei Paesi del mondo.

Cosa ancora più importante, Painter riconobbe l’incarnato pallido e i capelli bianchi. I due erano Sonnenkönige.Come Gunther, come l’assassina al castello.

Painter diede un’occhiata alla parte anteriore della cabina del Gulfstream: Gunther dormiva disteso su un divano, con le gambe penzoloni; Anna invece era seduta su una poltrona lì accanto, di fronte a una catasta di documenti. I due erano guardati a vista dal maggiore Brooks e da due ranger armati. I ruoli si erano rovesciati. I carcerieri erano diventati prigionieri. Tuttavia, nonostante i nuovi rapporti di potere, tra loro non era cambiato nulla. Anna aveva bisogno dei contatti e del supporto logistico di Painter, il quale aveva bisogno delle conoscenze di Anna sulla Campana e su tutti gli aspetti scientifici connessi.

«Quando tutto questo sarà finito, ci occuperemo delle questioni legali e di responsabilità», aveva detto Anna poco prima.

Logan interruppe i suoi pensieri. «Kat e io abbiamo fissato un appuntamento per domani mattina con l’ambasciata sudafricana. Vedremo se ci possono aiutare a fare un po’ di luce su questa famiglia molto discreta.»

Definirla discretaera un eufemismo. I Waalenberg erano i Kennedy del Sudafrica: ricchi, spietati, con una proprietà delle dimensioni di Rhode Island. Sebbene la famiglia possedesse grandi terreni anche altrove, i Waalenberg si allontanavano di rado dalla loro tenuta principale.

Painter prese la foto digitale sgranata. Una famiglia di Sonnenkönige.

Il tempo stringeva e l’unico luogo in cui potesse essere nascosta una seconda Campana era quella tenuta.

«Un agente britannico vi verrà incontro quando atterrerete a Johannesburg. L’MI5 tiene d’occhio i Waalenberg da anni, seguendo le loro transazioni insolite, ma non è riuscito a penetrare il muro di riserbo e segretezza che li protegge.»

Non era tanto difficile, dato che i Waalenberg erano praticamente i proprietari dell’intero Paese, pensò Painter.

«Vi offriranno supporto e informazioni sul territorio», concluse Logan. «Avrò altri dettagli quando atterrerete, fra tre ore.»

«Molto bene», rispose Painter, fissando la fotografia. «E che mi dice di Gray e Monk?»

«Sono scomparsi. Abbiamo trovato la loro auto parcheggiata all’aeroporto di Francoforte.»

Francoforte? Non aveva senso. Era un importante hub internazionale, ma Gray aveva accesso a un jet del governo, più efficiente di qualsiasi linea aerea commerciale. «Nemmeno una parola?»

«Nossignore. Siamo in ascolto su tutti i canali.»

Quella notizia era sconcertante.

Massaggiandosi la testa, perforata da un’emicrania che nemmeno la codeina riusciva a scalfire, Painter si concentrò sul rombo dell’aeroplano che solcava i cieli bui. Che cosa era successo a Gray? C’erano poche possibilità: si era nascosto, era stato catturato oppure era stato ucciso.

«Cerchi ovunque, Logan.»

«Lo stiamo facendo. Speriamo di avere altre notizie quando atterrerete a Johannesburg.»

«Ma lei ogni tanto dorme?»

«C’è un caffè Starbucks all’angolo, signore. Diciamo a ogniangolo.» Le sue parole erano stancamente divertite. «E lei, signore?»

Painter aveva fatto un sonnellino a Katmandu, mentre venivano fatti tutti i preparativi per il viaggio. «Me la cavo bene, Logan. Non si preoccupi.»

Come no.

Mentre riagganciava, Painter sfregò distrattamente il pollice sulla carne esangue e zigrinata su cui un tempo appoggiava l’unghia del mignolo. Tutte le altre dita gli formicolavano, anche quelle dei piedi. Logan aveva tentato di convincerlo a ritornare a Washington, a farsi visitare al Johns Hopkins, ma Painter era convinto che il gruppo di Anna avesse competenze molto più avanzate su quella particolare malattia. Danneggiato a livello dei quanti.Nessun trattamento convenzionale l’avrebbe aiutato. Per rallentare la malattia, avevano bisogno di un’altra Campana funzionante. Secondo Anna, il trattamento periodico con le radiazioni della Campana, in situazioni controllate, poteva garantire anni, anziché giorni, di sopravvivenza.

«E forse, più avanti, persino una guarigione completa», aveva concluso Anna.

Ma prima dovevano trovare un’altra Campana e maggiori informazioni.

Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare.

«Penso che dovremmo parlare con Anna», disse Lisa, come se gli avesse letto nel pensiero.

Painter si voltò. Pensava che Lisa stesse dormendo. Si era messa in ordine, aveva fatto una doccia e indossava ampi pantaloni kaki e una camicetta color crema. Appoggiata allo schienale del sedile di Painter, lo scrutò con occhio clinico, esaminandogli il viso. «Hai un aspetto di merda.»

«Che tono rassicurante per un paziente», ribatté lui, alzandosi e stiracchiandosi.

L’aereo vacillò e si oscurò. Lisa lo tenne per un braccio. Il mondo s’illuminò e si stabilizzò. Non era l’aereo, era solo la sua testa.

«Promettimi che dormirai ancora un po’, prima dell’atterraggio», disse lei, stringendogli il gomito in una morsa.

«Se c’è tempo…»

Lisa aveva una presa d’acciaio.

«Okay, lo prometto.»

Lei allentò la presa e indicò Anna con un cenno del capo. La donna era china su una pigna di fatture. Stava passando in rassegna le polizze di carico delle merci destinate alla tenuta Waalenberg. Cercava qualsiasi indizio utile a confermare che i Waalenberg avessero acquistato il materiale necessario al funzionamento di una Campana.

«Vorrei sapere qualcosa di più di come funziona questo aggeggio», disse Lisa. «Le teorie fondamentali su cui è basata. Se la malattia danneggia i quanti, dobbiamo capire come e perché. Lei e Gunther sono gli unici sopravvissuti del Granitschloß.Dubito che Gunther sia stato istruito sugli aspetti teorici più sofisticati della Campana.»

Painter annuì. «Più cane da guardia che scienziato.»

Come a confermare la sua descrizione, l’uomo si mise a russare sonoramente.

«Tutte le conoscenze rimanenti riguardo alla Campana sono nella testa di Anna. Se dovesse perdere il senno…»

Lo avrebbero perso tutti quanti.

«Dobbiamo ottenere quelle informazioni prima che ciò avvenga», convenne Painter.

Lisa lo guardò negli occhi. Non nascose i suoi pensieri, le si leggevano in viso. Painter ripensò a quando era salita sull’aereo, a Katmandu. Esausta, coi nervi a pezzi, non aveva esitato ad andare con loro. Aveva capito. Come in quel momento.

Non erano a rischio soltanto la mente e la memoria di Anna, anche Painter era in pericolo. Soltanto una persona aveva seguito l’intera faccenda fin dall’inizio, una persona con le conoscenze mediche e scientifiche necessarie, e non minacciata dall’incombere della demenza. Al castello, Lisa e Anna avevano conversato a lungo da sole. Per conto suo, Lisa aveva esplorato a fondo la biblioteca di Anna. Chi poteva sapere quale dettaglio si sarebbe rivelato critico, facendo la differenza tra il successo e il fallimento?

Lisa aveva capito.

Non c’era stato bisogno di dire nulla, a Katmandu. Era semplicemente salita a bordo.

Fece scivolare la mano su quella di Painter. Gli strizzò le dita e indicò Anna con un cenno del capo. «Andiamo a spremerle le meningi.»

«Per capire come funziona la Campana, dovete innanzitutto comprendere la teoria dei quanti», iniziò Anna.

Lisa osservò la donna. Aveva le pupille dilatate per la codeina. Parlava troppo e le tremavano le dita, così stringeva forte gli occhiali da lettura con entrambe le mani, come se fossero un’ancora. Si erano appartati in coda al jet. Gunther continuava a dormire, sotto gli occhi dei militari, nella parte anteriore.

«Non penso che abbiamo tempo per un corso universitario», replicò Painter.

«Certo. L’importante è capire tre principi.» Anna mollò gli occhiali abbastanza a lungo per sollevare un dito. «In primo luogo, dobbiamo capire che, una volta che la materia è scomposta al livello dei quanti, le leggi classiche dell’universo cominciano a erodersi. Max Planck scoprì che elettroni, protoni e neutroni si comportano sia come particelle sia come onde. Il che appare contraddittorio. Le particelle hanno orbite e tracciati distinti, mentre le onde sono più indefinite, mancano di coordinate specifiche.»

«E queste particelle subatomiche si comportano in tutti e due i modi?» chiese Lisa.

«Hanno il potenzialedi essere o un’onda o una particella», specificò Anna. «E questo ci conduce al prossimo punto: il Principio di indeterminazione di Heisenberg.»

Lisa ne aveva già sentito parlare e aveva approfondito l’argomento nel laboratorio di Anna. «Heisenberg sostiene che nulla è certo finché non viene osservato. Ma non capisco cosa c’entri con elettroni, protoni e neutroni.»

«L’esempio migliore del principio di Heisenberg è il gatto di Schrödinger», rispose Anna. «Si mette un gatto in una scatola sigillata, collegata a un apparecchio che può avvelenare il gatto in qualsiasi momento oppure no, in modo del tutto casuale. Morto o vivo. Heisenberg ci dice che in quella situazione, con la scatola chiusa, il gatto è potenzialmentesia morto sia vivo. Soltanto quando qualcuno apre la scatola e ci guarda dentro, la realtà sceglie uno stato oppure l’altro. Morto ovivo.»

«Suona più filosofico che scientifico», ribatté Lisa.

«Forse finché si parla di un gatto. Ma è stato dimostrato che è vero, a livello subatomico.»

«Dimostrato? Come?» chiese Painter. Era rimasto seduto in silenzio fino a quel momento, lasciando che fosse Lisa a fare le domande. Lui sapeva già molte di quelle cose, ma voleva consentirle di procurarsi tutte le informazioni che le servivano.

«Col classico test della doppia fessura», rispose Anna. «Ed eccoci al punto numero tre.» Prese due pezzi di carta, disegnò due fessure su uno dei due e li appoggiò in verticale, l’uno dietro l’altro.


«Ciò che sto per dirvi sembrerà privo di senso… Immaginiamo che questo pezzo di carta sia una parete di cemento e le fessure siano due finestre. Se prendiamo un fucile e cominciamo a sparare alle fessure, sulla seconda parete otterremo un determinato schema. Come questo.»

Prese il secondo pezzo di carta e lo punzonò.


«Chiamiamo schema di diffrazione A il modo in cui i proiettili o le particelle passerebbero attraverso queste fessure.»

Lisa annuì. «Okay.»

«Poi, invece dei proiettili, puntiamo un grande riflettore sulla parete, facendo passare la luce attraverso le fessure. Poiché la luce viaggia sotto forma di onde, sulla seconda parete otterremo uno schema diverso.» Disegnò uno schema di fasci chiari e scuri su un altro pezzo di carta.


«Questo schema, che chiameremo B, deriva dal fatto che le onde di luce che attraversano la finestra di destra e quella di sinistra interferiscono l’una con l’altra.»

«Capito», disse Lisa, anche se non era sicura di dove stessero andando a parare.

Anna mostrò i due schemi. «Ora prendiamo una pistola a elettroni e spariamo un unico fascio di elettroni sulle due fessure. Quale schema otterremo?»

«Siccome spariamo elettroni come se fossero pallottole, direi lo schema di diffrazione A», rispose Lisa, indicando il primo disegno.

«In realtà, negli esperimenti di laboratorio si ottiene il secondo: lo schema di interferenza B.»

«Lo schema delle onde… Perciò gli elettroni escono dalla pistola non come pallottole, ma come la luce di una torcia, viaggiando sotto forma di onde e creando lo schema B?»

«Esatto.»

«Quindi gli elettroni si muovono come onde.»

«Sì, ma soltanto quando nessuno assiste effettivamente al passaggio degli elettroni attraverso le fessure.»

«Non capisco.»

«In un altro esperimento, gli scienziati hanno collocato un piccolo contatore presso una delle fessure. Emetteva un bipogni volta che un elettrone attraversava la fessura, misurando – in altre parole osservando – il passaggio di un elettrone davanti al sensore. Qual era lo schema sull’altra parete quando l’apparecchio era in funzione?»

«Be’, non dovrebbe cambiare, giusto?»

«Non nel mondo subatomico: non appena veniva acceso l’apparecchio, si otteneva subito lo schema di diffrazione A.»

«Quindi il semplice atto di misurare modificava lo schema?»

«Proprio come aveva previsto Heisenberg. Per quanto sembri impossibile, è vero. Verificato e riverificato. Gli elettroni esistono in uno stato costante di onda e particella, finché qualcosa non li misura. La misurazione dell’elettrone ne forzala condensazione in una realtà o nell’altra.»

Lisa cercò di immaginare un mondo subatomico in cui tutto era in uno stato di costante potenziale.Non aveva senso. «Se le particelle subatomiche compongono gli atomi, e gli atomi compongono il mondo che conosciamo, tocchiamo e percepiamo, dov’è la linea di demarcazione tra il mondo fantomatico della meccanica quantistica e il nostro mondo fatto di oggetti reali?»

«Ancora una volta, l’unico modo per condensareil potenziale è farlo misurare da qualcosa. Strumenti di misurazione di questo genere sono una presenza costante nell’ambiente. Può essere lo scontro con un’altra particella, un fotone che colpisce qualcosa. L’ambiente misuracostantemente il mondo subatomico, condensando il potenziale in una realtà solida. Guardi le sue mani, per esempio. Le particelle subatomiche che costituiscono i suoi atomi operano in base alle regole indistinte del mondo dei quanti, ma all’esterno si espandono nel mondo di miliardi di atomi che costituisce la sua unghia. Quegli atomi si scontrano, si spintonano e interagiscono, misurandosi reciprocamente, forzando il potenziale in una realtà fissa.»

«Okay…»

Anna percepì lo scetticismo nella voce di Lisa. «So che è bizzarro, ma ho soltanto sfiorato la superficie del mondo indistinto della teoria dei quanti. Sto sorvolando su concetti come nonlocalità, tunnel temporale e universi multipli.»

Painter annuì. «Ci sono un bel po’ di stramberie in questo campo.»

«Ma basta capire quei tre punti», disse Anna, contando con le dita. «Le particelle subatomiche esistono, a livello di quanti, sotto forma di potenziale. Ci vuole uno strumento di misurazione per condensare quel potenziale. Ed è l’ ambienteche esegue costantemente quelle misurazioni per fissare la nostra realtà.»

«Ma che cosa c’entra questo con la Campana?» chiese Lisa «Quando eravamo nella biblioteca del castello, lei ha parlato di ‘evoluzione quantica’.»

«È vero. Che cos’è il DNA? Non è nient’altro che una macchina delle proteine, giusto? Produce tutti i mattoni basilari delle cellule.»

«Detto in parole povere, sì.»

«Allora semplifichiamo ancora di più. Il DNA non è fatto forse di codici genetici bloccati in legami chimici? E che cosa spezza questi legami, accendendo e spegnendo i geni?»

«Il movimento degli elettroni e dei protoni.»

«E queste particelle subatomiche, a quali regole obbediscono: quelle classiche o quelle dei quanti?»

«Quelle dei quanti.»

«Perciò, se un protone ha il potenziale di trovarsi in due posti, A o B, accendendo o spegnendo un gene, in quale di quei posti si troverà?»

«Se ha il potenziale di trovarsi in entrambi i posti, allora èin entrambi i posti. Il gene è sia acceso sia spento. Finché qualcosa non lo misura.»

«E che cosa lo misura?»

«L’ambiente.»

«E l’ambiente di un gene è…»

Lisa sgranò gli occhi. «La molecola di DNA stessa.»

Anna sorrise. «La cellula vivente funge da strumento di misurazione dei propri quanti. Ed è questa costante misurazione cellulare che rappresenta il vero motore dell’evoluzione. Ciò spiega perché le mutazioni nonsono casuali e perché l’evoluzione avviene a un ritmo più veloce di quello che si potrebbe attribuire al caso.»

«Aspetti», replicò Lisa. «Questa affermazione la deve ancora provare.»

«Facciamo un esempio, allora. Ricorda quei batteri che non erano in grado di digerire il lattosio? Che quando erano privati di altro nutrimento e avevano a disposizione soltanto il lattosio mutavano a un ritmo miracoloso per sviluppare un enzima in grado di digerirlo?» Anna inarcò un sopracciglio. «Ora riesce a spiegarselo usando i tre principi della teoria dei quanti? Soprattutto se le dico che la mutazione benefica richiedeva soltanto lo spostamento di un protone da un punto a un altro?»

Lisa era disposta a provarci. «Okay, se il protone poteva essere in entrambi i posti, allora per la teoria dei quanti erain entrambi i posti. Perciò il gene era mutato e non mutato. Era in uno stato potenziale che comprendeva tutt’e due le cose.»

«Continui», la stimolò Anna.

«Quindi la cellula, fungendo da strumento di misurazione dei quanti, avrebbe forzato il DNA a condensarsi in un modo o nell’altro. A mutare o a non mutare. E, poiché la cellula è viva e influenzata dal suo ambiente, avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia da una parte, sconfiggendo il caso, per produrre la mutazione benefica.»

«Ciò che gli scienziati chiamano ‘mutazione adattiva’. L’ambiente influenza la cellula, la cellula influenza il DNA e così avviene la mutazione che reca beneficio alla cellula. Il tutto azionato dalla meccanica quantistica.»

Lisa cominciava ad avere un’idea vaga di dove sarebbero andati a finire. Anna aveva usato l’espressione disegno intelligentein una delle loro conversazioni. Quando lei le aveva chiesto chic’era dietro quell’intelligenza, la donna le aveva risposto: Noi.

Lisa capì. Sono le nostrecellule che dirigono l’evoluzione, reagendo all’ambiente e condensando il potenziale in DNA, per adattarvisi meglio. Poi entra in gioco la selezione naturale darwiniana, per preservare le mutazioni.

«Ma la cosa ancora più importante», disse Anna, mentre la sua voce diventava un po’ rauca, «è che la meccanica quantistica spiega com’è nata la primascintilla della vita. Ricorda quanto era improbabile che quella prima proteina in grado di replicarsi si formasse dal brodo primordiale? Nel mondo dei quanti, la casualità non fa parte dell’equazione. La prima proteina in grado di replicarsi si è formata perché era l’ordine che emergeva dal caos. La sua capacità di misurare e condensare il potenziale dei quanti ha superato la casualità degli scontri che erano in atto nel brodo primordiale. La vita è cominciata perché era un migliorestrumento di misurazione dei quanti.»

«E Dio non ha nulla a che vedere con questo?» chiese Lisa, ripetendo una domanda che le aveva fatto Anna in precedenza… Ormai sembrava qualche decennio prima.

Anna si portò una mano alla fronte, con le dita tremanti. Strizzò gli occhi e guardò fuori dal finestrino con un’espressione dolorante. Parlò con una voce appena udibile. «Non ho detto questo… Lei guarda la faccenda nel modo sbagliato, nella direzione sbagliata.»

Lisa capì che Anna era troppo stanca per continuare. Avevano tutti bisogno di dormire un po’. Ma c’era un’ultima domanda in sospeso. «Che cosa fa la Campana?»

Anna abbassò la mano e guardò prima Painter, poi Lisa. «La Campana è il primo e ultimostrumento di misurazione dei quanti.»

Lisa trattenne il fiato, ponderando quella risposta.

«Il campo che essa produce, se si riuscisse a controllarlo, ha la capacità non soltanto di far evolvere il DNA in una forma perfetta, ma di condurre anche l’umanità alla perfezione.»

«E noi?» chiese Painter. Dalla sua espressione era evidente che non era impressionato dall’ardore della donna. «Lei e io? In che modo ciò che ci sta accadendo somiglia alla perfezione?»

La luce negli occhi di Anna si spense, smorzata dalla stanchezza e dalla sconfitta. «Per quanto la Campana detenga il potenziale dell’evoluzione, nelle sue onde quantiche si nasconde anche il contrario.»


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