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L'ordine del sole nero
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Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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2. LA BIBBIA DI DARWIN

Copenhagen, Danimarca,

16 maggio, ore 06.05

Che c’entravano i gatti con le librerie?

Il comandante Grayson Pierce sgranocchiò un’altra compressa di Claritin, mentre lasciava l’Hotel Nyhavn. Le ricerche del giorno precedente nella comunità bibliofila di Copenhagen l’avevano condotto in una mezza dozzina delle istituzioni letterarie della città. Sembrava che in ogni libreria avessero preso dimora colonie di felini. Se ne stavano distesi sui banconi oppure vagavano furtivi in cima a scaffali traballanti pieni di polvere e cuoio sgretolato.

E lui ne subiva le conseguenze, come quello starnuto che cercava di soffocare. O forse era soltanto un principio di raffreddore. A Copenhagen, la primavera era umida e fredda come l’inverno nel New England.

Non si era portato abiti abbastanza pesanti. Indossava un maglione acquistato in una boutique dai prezzi esorbitanti, nei pressi del suo albergo. Era un dolcevita di lana merino a coste, non lavorata e non tinta. E dava prurito. Almeno però teneva a bada il freddo del mattino.

Sebbene fosse già passata un’ora dall’alba, il sole smunto nel cielo grigio ardesia non lasciava nessuna speranza di una giornata più calda. Grattandosi il collo, si diresse verso la stazione centrale.

Il suo albergo era situato accanto a uno dei canali della città, fiancheggiato su entrambi i lati da villette a schiera dai colori allegri: una miscela di negozi, locande e abitazioni private. Gli ricordavano la città di Amsterdam. Lungo le banchine erano ormeggiate, l’una accanto all’altra, le imbarcazioni più disparate: basse corvette scolorite, scintillanti imbarcazioni da diporto, golette di legno maestose, yacht di un bianco splendente. Gray ne superò uno scuotendo la testa. Sembrava una torta nuziale galleggiante. Già a quell’ora del mattino, qualche turista munito di macchina fotografica vagava qua e là o si appostava lungo il parapetto del ponte, scattando allegramente.

Gray attraversò il ponte di pietra e costeggiò il canale per mezzo isolato, poi si fermò e si appoggiò al parapetto di mattoni. Gli apparve il suo riflesso, facendolo trasalire per un attimo. Nascosto per metà dall’ombra, il viso di suo padre lo fissava dalla superficie calma dell’acqua: i capelli neri come il carbone ricadevano lisci sugli occhi blu, una fossetta curva divideva il mento, il resto del viso era tutto angoli acuti, come pietra in cui erano scolpite le sue origini gallesi. Era tutto suo padre, cosa su cui Gray stava rimuginando un po’ troppo, tanto da non dormire la notte.

Che altro aveva ereditato da suo padre?

Un paio di cigni neri gli scivolarono davanti, agitando l’acqua e facendo scomparire il riflesso. I cigni si diressero verso il ponte, con movimenti armoniosi dei colli allungati, lo sguardo curioso e un’aria di noncuranza.

Gray seguì il loro esempio. Drizzandosi, finse di voler fare una foto alla fila di imbarcazioni, mentre in realtà stava studiando il ponte che aveva appena attraversato. Cercava eventuali vagabondi, facce familiari o sospette. Era uno dei vantaggi dell’alloggiare vicino al canale: i ponti erano strettoie perfette da cui osservare chiunque lo volesse pedinare. Passando da una sponda all’altra su quelle lingue di pietra, avrebbe reso visibile qualunque coda si trascinasse dietro. Rimase a guardare per un intero minuto finché non fu soddisfatto, memorizzando volti e andature, poi proseguì.

In una missione minore come quella, era più un’abitudine dettata dalla paranoia che dalla necessità, ma portava al collo un ricordo di quanto fosse importante la diligenza: una catenina con un pendente a forma di drago. Era un regalo di un’agente che stava dall’altra parte. La portava per ricordarsi di essere prudente.

Mentre si rimetteva in cammino, sentì una vibrazione familiare in tasca. Tirò fuori il cellulare e lo aprì. Chi lo chiamava a quell’ora del mattino?

«Pierce», rispose.

«Gray, meno male che ti trovo.»

La voce suadente e familiare infuse calore alle sue membra infreddolite. I lineamenti duri si addolcirono con un sorriso. «Sara?» La preoccupazione rese incerti i suoi passi. «Qualcosa non va?»

Sara Veroni era il motivo principale per cui Gray aveva chiesto quell’incarico e attraversato l’Atlantico fino alla Danimarca. Qualsiasi assistente ricercatore della Sigma, anche di livello inferiore, avrebbe potuto gestire quell’indagine, ma la missione era un’occasione perfetta per rivedere la bellissima italiana dai capelli scuri, tenente dei carabinieri. I due si erano conosciuti lavorando allo stesso caso a Roma, l’anno precedente. Da allora avevano inventato ogni genere di scusa per potersi rincontrare. Ma era stato difficile. Sara era bloccata in Europa per via del suo lavoro e lui, data la sua posizione alla Sigma Force, poteva allontanarsi da Washington soltanto in misura limitata. Erano passate quasi otto settimane da quando si erano visti l’ultima volta.

Davvero troppo tempo.

Gray ripensò al loro ultimo incontro, in una villa a Venezia, alla sagoma di Sara che si stagliava contro la portafinestra del balcone, alla sua pelle illuminata dalla luce del tramonto. Avevano trascorso l’intera serata a letto. Si sentì inondare dai ricordi: il gusto di cioccolato e cannella sulle labbra di lei, l’intenso profumo dei suoi capelli umidi, il calore del suo respiro sul collo, i gemiti sommessi, il ritmo dei loro corpi intrecciati, la carezza della seta…

Pregò che lei si ricordasse di portare quel body nero.

«Il mio volo è stato posticipato», lo informò Sara, interrompendo le sue fantasticherie con la realtà.

«Cosa?» chiese lui, fermandosi in riva al canale, incapace di nascondere la delusione.

«Mi hanno dirottato su un volo KLM. Arriverò alle ventidue.»

Gray aggrottò le sopracciglia. Voleva dire cancellare la prenotazione al St. Gertruds Kloster, un ristorante a lume di candela, nei sotterranei del monastero medievale. Aveva dovuto prenotare il tavolo con una settimana d’anticipo.

«Mi spiace», disse Sara, riempiendo il silenzio.

«No… non ti preoccupare. Basta che arrivi. È l’unica cosa che conta.»

«Lo so. Mi manchi tanto.»

«Anche tu.»

Gray scosse la testa per la goffaggine della sua risposta. Aveva ben altro nel cuore, ma le parole si rifiutavano di uscire. Perché era sempre così? A ogni incontro, il primo giorno dovevano superare una certa formalità, una goffa timidezza. Era facile fantasticare di ritrovarsi immediatamente l’una tra le braccia dell’altro, ma la realtà era diversa. Nelle prime ore erano soltanto estranei con un passato in comune. Certo, si sarebbero abbracciati, baciati, avrebbero detto le cose giuste, ma l’intimità più profonda richiedeva qualche tempo, le ore necessarie per aggiornarsi a vicenda sulle loro vite al di là e al di qua dell’Atlantico. Ma soprattutto cercavano di ritrovare il loro ritmo, quella cadenza e quel calore che avrebbero acceso le fiamme della passione.

E ogni volta Gray temeva che non l’avrebbero ritrovata.

«Come sta tuo padre?» chiese Sara, cominciando i primi passi di quella danza.

Lui fu contento della digressione, anche se non necessariamente dell’argomento scelto. Ma almeno aveva buone notizie. «Sta molto bene. Ultimamente i sintomi si sono stabilizzati, soltanto qualche momento di confusione ogni tanto. Mia madre è convinta che il miglioramento sia dovuto al curry.»

«Al curry?»

«Esatto. Ha letto in un articolo che il curcumino, il pigmento giallo del curry, ha proprietà antiossidanti e antinfiammatorie e forse contribuisce anche a sciogliere le placche amiloidi attribuibili al morbo di Alzheimer.»

«Suona davvero promettente.»

«Perciò ora mia madre mette il curry ovunque. Anche nelle uova strapazzate che mio padre mangia a colazione. La casa ha lo stesso odore di un ristorante indiano.»

La dolce risata di Sara illuminò quella mattina tetra. «Almeno adesso cucina.»

Gray non poté trattenere un sorriso. Sua madre, professoressa di biologia alla George Washington University, non era mai stata nota per le sue doti di casalinga. Era sempre stata troppo impegnata a costruirsi una carriera, il che era diventato una necessità dopo che il padre di Gray era rimasto invalido in un incidente industriale, quasi vent’anni prima. Di recente, la famiglia aveva dovuto affrontare un nuovo problema: lo stadio iniziale del morbo di Alzheimer che aveva colpito il padre. La madre di Gray si era presa un breve periodo di congedo dall’università per occuparsi del marito, ma sembrava che fosse sul punto di ritornare a insegnare. Dato che le cose andavano così bene, era un momento propizio per Gray per fuggire da Washington per quel breve viaggio.

Prima che potesse replicare a Sara, il cellulare gli segnalò un’altra chiamata in arrivo. Gray controllò l’ID del chiamante. Dannazione…

«Sara, ho una chiamata in arrivo dal comando centrale. Devo rispondere, mi spiace.»

«Ah, va bene, allora ti lascio andare.»

«Aspetta, Sara. Il tuo nuovo numero di volo?»

«Volo KLM quattro zero tre.»

«Ricevuto. Ci vediamo questa sera.»

«A questa sera», gli fece eco lei prima di riagganciare.

Gray premette il tasto rapido per attivare l’altra chiamata. «Pierce.»

«Comandante Pierce.» L’accento smozzicato del New England identificò subito la persona all’altro capo della linea come il vice direttore della Sigma Force, Logan Gregory, che rispondeva esclusivamente al direttore, Painter Crowe. Con le sue consuete maniere sbrigative, Logan non sprecò parole. «Ci sono nuove voci che potrebbero essere collegate alla sua ricerca a Copenhagen. L’Interpol riferisce di un improvviso aumento dell’interesse per l’asta di oggi.»

Gray aveva attraversato un altro ponte. Si fermò di nuovo. Dieci giorni prima un database della National Security Agency aveva segnalato una serie di scambi sul mercato nero, tutti relativi a documenti storici appartenuti a scienziati dell’epoca vittoriana. Qualcuno stava raccogliendo manoscritti, trascrizioni, documenti legali, lettere e diari di quell’epoca, molti dei quali avevano seguito percorsi loschi da un proprietario all’altro. Normalmente, tutto ciò sarebbe stato poco interessante per la Sigma Force, che si concentrava su problematiche di sicurezza globale, ma il database della NSA collegava parecchie di quelle vendite a fazioni di organizzazioni terroristiche. E i flussi di denaro di quelle organizzazioni erano sempre esaminati a fondo.

Eppure non aveva senso. Se da una parte c’era una crescita del mercato di quei documenti storici, come investimenti speculativi, quella non era la sfera d’azione consueta della maggior parte delle organizzazioni terroristiche. Ma, d’altra parte, i tempi stavano cambiando.

In ogni caso, la Sigma era stata coinvolta per indagare sugli offerenti coinvolti. L’incarico di Gray consisteva nell’ottenere tutte le informazioni possibili sull’asta a inviti che si sarebbe tenuta nel pomeriggio. Ciò comportava, fra le altre cose, condurre ricerche sui diversi oggetti di particolare interesse messi all’asta da collezionisti locali e negozi di quella zona. Perciò aveva trascorso gli ultimi due giorni facendo visita alle librerie polverose e agli antiquari più affermati, nei vicoli di Copenhagen. L’aiuto maggiore l’aveva avuto in un negozio a Højbro Plads, di proprietà di un ex avvocato della Georgia. Grazie all’aiuto del concittadino espatriato, Gray era pronto. Il suo piano quella mattina era di passare al vaglio la sede dell’asta e piazzare qualche microcamera vicino a tutte le entrate e le uscite. All’asta, Gray avrebbe semplicemente osservato gli acquirenti e, se possibile, ne avrebbe ripreso il volto. Un incarico minore, ma, se serviva ad ampliare il database dei pesci piccoli nella guerra al terrorismo, tanto di guadagnato.

«Che cosa ha agitato le acque?» chiese Gray.

«Un nuovo articolo. Ha attratto l’attenzione di numerosi degli offerenti su cui stiamo indagando. È una vecchia Bibbia, appena messa in vendita da un privato.»

«E che cos’ha di tanto entusiasmante?»

«Secondo la descrizione dell’articolo, la Bibbia in origine apparteneva a Darwin.»

«Charles Darwin, il padre dell’evoluzionismo?»

«Esatto.»

Gray picchiettò una nocca sul parapetto di mattoni. Un altro scienziato dell’epoca vittoriana. Mentre rifletteva su quel fatto, studiava il ponte vicino.

Il suo sguardo si posò su un’adolescente che indossava un maglione blu scuro con la cerniera, col cappuccio in testa. Diciassette o diciotto anni, il viso pulito, la pelle color caramello. Indiana? Pakistana? Aveva lunghi capelli neri, almeno a giudicare da quell’unica treccia spessa che spuntava da un lato del cappuccio. Portava uno zaino verde sulla spalla sinistra, come molti altri studenti.

Ma Gray l’aveva già vista, quella ragazza: l’aveva vista attraversare il primo ponte. I loro occhi s’incrociarono per un attimo, a cinquanta metri di distanza. Lei distolse lo sguardo troppo in fretta. Una mossa poco accorta.

Lo stava seguendo.

Logan proseguì: «Ho caricato l’indirizzo del venditore nel database del suo telefono. Dovrebbe avere abbastanza tempo per parlarci prima dell’asta».

Gray diede un’occhiata all’indirizzo che compariva sullo schermo, localizzato in una cartina topografica. A otto isolati di distanza, appena fuori dalla Strøget, l’area pedonale che attraversava il cuore di Copenhagen. Non era molto lontano.

Ma prima di tutto…

Con la coda dell’occhio, Gray continuò a controllare il riflesso del ponte nelle acque placide del canale. In quello specchio tremolante, guardò la ragazza curvare la schiena, sollevando lo zaino nel vano tentativo di nascondere i propri lineamenti.

Si era accorta di essere stata scoperta?

«Comandante Pierce?» fece Logan.

La ragazza raggiunse l’estremità del ponte, si allontanò a passo sostenuto e scomparve in una stradina laterale. Gray aspettò per verificare se ritornava sui propri passi.

«Comandante Pierce, ha ricevuto quell’indirizzo?»

«Sì. Ci andrò.»

«Molto bene.» Logan riagganciò.

Dal parapetto del canale, Gray passò al vaglio l’area circostante, attendendo il ritorno della ragazza o la comparsa di eventuali complici. Rimpianse di aver lasciato la Glock da 9 mm nella cassetta di sicurezza dell’hotel. Ma le istruzioni della casa d’aste avvisavano tutti gli invitati che sarebbero stati perquisiti all’entrata, passando anche attraverso un metal detector. L’unica arma che aveva era un coltello di plastica al carbonio, in un fodero nascosto negli stivali. Nient’altro.

Gray aspettò.

Intanto la città si stava risvegliando e un traffico di pedoni cominciava a fluire attorno a lui. Alle sue spalle, un negoziante dall’aspetto cadaverico stava riempiendo di ghiaccio una serie di cassette e gettandovi sopra una selezione di pesce fresco: sogliola di Dover, merluzzo, cicerello e l’onnipresente aringa.

Alla fine l’odore lo scacciò dalla sua postazione sul canale. Si allontanò, guardandosi le spalle con particolare cautela. Forse era troppo paranoico, ma nella sua professione una nevrosi di quel genere era salutare. Tastò il pendaglio a forma di drago che portava al collo e s’inoltrò nel centro cittadino.

Dopo alcuni isolati, si sentì abbastanza sicuro per tirar fuori un taccuino. Sulla prima pagina erano appuntati gli oggetti di particolare interesse che sarebbero stati messi all’asta quel pomeriggio.


1. Una copia del trattato di genetica di Gregor Mendel del 1865.

2. I libri di fisica di Max Planck:Thermodynamik del 1897 eTheorie der Wärmestrahlung del 1906, entrambi firmati dall’autore.

3. Il diario del botanico Hugo De Vries sulle mutazioni vegetali, del 1901.

Gray aveva annotato tutte le informazioni possibili su quegli oggetti, grazie alle ricerche del giorno precedente. Appuntò l’ultimo articolo.


4. La Bibbia di famiglia di Charles Darwin.

Mentre richiudeva il taccuino, si chiese per la centesima volta da quando era arrivato: Qual è il collegamento?

Forse era meglio lasciar risolvere quell’enigma a qualche altro membro della Sigma. Pensò di chiedere a Logan di raccontare alcuni dei particolari ai suoi colleghi Monk Kokkalis e Kathryn Bryant. I due si erano rivelati esperti nel mettere assieme i dettagli e costruire schemi dove non ne esistevano. Ma, d’altra parte, forse non c’era davvero nessuno schema. Era troppo presto per dirlo. Gray doveva raccogliere qualche informazione in più, qualche fatto concreto, soprattutto su quell’ultimo articolo.

Fino ad allora, avrebbe lasciato in pace i due piccioncini.

Washington, D.C.,

ore 21.32 (ora locale)

«Davvero?» Monk appoggiò il palmo della mano sul ventre nudo della donna che amava. S’inginocchiò accanto al letto, con indosso i pantaloni della tuta Nike nera e arancione. La sua maglietta bagnata era sul parquet, dove l’aveva gettata dopo il jogging della sera. Nella speranzosa aspettativa, aveva inarcato le sopracciglia, gli unici peli rimasti sulla testa rasata.

«Sì», confermò Kat. Spostò delicatamente la mano di lui e si lasciò rotolare giù dall’altro lato del letto.

Il sorriso di Monk si dilatò. Non riusciva a trattenersi. «Sei sicura?»

Kat si diresse verso il bagno, con indosso soltanto un paio di mutandine bianche e una maglietta Georgia Tech di taglia enorme. I capelli castano chiari, dai riflessi ramati, le ricadevano sciolti sulle spalle. «Avevo un ritardo di cinque giorni», rispose imbronciata. «Ho fatto un test di gravidanza EPT ieri.»

Monk si alzò. «Ieri? Perché non me l’hai detto?»

La donna scomparve in bagno, lasciando la porta socchiusa.

«Kat?»

La sentì aprire l’acqua della doccia. Girò attorno al letto e raggiunse l’entrata del bagno. Voleva saperne di più. Kat gli aveva dato quella notizia esplosiva quando lui era tornato dal jogging. L’aveva trovata raggomitolata sul letto, con gli occhi e il viso gonfi. Aveva pianto. C’era voluta un po’ di persua sione per scoprire che cosa l’avesse afflitta tutto il giorno.

Bussò alla porta. Suonò più forte e più pressante di quanto non intendesse. Guardò con cipiglio la mano incriminata. La protesi a cinque dita era l’ultimo ritrovato, pieno zeppo dei più moderni gadget della DARPA. Gli avevano dato quella mano dopo che aveva perso la sua in una missione, ma plastica e metallo non erano come la carne. Quando aveva bussato alla porta era sembrato che volesse abbatterla.

«Kat, parlami», disse con gentilezza.

«Faccio solo una doccia rapida.»

Quelle parole erano appena sussurrate, ma Monk percepì la tensione nella voce di lei. Sbirciò nel bagno. Anche se si frequentavano da quasi un anno e ormai lui aveva un suo cassetto nell’appartamento di lei, c’erano dei limiti all’intimità.

Kat era seduta sul water chiuso dal coperchio, con la testa tra le mani.

«Kathryn…»

Lei alzò lo sguardo, evidentemente sorpresa dall’intrusione. «Monk!» Si sporse verso la porta, per chiuderla completamente.

Lui la bloccò col piede. «Non stavi davvero usando il gabinetto.»

«Aspettavo che si scaldasse l’acqua della doccia.»

Entrando, Monk notò lo specchio appannato. La stanza profumava di gelsomino, una fragranza che evocava e rimescolava un sacco di cose dentro di lui. Fece un passo avanti e s’inginocchiò ancora una volta di fronte a lei.

La donna si ritrasse.

Lui posò le mani, una di carne, una sintetica, sulle sue ginocchia.

Lei evitava di guardarlo negli occhi, il capo ancora chino.

Lui le divaricò le ginocchia, si chinò tra di esse e fece scorrere le mani all’esterno delle cosce di lei, fino a prenderle i glutei. Poi la attirò verso di sé.

«Devo…» cominciò lei.

«Devi venire qui.» La sollevò e poi se l’adagiò in grembo, seduta a cavalcioni su di lui. I loro visi non distavano più di un respiro.

Finalmente lei lo guardò negli occhi. «Scusa… mi dispiace!»

Lui le si avvicinò ancora di più. «Per cosa?» Le loro labbra si sfiorarono.

«Avrei dovuto stare più attenta.»

«Non ricordo di essermi lamentato.»

«Ma questo genere di errori…»

«Mai.» La baciò vigorosamente, non con rabbia, ma con rassicurante fermezza. Sussurrò tra le labbra di lei: «Non chiamarlo mai così».

Lei si sciolse nel suo abbraccio, cingendolo attorno al collo. Aveva i capelli profumati di gelsomino. «Che cosa facciamo?»

«Forse non so tutto, ma la risposta a questa domanda ce l’ho.»

Rotolando su un fianco, la adagiò sul tappetino su cui era seduto.

«Oh…» sospirò lei.

Copenhagen, Danimarca,

ore 07.55

Gray era seduto nel caffè di fronte alla piccola bottega di antiquariato e studiava l’edificio sul lato opposto della strada.

Sulla vetrina era impressa la scritta SJÆLDEN BØGER, LIBRI RARI. La bottega occupava il piano terra di una villetta a schiera a due livelli, col tetto di mattoni rossi. Sembrava una costruzione identica alle sue vicine, allineate l’urta accanto all’altra lungo la strada. E come le altre, in quel quartiere meno benestante della città, era in cattivo stato. Le finestre del piano superiore erano sbarrate con assi di legno e anche la vetrina del negozio era protetta da un’inferriata di acciaio a saracinesca.

Chiusa, per il momento.

Mentre Gray aspettava che la bottega aprisse, studiava l’edificio con occhio clinico, sorseggiando la versione danese della cioccolata calda, talmente densa che somigliava a una barretta di Mars sciolta. Scrutò dietro le assi di legno alle finestre. Pur essendo decrepita, la costruzione conservava il fascino del Vecchio Mondo: finestre dell’abbaino sporgenti come occhi di civetta, pesanti travi a vista che s’intersecavano al piano superiore e un tetto spiovente sempre pronto a scrollarsi di dosso le nevicate di un lungo inverno. Gray individuò persino vecchie cicatrici sotto le finestre, dove un tempo erano state avvitate le fioriere.

Rifletté sui possibili interventi di ristrutturazione, per riportare l’edificio agli antichi splendori, ricostruendolo mentalmente, un esercizio che combinava ingegneria ed estetica.

Gli sembrava quasi di sentire l’odore della segatura.

Quell’ultimo pensiero rovinò improvvisamente il sogno a occhi aperti. S’intromisero altri ricordi, non invitati e indesiderati: la falegnameria di suo padre in garage, dove lavorava con lui dopo la scuola. Ciò che iniziava come un semplice progetto di restauro, si concludeva spesso in scontri a base di urla e parole troppo dure da ritirare. Alla fine, le continue battaglie avevano spinto Gray a lasciare la scuola superiore e arruolarsi nell’esercito. Solo di recente padre e figlio avevano trovato nuovi modi di comunicare e un terreno comune, accettando le differenze.

Tuttavia, Gray era ancora ossessionato da un’osservazione estemporanea fatta dalla madre. Sosteneva che padre e figlio fossero più simili che dissimili. Perché ultimamente quella frase lo disturbava così tanto? Gray cercò di scacciare quei pensieri e scosse la testa.

Aveva perso la concentrazione. Guardò l’orologio, ansioso di proseguire quella giornata. Aveva già passato al vaglio la sede dell’asta e piazzato due telecamere ai punti d’accesso, sul davanti e sul retro. Non gli restava che parlare col proprietario di quella bottega, per indagare sulla Bibbia, e fare qualche fotografia dei partecipanti all’asta. Così il suo compito si sarebbe esaurito, lasciando spazio a un lungo fine settimana da trascorrere con Sara.

Il pensiero del sorriso di lei sciolse il nodo che gli si era formato tra le scapole. Finalmente, dall’altro lato della strada, suonò una campana. La porta della bottega si aprì e la saracinesca di sicurezza cominciò a salire.

Gray drizzò la schiena, sorpreso nel constatare chi aveva aperto il negozio. Una lunga treccia nera, carnagione caffellatte, grandi occhi a mandorla. Era la stessa ragazza che lo aveva seguito quella mattina. Portava anche la stessa felpa e lo zaino verde malconcio.

Gray tirò fuori una manciata di banconote e la lasciò sul tavolino del caffè. Attraversò a grandi passi la stradina, mentre la ragazza finiva di agganciare la saracinesca.

Lei gli lanciò un breve sguardo, per nulla sorpresa. «Vediamo se riesco a indovinare», disse in un inglese asciutto, ma infarcito da un accento britannico, mentre lo scrutava da capo a piedi. «Americano.»

Quei modi bruschi lo infastidirono, però mantenne un’espressione di mite curiosità, non dando a intendere in nessun modo di sapere che lei lo aveva seguito. «Come fai a saperlo?»

«Il modo di camminare. Come se avessi un manico di scopa infilato dove puoi immaginare. Ti tradisce subito.»

«Davvero?»

Lei chiuse la serratura della saracinesca. Gray notò che portava diverse spille sulla felpa: una bandiera arcobaleno di Greenpeace, un simbolo celtico argentato, un ankh egiziano dorato e un variopinto assortimento di distintivi con slogan in danese, oltre a uno in inglese che diceva GO LEMMINGS GO. Indossava anche un braccialetto di gomma bianco con impressa la parola HOPE.

Gli fece cenno di togliersi dai piedi, ma, prima ancora che potesse scostarsi, lo urtò mentre gli passava davanti. Attraversò la strada camminando a ritroso. «Il negozio apre fra un’ora. Mi spiace, amico.»

Gray rimase sulla soglia, guardando alternativamente la porta del negozio e la ragazza. Era diretta al caffè. Passando accanto al tavolino che lui aveva appena lasciato, raccolse una delle banconote depositate da Gray ed entrò. Lui restò in attesa. Attraverso la vetrina, la guardò ordinare due caffè e pagare con la banconota appena rubata.

Ritornò con due grandi bicchieri di polistirolo. «Ancora qui?»

«Non so dove altro andare, al momento.»

«Peccato.» La ragazza indicò la porta chiusa con un cenno del capo e sollevò entrambe le mani. «Be’?»

«Ah.» Gray si voltò e le aprì la porta.

La ragazza entrò di volata. «Bertal!» gridò, poi si voltò a guardare Gray. «Hai intenzione di entrare o cosa?»

«Credevo che avessi detto…»

«Basta con questa commedia», disse, facendo roteare gli occhi. «Come se non mi avessi visto, prima.»

Gray s’irrigidì. Allora non era soltanto una coincidenza. La ragazza lo aveva seguito davvero.

Lei gridò ancora, rivolta verso l’interno del negozio: «Bertal! E muovi il… codone!»

Confuso e diffidente, Gray la seguì nel negozio. Rimase nei pressi della porta, pronto a ogni evenienza. La bottega era stretta come un vicolo. Su ogni lato si ergevano scaffalature alte fino al soffitto, piene zeppe di ogni genere di libri, volumi, testi e opuscoli. Qualche passo più avanti, il corridoio centrale era costeggiato da due vetrinette chiuse a chiave. All’interno c’erano libri di cuoio sgretolati e, a quanto sembrava, rotoli di pergamena conservati in provette bianche a prova di acidi.

Gray continuò a guardarsi attorno.

Nella luce obliqua del sole mattutino, l’aria pullulava di granellini di polvere sospesi e sapeva di vecchio. Sembrava che si sgretolasse come l’ammasso di carta custodito nella bottega.

Eppure, nonostante la decrepitezza dell’edificio, la bottega risplendeva di una grazia accogliente, dalle nicchie di vetro colorato nelle pareti alle scalette appoggiate agli scaffali. C’era anche un’invitante coppia di poltrone imbottite accanto alla vetrina, all’entrata.

E la cosa migliore…

Gray fece un respiro profondo.

Niente gatti.

Il motivo divenne ben presto evidente. Da dietro uno degli scaffali, comparve una grande forma irsuta, che avanzava pesantemente. Sembrava un incrocio di San Bernardo, un vecchio cagnone con gli occhi marroni cascanti. Si trascinò pigramente verso di loro, zoppicando sulla zampa anteriore sinistra, che era una protuberanza deforme.

«Ecco qua, Bertal.» La ragazza si chinò e versò il contenuto di uno dei bicchieri di polistirolo in una ciotola di ceramica sul pavimento. «Questo beone rognoso è inservibile senza la sua tazza di caffellatte alla mattina.» L’ultima frase fu pronunciata con evidente affetto.

Il San Bernardo si avvicinò a loro e cominciò a lappare avidamente dalla ciotola.

«Penso che il caffè non faccia bene ai cani», l’ammonì Gray.

La ragazza si raddrizzò, gettandosi la treccia dietro le spalle. «Nessun problema, è decaffeinato», replicò, e continuò a addentrarsi nella bottega.

«Che ha fatto alla zampa?» chiese Gray, tanto per parlare, mentre si adeguava alla nuova situazione. Diede una pacca sul fianco al cane mentre passava, meritandosi in cambio un colpetto di coda.

«Congelamento. Mutti l’ha raccolto dalla strada molto tempo fa.»

«Mutti?»

«Mia nonna. Ti sta aspettando.»

Dal fondo del negozio giunse una voce. «Fiona?»

«C’è il compratore americano, nonna. Mutti ti riceverà nel suo ufficio.» La ragazza, Fiona, lo condusse verso il retro. Il cane, dopo aver finito il suo caffè mattutino, li seguì, a ridosso di Gray.

A metà del negozio, passarono davanti a una piccola scrivania attrezzata con un registratore di cassa, un computer e una stampante Sony. A quanto sembrava, l’era moderna aveva preso piede anche lì.

«Abbiamo un sito web tutto nostro», spiegò Fiona, notando il suo sguardo.

Superata la cassa, entrarono in una stanza sul retro. Lo spazio era organizzato più come un salotto che come un ufficio. C’erano un divano, un tavolino e due sedie. Anche la scrivania nell’angolo sembrava servire soprattutto da appoggio per la piastra elettrica e il bollitore per il tè piuttosto che per funzioni impiegatizie. Contro una delle pareti, però, era allineata una serie di casellari. Più su, una finestra con le sbarre lasciava passare la luce del mattino, a illuminare l’unica occupante dell’ufficio.

La donna si alzò e gli porse la mano. «Dottor Sawyer», disse, usando il nome che Gray aveva assunto per la missione. Evidentemente aveva fatto qualche ricerca su di lui. «Sono Grette Neal.»

La donna aveva una presa ferma. Era magra come un chiodo e, sebbene molto pallida, sprizzava salute da tutti i pori. Indicò a Gray una delle sedie. Aveva modi informali quanto i suoi abiti: jeans blu scuro, una camicetta turchese e un paio di modeste scarpe da tennis nere. I lunghi capelli argentei erano pettinati lisci, ad accentuare un contegno serio, ma gli occhi le brillavano di arguzia e ironia.

«Ha già conosciuto mia nipote.» Grette Neal parlava un inglese scorrevole e spedito, ma l’accento danese era evidente. Ben diverso da quello della nipote.

Gray guardò alternativamente l’anziana diafana e la ragazza dalla pelle scura. Non c’era nessuna somiglianza, ma Gray non si pronunciò in proposito. Aveva questioni più importanti da chiarire. «Sì, ci siamo conosciuti. In effetti, sembra che oggi io abbia già incontrato due voltesua nipote.»


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