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L'ordine del sole nero
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Автор книги: James Rollins


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13. XERUM 525

Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,

ore 10.34

Painter era seduto a gambe incrociate nella capanna di mattoni di fango ed erba intrecciata, con una serie di mappe e schemi tutt’attorno. L’aria odorava di concime e polvere, ma il piccolo accampamento zulù era un perfetto punto di raccolta, ad appena dieci minuti dalla tenuta dei Waalenberg.

Di quando in quando gli elicotteri della sicurezza si levavano in volo dalla tenuta e sorvolavano l’accampamento, sorvegliando i confini, ma Paula Kane aveva orchestrato tutto quanto per bene. Dall’alto, il piccolo villaggio sembrava soltanto una stazione di sosta per le tribù nomadi di zulù. Nessuno avrebbe potuto sospettare che in una di quelle capanne primitive fosse in corso una riunione.

Si erano radunati per mettere assieme le proprie risorse e decidere una strategia.

Gunther e Anna erano seduti di fronte a Painter, mentre Lisa era al suo fianco, come sempre, dal loro arrivo in Africa, con un’espressione decisa, ma lo sguardo preoccupato. Il maggiore Brooks era in piedi accanto all’uscita, nell’ombra, sempre vigile, con la mano sulla fondina della pistola.

Ascoltavano tutti attentamente il resoconto di Khamisi. Con lui c’era un nuovo arrivato: Monk Kokkalis.

Con grande sorpresa di Painter, Monk era giunto all’accampamento con un giovane esausto e scioccato. L’agente aveva trascorso l’ultima ora a raccontare l’accaduto, rispondere alle domande e colmare i vuoti.

Anna fissava con occhi iniettati di sangue la serie di rune che Monk aveva appena disegnato. Allungò una mano tremante verso il foglio. «Queste sono tutte le rune contenute nei libri di Hugo Hirszfeld?»

Monk annuì. «E quel vecchio schifoso era convinto che fossero determinanti per una fase successiva del suo piano.»

Lo sguardo di Anna si spostò su Painter. «Il dottor Hirszfeld era il supervisore del progetto Sole Nero. Come le ho già detto, era convinto di aver risolto l’enigma della Campana e aveva completato un ultimo esperimento in segreto, da solo, che, a suo dire, aveva generato un bambino perfetto, non corrotto da tare o involuzioni. Un Cavaliere del Sole sano. Ma il suo metodo… come abbia fatto… nessuno lo sa.»

«E poi c’è la lettera che ha scritto a sua figlia», aggiunse Painter. «Qualsiasi cosa abbia scoperto lo ha spaventato: Una verità troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata.Perciò ha nascosto il suo segreto in questo codice di rune.»

Anna sospirò, stanca. «E Baldric Waalenberg era talmente sicuro di poter risolvere l’enigma e impadronirsi delle conoscenze perdute, che ha distrutto il Granitschloß.»

«Credo che ci sia qualcos’altro, oltre al fatto che non servivate più», commentò Painter. «Penso che lei avesse ragione, prima. Il vostro gruppo era una minaccia crescente, perché parlavate di uscire allo scoperto. Lui era a un passo dalla perfezione, dalla realizzazione del sogno ariano, e non poteva rischiare che voi rovinaste tutto.»

Anna avvicinò a sé il foglio con le rune. «Se Hugo aveva ragione, decifrare questo codice potrebbe rivelarsi essenziale per curare la nostra involuzione. La Campana ha già la capacità di rallentare la nostra malattia, ma, se riuscissimo a risolvere questo enigma, potrebbe darci una guarigione completa.»

«Prima di tutto dobbiamo accedere alla Campana dei Waalenberg», intervenne Lisa. «Poi potremo preoccuparci delle cure.»

«E Gray?» chiese Monk. «E la ragazza?»

Painter mantenne un’espressione impassibile. «Non sappiamo se è nascosto, se è stato catturato o se è morto. Per il momento, il comandante Pierce deve contare soltanto su se stesso.»

Il viso di Monk s’inasprì. «Posso intrufolarmi di nuovo là dentro, usando la mappa di Khamisi.»

«No, adesso dobbiamo rimanere uniti.» Painter si sfregò la testa, dietro l’orecchio destro, in preda a un dolore lancinante. I suoni divennero echi lontani e sentì montare la nausea.

Monk lo fissava. Lui fece un gesto, come a cancellare la preoccupazione del collega. Ma qualcosa nello sguardo di Monk suggeriva che non fosse preoccupato soltanto dei disturbi fisicidel suo capo.

Painter stava prendendo le giuste decisioni? Le sue facoltà mentali erano intatte? La mano di Lisa si appoggiò sul suo ginocchio, come se intuisse la sua costernazione.

«Sto bene», borbottò lui, rivolto sia a se stesso sia a lei.

A prevenire qualsiasi ulteriore indagine, il tappeto appeso alla porta fu scostato, facendo penetrare la luce e il calore del sole. Chinandosi, Paula Kane entrò nella capanna buia, seguita da un anziano zulù in tenuta cerimoniale: penne, piume e una pelle di leopardo decorata con perline colorate. Anche se aveva circa sessantacinque anni, il suo viso era privo di rughe e sembrava scolpito nella pietra. Aveva la testa rasata e portava un bastone di legno guarnito di piume, ma anche un fucile antico, che sembrava più un paramento che un’arma funzionante.

Mentre si alzava, Painter lo riconobbe: era un vecchio fucile inglese a pietra focaia e anima liscia, un Brown Bess che risaliva alle guerre napoleoniche.

Paula presentò l’ospite: «Mosi D’Gana, capo zulù».

L’anziano parlava un inglese chiarissimo. «È tutto pronto.»

«Grazie per la sua assistenza», disse Painter, in tono formale.

Mosi annuì appena. «Ma non è per voi che prendiamo le lance. Abbiamo un credito coi voortrekker per Blood River.»

Paula spiegò di cosa si trattava. «Quando gli inglesi hanno scacciato i boeri olandesi da Città del Capo, questi si sono insediati nell’entroterra e sono entrati in contatto con le tribù indigene, xhosa, pondo, swazi e zulù. Nel 1838, lungo un affluente del Buffalo River, gli zulù furono traditi: fu un massacro. Il corso d’acqua è stato ribattezzato Blood River, fiume di sangue. Il voortrekker responsabile dell’assalto era Piet Waalenberg.»

Mosi sollevò la sua vecchia arma e la porse a Painter. «Noi non dimentichiamo.»

Painter non dubitava che quel fucile fosse stato usato in quella infame battaglia. Accettò l’arma, sapendo che il passaggio del vecchio fucile a pietra focaia suggellava un patto.

Con grande scioltezza, Mosi si mise a sedere a gambe incrociate. «Abbiamo molto da pianificare.»

Paula fece un cenno a Khamisi e tenne scostato il tappeto alla porta. «Il tuo furgone è pronto. Tau e Njongo stanno già aspettando.» Guardò l’orologio. «Dovrai sbrigarti.»

Il guardacaccia si alzò. Ognuno aveva un compito da svolgere prima che calasse la notte.

Painter incrociò lo sguardo di Monk. Ancora una volta, lesse la preoccupazione negli occhi del collega, ma non era per lui, era per Gray. Mancavano otto ore al tramonto, e non c’era nulla che potessero fare sino ad allora.

Gray era solo.

ore 12.05

«Tieni giù la testa», bisbigliò Gray a Fiona.

Avanzarono rapidamente verso la guardia in fondo al corridoio. Gray indossava un’uniforme mimetica, con tanto di stivali alla scudiera e berretto nero, con la visiera abbassata sugli occhi. La guardia che gli aveva prestato quella tenuta era priva di sensi, imbavagliata e legata, in un armadio delle camere da letto dei piani superiori.

Gray aveva preso anche la radio e l’auricolare. Le comunicazioni erano interamente in olandese, difficile da comprendere, ma quantomeno si facevano un’idea degli eventi.

Fiona era vestita da cameriera. L’uniforme era un po’ larga, ma era meglio nascondere la sua sagoma e la sua età. La maggior parte del personale della tenuta era costituita da indigeni, con la pelle più o meno scura, come era tipico nelle case degli afrikander. Le origini pakistane di Fiona e la sua carnagione si adattavano bene al contesto. Coi capelli nascosti in una cuffia, poteva essere scambiata per un’indigena. Per completare la messa in scena, camminava a passi piccoli, con atteggiamento remissivo, le spalle cascanti e la testa bassa.

Fino a quel momento i loro travestimenti non erano stati messi alla prova.

Si era diffusa la voce che Gray e Fiona erano stati avvistati nella giungla. Tutte le uscite del palazzo erano bloccate e la pattuglia era ridotta all’osso. Quasi tutte le forze di sicurezza erano impegnate a setacciare la foresta e i confini della tenuta.

Purtroppo, però, la sicurezza non era così esigua da lasciare accessibile una linea telefonica esterna. Poco dopo aver utilizzato la chiave di Ischke per rientrare nel palazzo, Gray aveva provato alcuni telefoni, ma per accedere alla linea bisognava passare attraverso una rete codificata. Qualsiasi tentativo di telefonare li avrebbe smascherati.

Perciò avevano poche opzioni. Potevano nascondersi, ma a che scopo? Chi sapeva quando o se Monk avrebbe raggiunto il mondo civile? Quindi dovevano essere più intraprendenti. Il piano era procurarsi innanzitutto una piantina del palazzo, ma per farlo dovevano infiltrarsi nella postazione principale della sicurezza. Le loro uniche armi erano la pistola che portava Gray e un Taser che Fiona aveva in tasca.

Davanti a loro, alla fine del corridoio, una sentinella era appostata sulla balconata, di guardia all’entrata principale, con un fucile automatico. Gray si avvicinò all’uomo alto e corpulento, con palpebre pesanti che lo facevano apparire viscido e meschino. Gli fece un cenno e proseguì verso le scale, tallonato da Fiona.

Andò tutto bene.

Poi l’uomo disse qualcosa in olandese. Era oltre le capacità di comprensione di Gray, ma quelle parole suonavano sconce e terminarono in una bassa risata gutturale.

Girandosi per metà, Gray vide la guardia dare un pizzicotto sul sedere a Fiona, mentre con l’altra mano la prendeva per un braccio.

Mossa sbagliata.

Fiona si voltò verso l’uomo. «Vaffanculo, segaiolo.»

La gonna della ragazza gli sfiorò il ginocchio. Un lampo blu le attraversò la tasca e colpì la coscia dell’uomo. Il suo corpo s’inarcò, mentre emetteva un gorgoglio smorzato.

Gray lo afferrò prima che cadesse. Mentre era ancora in preda alle convulsioni tra le sue braccia, Gray lo trascinò dal pianerottolo a una delle stanze laterali. Lo lasciò cadere a terra, lo colpì in testa col calcio della pistola e cominciò a imbavagliarlo e legarlo. «Perché l’hai fatto?»

Fiona gli girò attorno e gli pizzicò il sedere, forte.

«Ehi!» esclamò lui, alzandosi e girandosi di scatto.

«Ti è piaciuto?» chiese Fiona.

Messaggio ricevuto. Comunque Gray l’avvertì: «Non posso continuare a legare questi bastardi».

Fiona si alzò con le braccia conserte. Lo sguardo, per quanto furente, era anche impaurito.

Lui non poteva biasimarla per il suo nervosismo. Si asciugò il sudore dalla fronte. Forse era meglio che si nascondessero, sperando che qualcuno li venisse a salvare.

La radio di Gray gracchiò. Qualcuno aveva notato la loro aggressione vicino alle scale? Cercò di dare un senso a quel garbuglio di suoni. «… ge’vangene…portare all’ingresso principale…»

Di quello che seguì, Gray capì ben poco, a parte la parola ge’vangene, prigioniero.

Poteva significare soltanto una cosa.

«Hanno catturato Monk…» bisbigliò, sentendosi raggelare. «Andiamo.» Dopo aver alleggerito la guardia del Taser, uscì dalla stanza.

Ritornarono verso le scale. Gray sussurrò il suo piano a Fiona mentre scendevano di corsa fino all’ingresso principale. L’atrio davanti a loro era sgombro.

Attraversarono il pavimento lucido, con l’eco dei loro passi che risuonava tutt’attorno. Le pareti erano ornate da trofei imbalsamati: la testa di un rinoceronte nero, specie in via d’estinzione, un imponente leone, con la criniera mangiata dalle falene, una fila di antilopi con corna di diverso tipo.

Quando raggiunsero l’ingresso, Fiona estrasse dalla tasca del grembiule uno spolverino di piume, che faceva parte del suo travestimento, e si portò a un lato della porta. Fucile alla mano, Gray si appostò dall’altra parte.

Non dovettero aspettare a lungo: fecero appena in tempo a mettersi in posizione.

Quante guardie avrebbero accompagnato Monk?

Almeno era vivo.

La saracinesca di metallo dell’entrata principale cominciò a sollevarsi rumorosamente. Gray si chinò per contare le gambe. Due guardie accompagnavano un prigioniero con la tuta bianca.

Gray si fece vedere, mentre la saracinesca finiva la sua corsa.

Le guardie lo scambiarono per una sentinella che sorvegliava la porta. Entrarono col prigioniero al seguito. Nessuno dei due notò che Gray aveva in mano un Taser, né che Fiona si avvicinava dall’altro lato.

L’attacco si concluse in un attimo.

Le due guardie si contorcevano sul tappeto, coi talloni che battevano a terra. Gray diede un calcio in testa a ciascuno, forse più forte di quanto avrebbe dovuto, ma la rabbia aveva preso il sopravvento.

Il prigioniero non era Monk.

«Chi è lei?» chiese Gray, mentre trascinava rapidamente la prima guardia verso un ripostiglio lì vicino.

La donna canuta usò il braccio libero per aiutare Fiona con la seconda guardia. Era più forte di quanto non sembrasse. Aveva il braccio sinistro bendato e appeso al collo con una fascia. Il suo profilo sinistro era devastato da brutti graffi, suturati e non ancora cicatrizzati.

Nonostante le recenti ferite, si rivolse a Gray con uno sguardo intenso e determinato. «Sono la dottoressa Marcia Fairfield.»

ore 12.25

La Jeep procedeva lentamente lungo il sentiero.

Al volante, il sovrintendente Gerald Kellog si asciugava la fronte sudata. Teneva tra le gambe una bottiglia di Birkenhead Premium Lager.

Nonostante la mattinata frenetica, Kellog non voleva rinunciare alle sue abitudini. D’altro canto, non c’era molto che potesse fare. Gli addetti alla sicurezza della tenuta dei Waalenberg l’avevano informato sommariamente degli eventi: una fuga. Il sovrintendente aveva già avvisato i ranger del parco e appostato uomini a tutti i cancelli. Aveva distribuito fotografie, faxate dalla tenuta Waalenberg. Bracconieri, armati e pericolosi. Quella era la copertura.

Finché non veniva comunicato un avvistamento, Kellog non aveva motivo per astenersi dalla sua consueta pausa pranzo di due ore, a casa. Il martedì era il giorno dell’arrosto di pernice con patate dolci. La Jeep attraversò la griglia di contenimento del bestiame ed entrò nel viale, fiancheggiato da basse siepi. In fondo c’era una casa a due piani, con modanature in stile coloniale, circondata da un terreno di proprietà di mezzo ettaro, una delle prerogative della posizione di sovrintendente. Uno staff di dieci persone si occupava della proprietà e del suo unico occupante. Il sovrintendente non aveva fretta di sposarsi.

Perché comprare una vacca quando si può avere il latte gratis?

In più, lui preferiva i frutti non ancora maturi.

Aveva una nuova ragazza in casa, la piccola Aina, un’undicenne nigeriana, nera come la pece, giusto come piacevano a lui, perché nascondevano meglio le botte. Non che dovesse rendere conto a qualcuno. Aveva un servitore swazi, Mxali, un bruto reclutato in prigione, che gestiva la casa con disciplina e terrore. Tutti i problemi venivano risolti rapidamente, quando era necessario. E i Waalenberg erano ben felici di aiutarlo a far scomparire eventuali seccatori. Che cosa ne fosse di loro dopo che venivano scaricati dall’elicottero alla tenuta Waalenberg, Gerald preferiva non saperlo. Ma aveva sentito qualche voce in proposito.

Sebbene fosse un caldo mezzogiorno, rabbrividì.

Meglio non fare troppe domande.

Parcheggiò l’auto all’ombra di un’acacia, scese e percorse a grandi passi il sentiero inghiaiato che conduceva alla porta laterale, da cui si accedeva alla cucina. Un paio di giardinieri stavano zappando un’aiuola. Quando Gerald passò, tennero gli occhi bassi, come era stato loro insegnato.

Il profumo dell’arrosto e dell’aglio gli stuzzicarono l’appetito, guidandolo su per i tre gradini di legno, fino alla porta a zanzariera aperta. Quando entrò in cucina, gli brontolava già lo stomaco.

Sulla sinistra, vide il cuoco inginocchiato sul pavimento, con la testa infilata nel forno. Kellog guardò perplesso quel quadretto.

Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che non era il cuoco. «Mxali…»

Kellog si accorse finalmente dell’odore di carne bruciata nascosto dal profumo dell’aglio. Qualcosa sporgeva dal braccio dell’uomo: una freccetta piumata. L’arma preferita di Mxali.

Qualcosa era andato terribilmente storto.

Kellog fece un passo indietro, voltandosi verso la porta.

I due giardinieri avevano lasciato cadere le zappe e tenevano ciascuno un fucile puntato al suo pancione enorme. Non era insolito che piccole bande di predoni, immondizia delle township nere, saccheggiassero le fattorie e le case più isolate. Kellog alzò le mani, mentre gli si accapponava la pelle dal terrore.

Lo scricchiolio di una tavola lo fece girare dall’altra parte.

Un’ombra emerse dall’oscurità della stanza accanto.

Kellog rimase senza fiato quando riconobbe l’intruso.

Non era un predone, ma molto peggio: un fantasma.

«Khamisi…»

ore 12.30

«Allora, che cos’ha esattamente?» chiese Monk, indicando col pollice una delle capanne vicine. Painter vi si era appartato col telefono satellitare della dottoressa Kane, per conferire con Logan Gregory.

Monk era seduto su un tronco assieme alla dottoressa Lisa Cummings, sotto la veranda di un’altra capanna. Per quanto fosse coperta di polvere e avesse un accenno di occhiaie, la dottoressa era una bella donna.

«Le sue cellule si stanno snaturando: si dissolvono dall’interno. Così dice Anna Sporrenberg, che ha studiato a lungo gli effetti deleteri delle radiazioni della Campana. Causa un arresto delle funzioni di molteplici organi. Anche suo fratello Gunther soffre di una patologia cronica di questo tipo, ma nel suo caso il tasso di degenerazione è rallentato da un sistema immunitario più potente. Anna e Painter, esposti da adulti a un’overdose di radiazioni, non hanno una simile protezione.» Entrò nei dettagli, sapendo che Monk aveva alle spalle una formazione medica. Riduzione delle piastrine, aumento dei livelli di bilirubina, edema, dolori muscolari con contratture del collo e delle spalle, infarti ossei, epatosplenomegalia, soffio al cuore e strane calcificazioni delle estremità distali e dell’umor vitreo degli occhi.

Quel che contava, però, era una sola domanda. «Quanto tempo gli rimane?»

Lisa sospirò, guardando la capanna in cui Painter era svanito. «Non più di un giorno. Anche se si trovasse una cura oggi, temo che ci potrebbero essere danni permanenti.»

«Ha notato come biascicava… come si mangiava le parole? Sono i farmaci, oppure…»

Lisa si voltò brevemente verso di lui, con uno sguardo più sofferente. «Non sono soltanto i farmaci.»

Monk intuì che era la prima volta che la donna lo ammetteva, anche a se stessa. Lo disse con terrore e disperazione. Notò anche come ne soffriva. Non era soltanto la reazione di una dottoressa o di un’amica preoccupata. Quella donna amava Painter ed era evidente che si sforzava di tenere a bada le proprie emozioni.

Painter emerse dalla capanna. «Ho in linea Kat.»

Monk si alzò rapidamente, controllò che non ci fossero elicotteri in cielo, e raggiunse Painter. Prese il telefono satellitare, coprì il microfono con la mano, e indicò Lisa con un cenno del capo. «Capo, penso che alla dottoressa non dispiacerebbe un po’ di compagnia.»

Riparandosi gli occhi doloranti, Painter raggiunse la donna.

Monk lo guardò allontanarsi e si portò il telefono all’orecchio. «Ehi, piccola.»

«Non mi chiamare piccola. Che diavolo ci fai in Africa?»

Monk sorrise. Il rimprovero di Kat era una benedizione, come una limonata nel deserto. In più, era una domanda retorica, sicuramente era già informata di tutto.

«Pensavo che fossi andato a fare il babysitter», proseguì lei. «Quando torni, ti chiudo a chiave…» Continuò per un intero, concitato minuto.

Alla fine, Monk riuscì a infilare di traverso qualche parola nella conversazione. «Mi manchi anche tu.»

Il tono infuriato si trasformò in un sussurro. «Ho sentito che Gray è ancora disperso.»

«Se la caverà», la rassicurò lui, sperando che andasse davvero così.

«Trovalo.»

Era proprio ciò che intendeva fare. Lei non gli chiese di prometterle di essere cauto, lo conosceva troppo bene. Ma Monk sentì le lacrime nelle parole che seguirono.

«Ti amo.»

Era abbastanza per rendere prudente chiunque.

«Anch’io.» Abbassò la voce e si voltò dall’altra parte. «Amo te e il nostro bambino.»

«Torna a casa.»

«Prova a fermarmi.»

Kat sospirò di nuovo. «Logan mi sta chiamando al cercapersone, devo andare. Abbiamo un appuntamento alle sette con un diplomatico dell’ambasciata sudafricana. Faremo tutto il possibile per esercitare pressioni da qui.»

«Sistemali per bene, piccola.»

«Lo faremo. Ciao, Monk.»

«Kat, ti…» ma era già caduta la linea. Dannazione.

Monk guardò Lisa e Painter. I due stavano parlando, ma lui intuiva che era più il bisogno di stare vicini che una vera e propria comunicazione. Almeno Kat era al sicuro.

ore 12.37

«Mi stavano portando in una cella sotterranea per altri interrogatori», spiegò la dottoressa Fairfield. «Ci dev’essere qualcosa che li preoccupa.»

Erano ritornati tutti e tre nella stanza al primo piano. L’uomo che aveva palpeggiato Fiona era ancora a terra, privo di coscienza, col sangue che gli colava dalle narici.

Marcia Fairfield aveva raccontato in breve la sua storia: l’imboscata che le era stata tesa durante l’uscita nella riserva, l’attacco delle bestie dei Waalenberg, la sua cattura. I Waalenberg avevano appreso di un suo possibile ruolo nei servizi segreti britannici, perciò l’avevano rapita, mettendo in scena un attacco fatale a opera di una leonessa. Aveva ancora ferite gonfie e non cicatrizzate.

«Sono riuscita a convincerli che il mio accompagnatore, il guardacaccia, era rimasto ucciso. Non ho potuto fare altro. Spero che sia riuscito a salvarsi.»

«Ma cosa nascondono i Waalenberg?» chiese Gray. «Cosa stanno facendo?»

La donna scosse la testa. «Una specie di programma genetico. Sono in grado di dire soltanto questo, ma penso che ci sia in ballo anche qualche altro intrigo. Forse persino un attentato. Ho sentito una delle mie guardie parlare di un siero di qualche tipo. Siero 525. E nello stesso contesto hanno citato anche Washington.»

Gray aggrottò le sopracciglia. «Ha sentito qualcosa sui tempi?»

«Non esattamente. A giudicare dalle loro risate, però, ho avuto l’impressione che, qualsiasi cosa debba succedere, succederà presto. Molto presto.»

Gray fece qualche passo, massaggiandosi il mento. Questo siero forse è un agente per la guerra biologica… un patogeno… un virus.Scosse la testa. Gli servivano altre informazioni, alla svelta. «Dobbiamo entrare in quei laboratori sotterranei e scoprire che cosa stanno combinando.»

«Mi stavano portando proprio lì», suggerì Marcia.

«Se fingo di essere una delle sue guardie, forse riusciamo a entrare.»

«Dobbiamo sbrigarci. Probabilmente si stanno già chiedendo dove sia finita.»

Gray si voltò verso Fiona, pronto a una discussione. La soluzione più sicura sarebbe stata che lei rimanesse nascosta in quella stanza. Sarebbe stato difficile giustificare la sua presenza accanto a una prigioniera e a una guardia. Avrebbe soltanto attirato l’attenzione e provocato sospetti.

«Lo so, non è un posto adatto a una cameriera», affermò Fiona, sorprendendolo un’altra volta. Spinse la guardia con un piede. «Terrò compagnia al nostro Casanova, finché non ritornate.»

Nonostante le parole coraggiose, aveva lo sguardo pieno di paura.

«Non staremo via molto», promise lui.

«Meglio di no.»

Risolta la questione, Gray prese il fucile, indicò la porta alla dottoressa Fairfield e disse: «Andiamo».

Puntandole contro il fucile, la scortò all’ascensore centrale. Nessuno li avvicinò. Per accedere ai livelli inferiori bisognava infilare una tessera in un lettore magnetico. Gray usò la seconda chiave di Ischke. I bottoni luminosi che indicavano i sotterranei passarono dal rosso al verde.

«Qualche idea su dove cominciare?» chiese Gray.

«Più grande è il tesoro, più è sepolto in profondità.» Marcia premette il numero più in basso. Sette livelli sottoterra. L’ascensore cominciò la discesa.

Mentre Gray guardava il conto alla rovescia dei piani, le parole di Marcia lo tormentavano.

Un attentato… Washington…

Ma che tipo di attentato?

Washington, D.C.,

ore 06.41

Embassy Row era soltanto a tre chilometri da National Mall. L’autista svoltò sulla Massachusetts Avenue. Kat viaggiava sul sedile posteriore con Logan, confrontando gli appunti. Il sole era appena sorto e davanti a loro comparve l’ambasciata sudafricana.

I quattro piani di pietra calcarea dell’Indiana brillavano sotto il primo sole che illuminava i frontoni e le finestre dell’abbaino in tipico stile coloniale olandese. L’autista si fermò presso l’ala residenziale dell’edificio. L’ambasciatore aveva acconsentito a incontrarli nel suo studio privato, a quell’ora del mattino. Evidentemente, era meglio che le questioni riguardanti i Waalenberg fossero sbrigate con discrezione.

A Kat andava benissimo così. Aveva una pistola nascosta in una fondina alla caviglia. Scese dall’auto e aspettò Logan.

Quattro colonne scanalate sostenevano un parapetto con lo stemma del Sudafrica. Lì sotto c’era una porta a vetri, già aperta dall’usciere, che aveva notato il loro arrivo.

In quanto secondo in comando, Logan fece strada. Kat lo seguiva, qualche passo più indietro, controllando la strada, diffidente. Considerando le enormi ricchezze dei Waalenberg, non si fidava di nessuno che potesse essere al soldo di quella famiglia, compreso l’ambasciatore, John Hourigan.

Il grande atrio si estendeva attorno a loro. Un segretario, con un abito blu impeccabile, li raggiunse e li accompagnò. «L’ambasciatore Hourigan scenderà a momenti. Mi ha incaricato di portarvi al suo studio. Posso offrirvi del tè o del caffè?»

Logan e Kat rifiutarono.

Furono fatti accomodare in una sala rivestita di pannelli di legno pregiato. L’arredamento – scrivanie, scaffali e comodini – era fabbricato con lo stesso legno. Era stinkwood, originario del Sudafrica, un legname così raro che non era più disponibile in commercio.

Logan si sedette accanto alla scrivania. Kat rimase in piedi.

Non dovettero attendere a lungo.

Le porte si aprirono nuovamente ed entrò un uomo alto e magro, dai capelli biondo-rossicci. Anche lui indossava un abito blu, ma portava la giacca appoggiata su un braccio. Kat sospettava che l’approccio informale fosse un puro artificio per apparire più amabile e disposto a collaborare. Come l’idea di incontrarsi nella sua residenza privata.

Mentre Logan si presentava, Kat esaminò la stanza. Avendo un passato nei servizi segreti, presumeva che la conversazione sarebbe stata registrata. Studiò il locale, immaginando dove potevano essere nascoste le apparecchiature di sorveglianza.

Finalmente l’ambasciatore Hourigan si mise a sedere. «Mi hanno detto che siete venuti per avere informazioni sulla tenuta dei Waalenberg… In cosa posso esservi utile?»

«Riteniamo che qualcuno alle dipendenze dei Waalenberg possa essere coinvolto in un rapimento in Germania.»

Hourigan sgranò gli occhi. Un gesto troppo perfetto. «Sono scioccato. Ma non ho saputo nulla in merito dalla BKA tedesca, dall’Interpol o dall’Europol.»

«Le nostre fonti sono affidabili», insistette Logan. «Chiediamo soltanto la cooperazione dei vostri Scorpions per indagare sul posto.»

Kat guardò l’ambasciatore, che assumeva un’espressione artefatta, simulando un’intensa riflessione. Gli Scorpions erano l’equivalente sudafricano dell’FBI. Un aiuto sembrava improbabile, il massimo che Logan sperava di ottenere era che quelle organizzazioni non ostacolassero la Sigma. Non potevano negoziare una cooperazione contro un potere politico forte come quello dei Waalenberg, ma forse potevano esercitare una pressione sufficiente per impedire alle autorità di polizia di aiutare la potente famiglia sudafricana. Una piccola, ma significativa concessione.

Kat rimase in piedi e osservò la lenta danza messa in atto dai due uomini, ognuno dei quali cercava di ottenere il proprio scopo.

«Le assicuro che i Waalenberg portano il massimo rispetto alla comunità internazionale e agli enti di governo. È una famiglia che ha sostenuto interventi umanitari, organizzazioni internazionali di beneficenza e fondazioni senza fini di lucro in tutto il mondo. Il loro più recente atto di generosità è la donazione fatta alle ambasciate e alle cancellerie sudafricane di tutto il mondo di una campana d’oro, per celebrare il centenario della prima moneta d’oro coniata in Sudafrica.»

«Tutto ciò è encomiabile, ma non…»

Kat interruppe Logan, intervenendo per la prima volta. «Ha detto ‘ campanad’oro’?»

«Esatto, un dono di Baldric Waalenberg in persona. Cento campane placcate in oro, recanti lo stemma del Sudafrica. La nostra la stanno installando nella sala residenziale, al quarto piano.»

«È possibile vederla?» chiese Kat.

Quella strana piega della conversazione sconcertò l’ambasciatore, ma non gli venne in mente una buona ragione per rifiutare. Kat immaginò che l’uomo sperasse anche di sfruttare quell’occasione per prendere il sopravvento nel silenzioso scontro diplomatico in corso.

«Sarà un grande piacere mostrarvela.» Si alzò e guardò l’orologio. «Temo che dovremo accelerare i tempi. Ho un impegno a colazione al quale non posso tardare.»

Come Kat aveva immaginato, Hourigan stava usando il tour come scusa per porre termine alla conversazione, sottraendosi a qualsiasi impegno esplicito. Logan la fissava intensamente. Sperò di avere ragione.

Furono accompagnati a un ascensore che li portò all’ultimo piano. Attraversarono corridoi ornati con oggetti d’arte e d’artigianato indigeno sudafricano. Al termine si apriva un salone che somigliava più a un museo che a una stanza. Era arredato con vetrine, tavoli e cassettiere con finiture d’ottone lavorate a mano. Una parete di vetrate dava sui giardini, sul retro dell’edificio. In un angolo era appesa una gigantesca campana d’oro. A giudicare dai filamenti di paglia ancora sparsi sul pavimento, sembrava che fosse stata appena tolta dall’imballaggio. La campana, sulla quale era impresso lo stemma del Sudafrica, era alta un metro e larga un metro e mezzo alla base.

Kat si avvicinò. Uno spesso cavo elettrico passava dalla cima della campana ed era arrotolato a terra.

L’ambasciatore notò lo sguardo della donna. «È dotata di un congegno automatico per suonare a determinati orari del giorno. Davvero una meraviglia. Se guarda all’interno, vedrà degli stupendi ingranaggi, molto raffinati.»


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