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L'ordine del sole nero
  • Текст добавлен: 21 октября 2016, 20:09

Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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Lisa si diede da fare con la seconda. Lui la raggiunse e ne prese una terza.

Assieme, trascinarono il carico sino alla botola.

«Un’altra ancora», disse Painter.

Lisa fissò la catasta di casse sulla botola. «Nessuno riuscirà a passare di qui.»

«Un’altra ancora», insistette Painter, tra un respiro affannoso e una smorfia. «Fidati.»

Trascinarono l’ultima assieme. Ci volle la forza di entrambi per sollevarla sulle altre, già accatastate sulla botola.

«I farmaci lo metteranno fuori uso per ore», disse Lisa.

Per tutta risposta, ci fu un colpo d’arma da fuoco. Una salva di fucile perforò la botola, con tutto il suo carico di casse, e s’infilò in una delle travi del granaio.

«Penso che consulterò un altro medico», replicò Painter, trascinandola via.

«Gli hai iniettato tutto il Midazolam?»

«Oh, sì!»

«Ma, allora, come…»

«Non lo so, e al momento non m’interessa.»

Painter la condusse verso la porta aperta del granaio. Dopo aver controllato che non ci fossero altri sicari in giro, scapparono fuori. Alla loro sinistra, il mondo era una catastrofe di fiamme e fumo. Tizzoni ardenti turbinavano in un cielo greve.

Nuvole color granito oscuravano la cima sovrastante.

«Taski aveva ragione», borbottò Lisa, sollevando il cappuccio del suo parka.

«Chi?»

«Una guida sherpa. Ci ha avvisato che un altro fronte temporalesco era in arrivo oggi.»

Painter seguiva le fiamme che si attorcigliavano verso le nuvole. Grossi fiocchi di neve bianchi cominciarono a calare, mescolandosi a una pioggia nera di fuliggine incandescente. Fuoco e ghiaccio. Era una commemorazione adeguata delle dozzine di monaci che avevano condiviso la fine di quel monastero.

Ricordando gli uomini gentili che l’avevano scelto come dimora, Painter sentì montare dentro di sé una rabbia oscura. Chi poteva massacrare i monaci con tale crudeltà?

In quanto a chifosse stato, non aveva risposta, ma sapeva il perché.

La malattia.

Qualcosa era andato storto e quindi qualcuno cercava di nasconderlo.

Uno scoppio prevenne qualsiasi altra riflessione. Fiamme e fumo proruppero dalla porta del granaio e uno dei coperchi delle casse volò fuori nel cortile.

Painter prese Lisa per un braccio.

«Si è fatto saltare in aria?» chiese la donna, guardando atterrita il granaio.

«No, ha fatto saltare la botola. Andiamo, il fuoco lo terrà a bada ancora per poco.»

Painter fece strada sul terreno ghiacciato, evitando le carcasse congelate delle capre e delle pecore, finché non uscirono dal cancello dell’ovile.

La nevicata si fece più fitta. Era una benedizione, ma solo fino a un certo punto. Painter non portava altro che un mantello di lana pesante e stivali imbottiti di pelo. Non era granché per proteggersi da una tormenta. Ma la neve fresca avrebbe aiutato a nascondere le loro tracce e ridurre leggermente la visibilità.

Fece strada verso un sentiero che costeggiava uno strapiombo e scendeva al villaggio sottostante, dove era stato qualche giorno prima.

«Guarda!» esclamò Lisa.

Sotto di loro, una colonna di fumo saliva in cielo, una versione ridotta di quella che avevano alle spalle.

«Il villaggio…» Painter serrò un pugno.

Non stavano radendo al suolo soltanto il monastero. Anche le capanne sparse laggiù erano state messe a ferro e fuoco. Gli attentatori non volevano lasciare testimoni.

Painter abbandonò il sentiero. Era troppo esposto. Sicuramente sarebbe stato sorvegliato e laggiù ci potevano essere altri uomini. Batté in ritirata verso le rovine in fiamme del monastero.

«Dove andiamo?» chiese Lisa.

Painter indicò un punto oltre le fiamme. «Nella terra di nessuno.»

«Ma non è là che…»

«Che sono state viste le luci l’ultima volta», confermò lui. «Però è anche un posto in cui possiamo far perdere le nostre tracce e trovare riparo, per rintanarci e aspettare la fine della tormenta. Aspetteremo che arrivi qualcun altro a indagare sull’incendio e sul fumo.»

Painter guardò la densa colonna di fumo nero. Doveva essere visibile a chilometri di distanza. Ma c’era qualcuno a vederla? Il suo sguardo si spostò più in alto, alle nuvole. Cercò di penetrare quella coltre, verso il cielo che stava oltre. Pregò che qualcuno riconoscesse il pericolo.

Fino ad allora, aveva soltanto una possibilità.

«Andiamo.»

Washington, D.C.,

ore 01.25

Monk attraversò la buia piazza del Campidoglio, con Kat al fianco. Marciavano a passo sostenuto, ma oltre all’andatura condividevano anche una certa irritazione.

«Preferirei che aspettassimo», disse Kat. «È troppo presto. Potrebbe succedere qualsiasi cosa.»

Monk sentiva il vago profumo di gelsomino che emanava da lei. Avevano fatto una rapida doccia assieme, dopo la telefonata di Logan Gregory, accarezzandosi a vicenda nel vapore, abbracciati mentre si sciacquavano, in un ultimo momento di intimità. Ma poi, mentre si asciugavano e si vestivano ognuno per conto proprio, con le zip da chiudere e i bottoni da allacciare, cominciarono a intromettersi le questioni pratiche. La realtà prese il sopravvento, raffreddando la loro passione quanto il gelo notturno.

Monk le lanciò un breve sguardo. Kat indossava pantaloni blu, una camicetta bianca e una giacca a vento con lo stemma della marina statunitense. Professionale come sempre, tirata a lucido come le sue scarpe da ginnastica di cuoio nero. Monk indossava Reebok nere, jeans scuri, un maglione a collo alto color avena e, per finire, un berretto da baseball dei Chicago Cubs.

«Finché non sono sicura», proseguì Kat, «preferirei che non parlassimo con nessuno della gravidanza.»

«Che vuoi dire con ‘finché non sono sicura’? Finché non sai per certo se vuoi il bambino? Finché non sei sicura di noi due?»

Avevano discusso per tutta la strada, dall’appartamento di Kat, che confinava con Logan Circle, un ex bed breakfast vittoriano convertito in un complesso residenziale, raggiungibile a piedi dal Campidoglio. Quella notte, il breve tragitto sembrò interminabile.

«Monk…»

Lui si fermò. Protese una mano verso di lei, poi l’abbassò di nuovo. Ma anche lei si fermò.

La guardò dritto negli occhi. «Dimmi, Kat.»

«Voglio essere sicura che la gravidanza… non so… che duri.Aspettare fino a gravidanza inoltrata prima di dirlo in giro.» Gli occhi le brillavano nel chiaro di luna. Era prossima alle lacrime.

«Piccola, è per questo che dobbiamo dirlo a tutti quanti.» Le si avvicinò e le posò una mano sul ventre. «Per proteggere quello che sta crescendo qui dentro.»

Lei si voltò dall’altra parte. La mano di lui finì sulla curva della schiena. «E poi forse avevi ragione. La mia carriera… Forse non è il momento giusto.»

Monk sospirò. «Se i bambini nascessero soltanto al momento giusto, il mondo sarebbe un luogo molto più vuoto.»

«Sei ingiusto. Non stiamo parlando della tua, di carriera.»

«Col cavolo! Credi davvero che un bambino non cambierebbe la mia vita e le mie scelte da questo momento in poi? Cambia tutto.»

«Esatto. È questo che mi spaventa di più.» Si lasciò andare contro il palmo della sua mano. Lui la cinse tra le braccia.

«Affronteremo tutto quanto assieme», sussurrò lui. «Te lo prometto.»

«Comunque preferirei non dire niente, almeno per un altro paio di giorni. Non sono nemmeno stata da un medico. Magari il test di gravidanza è sbagliato.»

«Quanti test hai fatto?»

Kat si adagiò su di lui.

«Allora?»

«Cinque», bisbigliò lei.

«Cinque?» Monk non riuscì a nascondere un tono divertito.

Kat gli mollò un pugno tra le costole. «Non mi prendere in giro.»

Monk sentì il sorriso nella voce di lei e la strinse ancora più forte. «Va bene. Sarà il nostro segreto, per adesso.»

Lei si girò tra le sue braccia e lo baciò, non appassionatamente, solo per dire grazie. Si separarono, ma tennero le dita intrecciate mentre proseguivano lungo il viale.

Più avanti, illuminata a giorno, c’era la loro destinazione: lo Smithsonian Castle. I suoi bastioni di arenaria rossa, le torri e le guglie brillavano nel buio; un anacronistico punto di riferimento nella città ordinata che lo circondava. Mentre l’edificio principale ospitava il centro informatico della Smithsonian Institution, il vecchio bunker abbandonato sottostante era stato convertito nel comando centrale della Sigma. Così la schiera di scienziati militari sotto copertura che costituiva la DARPA era nascosta nel cuore dei musei e dei laboratori di ricerca dello Smithsonian.

Le dita di Kat si districarono da quelle di Monk mentre i due si avvicinavano al castello. Lui la osservava, ancora tormentato da una preoccupazione. Nonostante l’accordo raggiunto, sentiva che dentro di lei rimaneva un nocciolo di insicurezza. Era qualcosa che andava al di là del bambino?

Finché non sono sicura.

Sicura di cosa?

Quel dubbio tormentò Monk per tutto il percorso, fino agli uffici sotterranei del comando Sigma. Ma, una volta arrivati, il resoconto di Logan Gregory, il direttore ad interim della Sigma, aggiunse tutta una nuova schiera di preoccupazioni.

«L’area è ancora investita da una perturbazione, con temporali che riguardano l’intero golfo del Bengala», spiegò Logan, seduto dietro una scrivania ordinata. Una serie di schermi a cristalli liquidi occupava un’intera parete. Due si riempirono di dati. Uno mostrava una presa diretta da un satellite meteorologico puntato sull’Asia.

Monk passò a Kat una foto satellitare.

«Speriamo di avere qualche altra notizia prima dell’alba», proseguì Logan. «Ang Gelu è partito in mattinata dal Nepal per portare del personale medico al monastero. Tentavano di volare tra una tempesta e l’altra. È ancora presto. Laggiù è soltanto mezzogiorno, adesso. Perciò speriamo di avere ulteriori notizie tra breve.»

Monk e Kat si scambiarono uno sguardo fugace. Erano stati informati dell’indagine del direttore. Da tre giorni si erano persi i contatti con Painter Crowe. A giudicare dalla sua faccia tirata, Logan Gregory era rimasto sveglio tutto il tempo. Indossava il solito abito blu, ma era leggermente stropicciato sui gomiti e sulle ginocchia, il che, per il secondo in comando alla Sigma, era come dire trasandato. I capelli color paglia e l’abbronzatura gli conferivano sempre un’aria giovanile, ma quella notte era evidente che aveva oltrepassato i quaranta: occhi gonfi, un leggero pallore e un paio di rughe tra gli occhi profonde quanto il Grand Canyon.

«E Gray?» chiese Kat.

Logan allineò i documenti nella cartellina con un colpo secco sulla scrivania, come a chiudere la questione precedente. Sempre efficiente, fece scivolare al centro del tavolo un’altra cartellina e l’aprì. «Un’ora fa hanno attentato alla vita del comandante Pierce.»

«Cosa?» Monk si sporse in avanti, un po’ troppo repentinamente. «Allora che c’entrano tutti questi bollettini meteorologici?»

«Calma. È al sicuro e aspetta rinforzi.» Logan ricapitolò sommariamente gli eventi di Copenhagen. «Monk, ho disposto tutto affinché lei raggiunga il comandante. C’è un jet che l’aspetta a Dulles, pronto a decollare tra novantadue minuti.»

Monk doveva riconoscere l’efficienza di quell’uomo. Non guardò neanche l’orologio.

«Capitano Bryant», proseguì Logan. «Nel frattempo, vorrei tenerla qui, mentre monitoriamo la situazione in Nepal. Devo chiamare la nostra ambasciata a Katmandu. Mi farà comodo la sua esperienza coi servizi di intelligence nazionali e internazionali.»

«Certamente, signore.»

Monk era improvvisamente felice che Kat avesse risalito le gerarchie dell’intelligence. Avrebbe fatto da braccio destro a Logan durante quella crisi. Lui preferiva che rimanesse lì, al sicuro, sotto lo Smithsonian Castle, piuttosto che in azione. Una preoccupazione in meno.

Si accorse che Kat lo fissava. Aveva uno sguardo adirato, come se gli avesse letto nel pensiero. Lui mantenne un’espressione impassibile.

Logan si alzò. «Adesso vi lascio ai vostri compiti.» Tenne aperta la porta dell’ufficio, congedandoli.

Non appena la porta si chiuse alle loro spalle, Kat lo prese per un braccio, stringendo forte sopra il gomito. «Parti per la Danimarca?»

«Sì, e allora?»

«E…» Lo trascinò nel bagno delle donne, vuoto a quell’ora tarda. «E il bambino?»

«Non capisco. Che cosa…»

«E se ti succedesse qualcosa?»

Monk sbatté le palpebre. «Non succederà nulla.»

Kat gli sollevò l’altro braccio, mostrando la protesi della mano. «Non sei indistruttibile.»

Lui abbassò il braccio, quasi nascondendo la mano dietro la schiena. Arrossì in viso. «Vado a fare il babysitter. Appoggerò Gray mentre finisce il suo lavoro laggiù. Voglio dire, persino Sara lo sta per raggiungere. Molto probabilmente finirò per fargli da chaperon. Poi torneremo qui col primo volo.»

«Se è così poco importante, lascia che ci vada qualcun altro. Posso dire a Logan che ho bisogno del tuo aiuto qui.»

«Non credo che ci crederebbe.»

«Monk…»

«Parto, Kat. Sei tu quella che non vuole far sapere della gravidanza. Io vorrei gridarlo al mondo intero. In un modo o nell’altro, abbiamo dei doveri. Tu i tuoi e io i miei. E, fidati, sarò prudente.» Le posò una mano sul ventre. «Mi parerò il culo per tutti e tre.»

«Be’, è un culo piuttosto carino.»

Quando Monk le sorrise, Kat fece altrettanto, ma lui vide anche lo sfinimento e la preoccupazione nei suoi occhi. Aveva soltanto una risposta.

Si avvicinò, posando le labbra su quelle di lei e sussurrò: «Lo prometto».

«Prometti cosa?» chiese lei, retrocedendo leggermente.

«Tutto», rispose lui, baciandola appassionatamente. Diceva sul serio.

«A Gray puoi dirlo», disse lei quando sciolsero l’abbraccio. «Purché ti giuri di mantenere il segreto.»

«Davvero?» I suoi occhi s’illuminarono, poi si socchiusero, sospettosi. «Perché?»

Kat gli girò attorno, andando verso lo specchio, ma non prima di avergli dato un buffetto sul sedere. «Voglio che ti guardi il culo anche lui.»

«D’accordo, ma non penso che sia passato all’altra sponda.»

Lei scosse la testa e si guardò allo specchio. «Che cosa devo fare con te?»

Monk la raggiunse da dietro e le cinse la vita. «Be’, secondo gli ordini di Gregory, ho ancora novantadue minuti.»

Himalaya,

ore 12.15

Lisa faceva fatica a stare dietro a Painter che, con l’abilità di uno stambecco, faceva strada giù per un ripido pendio, pieno di massi e passaggi scivolosi di scisto ghiacciato. La neve cadeva copiosa, come una nuvola fluttuante che riduceva la visibilità a pochi metri, creando uno strano crepuscolo grigio. Ma perlomeno si erano lasciati alle spalle la parte più esposta ai venti gelidi. Stavano scendendo da un passo profondo tra le montagne, camminando controvento.

In ogni caso, non potevano sfuggire al freddo glaciale, mentre la temperatura precipitava. Nonostante il parka da tormenta e i guanti, Lisa aveva i brividi. Anche se erano in cammino da meno di un’ora, il calore del monastero in fiamme era un ricordo lontano. Quei pochi centimetri di pelle del viso che rimanevano esposti erano arsi e raschiati dal vento.

Painter doveva passarsela ancora peggio. Aveva indossato un paio di pantaloni pesanti e un paio di manopole di lana, sottraendoli a uno dei monaci morti. Ma non aveva un cappuccio per ripararsi la testa, soltanto una sciarpa legata sulla parte inferiore del viso. I suoi respiri erano nuvolette bianche nell’aria gelida.

Dovevano trovare un riparo.

Presto.

Painter porse una mano a Lisa, che, in un tratto particolarmente ripido, era finita col sedere per terra, scivolando fino a lui. Avevano raggiunto il fondo del passo. C’era una curva, incorniciata da pareti ripidissime.

Laggiù la neve fresca era già alta trenta centimetri.

Sarebbe stato difficile procedere senza racchette da neve.

Intuendo la sua preoccupazione, Painter indicò un punto su un lato dello stretto crepaccio. C’era una sporgenza rocciosa che offriva riparo dalle intemperie. Puntarono in quella direzione, avanzando a fatica tra i cumuli di neve.

Una volta raggiunto l’aggetto di pietra, fu più facile proseguire.

Lisa diede un’occhiata alle proprie spalle. Le loro orme si stavano già riempiendo di neve fresca. Entro qualche minuto sarebbero scomparse. Se da una parte ciò contribuiva sicuramente a nascondere le loro tracce a qualsiasi inseguitore, dall’altra la innervosiva. Era come se la loro stessa esistenza venisse cancellata.

«Hai idea di dove stiamo andando?» Si accorse di bisbigliare, non tanto per paura di rivelare la loro posizione, quanto perché era intimidita dalla cappa di silenzio della tormenta.

«Vagamente», rispose Painter. «Queste aree di confine sono un territorio inesplorato, in gran parte mai calpestato da un essere umano. Quando sono arrivato, ho studiato alcune immagini satellitari, ma non sono di grande utilità. Il territorio è troppo contorto, rende i rilevamenti difficili.» Proseguirono in silenzio per qualche passo, poi Painter si voltò a guardarla. «Lo sapevi che nel 1999 hanno scoperto Shangri-La, quassù?»

Lisa non riusciva a capire se stesse sorridendo dietro la sciarpa, cercando di sdrammatizzare. «La Shangri-La di Orizzonti perduti?» Ricordava il film e il libro. Un utopistico paradiso perduto, sospeso nel tempo e nel ghiaccio dell’Himalaya.

Voltandosi nuovamente, lui continuò ad avanzare e a spiegare. «Due esploratori del National Geographichanno scoperto una gola dalla profondità mostruosa nella catena dell’Himalaya, a poche centinaia di chilometri da qui, nascosta sotto uno sperone roccioso: un luogo non indicato nelle mappe satellitari. In fondo c’era un paradiso subtropicale. Cascate, abeti e pini, prati pieni di rododendri, ruscelli che scorrevano tra abeti rossi e tsuga. Un giardino selvatico, che pullulava di vita, circondato da neve e ghiaccio in ogni direzione.»

«Shangri-La?»

Painter scrollò le spalle. «Dimostra soltanto che la scienza e i satelliti non sempre riescono a rivelare ciò che il mondo vuole nascondere.» Ormai batteva i denti. Anche parlare significava sprecare fiato e calore. Dovevano trovare la loro Shangri-La.

Proseguirono in silenzio. La neve divenne più fitta.

Dopo altri dieci minuti, il passo proseguiva con uno stretto tornante. Girato l’angolo, l’aggetto che li aveva riparati spariva. Si fermarono a guardare, disperati. Da quel punto il percorso era più ripido e più ampio. Davanti a loro, il mondo era una cortina di neve. Le occasionali folate di vento rivelavano scorci fluttuanti di una profonda vallata.

Non era una Shangri-La.

Avevano di fronte una serie di costoni frastagliati, ghiacciati e spazzati dalla neve, troppo ripidi da attraversare senza corde. Un ruscello ruzzolava giù per quei precipizi, con una serie di imponenti cascate, ma il suo corso era puro ghiaccio, congelato nel tempo. Più in là, velata dalla neve e da una nebbia di ghiaccio, c’era una profonda gola, che da dove si trovavano sembrava senza fondo. La fine del mondo.

«Troveremo un percorso per scendere», balbettò Painter.

Puntò ancora una volta nelle fauci della tormenta. La neve superò rapidamente le caviglie, quindi i polpacci. Painter faceva da apripista.

«Aspetta», disse Lisa. Sapeva che l’uomo non sarebbe potuto andare avanti ancora per molto. L’aveva condotta sin lì, ma non erano equipaggiati per andare oltre. «Da questa parte.»

Lo guidò verso la parete rocciosa sottovento, più riparata.

«Dove…» tentò di chiedere lui, ma fu interrotto dal battere dei suoi denti.

Lei indicò un punto in cui il ruscello ghiacciato superava il costone di fronte a loro. Taski Sherpa aveva insegnato a lei e ai suoi compagni qualche tecnica di sopravvivenza. Una delle sue lezioni più importanti riguardava come trovare riparo.

Lisa sapeva a memoria i cinque posti migliori in cui cercare.

Si diresse verso il punto in cui la cascata di ghiaccio raggiungeva il loro livello. Come le era stato insegnato, cercò il punto d’incontro fra la roccia nera e il ghiaccio bianco-blu. Secondo la guida, il disgelo estivo trasformava le cascate dell’Himalaya in torrenti tumultuosi, capaci di scavare la roccia in profondità. Alla fine dell’estate la loro portata diminuiva e l’acqua si ghiacciava, spesso lasciando uno spazio vuoto alle sue spalle.

Con sollievo, Lisa constatò che quella cascata non faceva eccezione. Mandò una preghiera di ringraziamento a Taski e a tutti i suoi antenati.

Col gomito infranse uno strato di brina e aprì un varco scuro tra il ghiaccio e la parete rocciosa. Lì dietro c’era una piccola grotta.

Painter la raggiunse. «Lasciami controllare se è un posto sicuro.»

Attraversò la fessura di traverso e scomparve. Un istante dopo sbocciò una piccola luce tra il ghiaccio della cascata.

Lisa sbirciò attraverso la fessura.

Painter era a qualche passo di distanza, con la penna luminosa in mano. La puntò in ogni direzione, illuminando la piccola nicchia. «Sembra sicura. Penso che possiamo aspettare che la tormenta si plachi.»

Lisa s’infilò all’interno. Al riparo dal vento e dalla neve faceva già più caldo.

Painter spense la penna luminosa. Non avevano davvero bisogno di una fonte di luce. Sembrava che la parete di ghiaccio raccogliesse quel poco di luce diurna che la tormenta lasciava filtrare e l’amplificasse. La cascata ghiacciata scintillava e splendeva.

Quando si voltò verso di lei, gli occhi di Painter erano di un blu eccezionale, come il ghiaccio splendente. Lisa gli esaminò il volto, cercando eventuali segni di congelamento. Il vento gli aveva causato abrasioni di un rosso vivido. I lineamenti del viso rivelavano chiaramente le sue origini di nativo americano. Un abbinamento affascinante con quegli occhi blu.

«Grazie», disse Painter. «Mi sa che hai appena salvato la vita a entrambi.»

Lei scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo. «Ti dovevo questo favore.»

Però, anche se minimizzava, una parte di lei si sentì riscaldare per il suo apprezzamento, più di quanto si sarebbe aspettata.

«Come sapevi come fare a trovare…» Le ultime parole di Painter furono soffocate da un potente starnuto. «Oh.»

Lisa si tolse lo zaino dalle spalle. «Basta con le domande. Dobbiamo riscaldarci.»

Estrasse dal suo kit medico una coperta isolante ingannevolmente sottile: il tessuto Astrolar tratteneva il novanta percento del calore prodotto dal corpo. Ma Lisa non contava soltanto su quello. Tirò fuori un radiatore catalitico, un’attrezzatura vitale nell’alpinismo.

«Siediti», ordinò a Painter, stendendo la coperta sulla roccia gelata.

Esausto, lui non protestò.

Lei lo raggiunse e coprì entrambi con la coperta, formando una sorta di bozzolo. Rannicchiatasi per bene, premette l’accensione elettronica del suo radiatore Coleman Sport Cat. L’apparecchio non produceva fiamme, ma funzionava grazie a una piccola bombola di butano che durava quattordici ore. Usato con parsimonia e a intermittenza, assieme alla coperta termica, avrebbe permesso loro di sopravvivere per due o tre giorni.

Painter tremava accanto a lei, mentre il radiatore si riscaldava.

«Levati i guanti e gli stivali», gli consigliò Lisa, facendo altrettanto. «Scaldati le mani sul radiatore e massaggiati le dita, il naso, le orecchie.»

«Contro il con… congelamento.»

Lei annuì. «Metti tutti i vestiti che puoi tra te e la roccia, per limitare la perdita di calore per conduzione.»

Si spogliarono, imbottendo il loro nido di piumino d’oca e lana. Ben presto quello spazio divenne quasi confortevole.

«Ho qualche barretta energetica», disse Lisa. «E possiamo procurarci acqua sciogliendo la neve.»

«Una vera esperta della sopravvivenza», constatò Painter, la voce un po’ più salda e l’ottimismo che ritornava col calore.

«Ma niente di tutto questo fermerà un proiettile», replicò lei. Lo guardò, quasi naso contro naso sotto la coperta.

Painter sospirò e annuì. Erano al riparo dal freddo, ma non fuori pericolo. La tormenta, che prima era una minaccia, rappresentava una protezione. Ma che sarebbe successo dopo? Non avevano mezzi di comunicazione e tantomeno armi.

«Rimarremo nascosti», disse Painter. «Chi ha incendiato il monastero non sarà in grado di trovarci. I soccorritori verranno a cercarci quando la tormenta si placherà, possibilmente con gli elicotteri. Potremo mandare un segnale con quel razzo che ho visto nel tuo kit di pronto soccorso.»

«E sperare che i soccorritori ci raggiungano prima degli altri.»

Painter allungò una mano e le strizzò un ginocchio. Lei apprezzò che non le dicesse parole di falso incoraggiamento, che non cercasse di addolcire la pillola. Cercò la mano di lui e la strinse forte. Era un incoraggiamento sufficiente.

Restarono in silenzio, ciascuno perso nei propri pensieri.

«Chi pensi che siano?» chiese infine Lisa, sottovoce.

«Non lo so. Ma ho sentito l’uomo imprecare quando l’ho colpito. In tedesco. È stato come colpire un carro armato.»

«Tedeschi? Sei sicuro?»

«Non sono sicuro di nulla. Probabilmente era un mercenario. Di certo aveva ricevuto un addestramento militare.»

«Aspetta.» Lisa si voltò verso lo zaino. «La macchina fotografica.»

Painter drizzò la schiena, sollevando un lembo della coperta. Subito la rimboccò, chiudendo lo spiraglio. «Pensi di avere una sua foto?»

«Per far funzionare a ripetizione il flash, ho impostato la macchina sullo scatto continuo. Questa reflex digitale fa cinque scatti al secondo in quella modalità. Non ho idea di che cosa abbia ripreso.» Azionò la macchina col pollice.

Spalla a spalla, guardarono assieme il piccolo schermo a cristalli liquidi sul retro della macchina. Lisa visualizzò le ultime foto. Erano quasi tutte sfocate, ma, mentre faceva scorrere rapidamente la serie, sembrava di rivedere la fuga al rallentatore: la reazione sorpresa del sicario, il braccio alzato nel tentativo di schermarsi gli occhi, il colpo esploso mentre si rintanava dietro il barile, la carica di Painter.

Alcuni scatti mostravano frammenti del volto dell’uomo. Mettendo assieme i pezzi del puzzle, composero un approssimativo identikit: capelli biondo platino, sopracciglia marcate, mascella prominente. L’ultima foto doveva essere stata scattata mentre Lisa scavalcava Painter e l’assassino. Gli occhiali per la visione notturna gli erano finiti su un orecchio, perciò era un ottimo primo piano degli occhi. Erano accesi di rabbia, di una ferocia accentuata dalle pupille rosse, causate dal flash.

Lisa ricordò Relu Na, il lontano parente di Ang Gelu che li aveva attaccati con una falce. Anche gli occhi del monaco folle erano incandescenti a quel modo.

La sua pelle nuda fu percorsa da un brivido che non aveva nulla a che fare col freddo.

Notò un’altra cosa riguardo agli occhi.

Erano spaiati.

Uno era di un blu artico brillante, l’altro di un bianco smunto. Forse era soltanto sbiadito per via del flash…

Lisa premette il tasto con la freccia all’indietro e ripercorse a ritroso l’intero ciclo di foto. Superò l’inizio della serie del seminterrato e visualizzò la foto precedente. Era l’immagine di una parete con scarabocchi di sangue. Se n’era dimenticata.

«Cos’è?» chiese Painter.

Gli aveva già raccontato la triste storia del capo del monastero, Lama Khemsar. «È quello che il vecchio monaco aveva scritto sulla parete. Sembra la stessa serie di segni ripetuta all’infinito.»

Painter si avvicinò. «Puoi zoomare?»

Lisa ingrandì l’immagine, che si riempì di pixel e perse un po’ in nitidezza.


Painter aggrottò le sopracciglia. «Non è tibetano o nepalese. Guarda come sono spigolosi i caratteri. Sembrano più rune nordiche, o qualcosa del genere.»

«Credi davvero?»

«Forse.» Painter si scostò, con un gemito di stanchezza. «In un modo o nell’altro, viene da chiedersi se Lama Khemsar sapesse più di quanto non desse a vedere.»

Lisa ricordò una cosa che non gli aveva raccontato. «Dopo che il vecchio monaco si è tagliato la gola, gli abbiamo trovato un simbolo inciso sul petto. Non gli ho dato importanza, attribuendolo alla follia o a una coincidenza. Ma adesso non ne sono più così sicura.»

«Com’era? Riesci a disegnarlo?»

«Non ce n’è bisogno. Era una svastica.»

Painter inarcò un sopracciglio. «Una svastica?»

«Esatto. Forse la sua mente era ritornata al passato, forse stava esorcizzando qualcosa che lo aveva spaventato.» Lisa raccontò la storia del parente di Ang Gelu. Di come Relu Na era sfuggito ai ribelli maoisti, traumatizzato dalla loro crescente brutalità, quando avevano massacrato con le falci gli agricoltori innocenti. Di come poi Relu Na aveva fatto la stessa cosa, quando la malattia aveva minato la sua salute mentale, inducendolo a rimettere in scena un trauma profondo.

Painter aveva un’espressione corrucciata quando lei concluse. «Lama Khemsar aveva più o meno settantacinque anni, il che significa che era adolescente durante la seconda guerra mondiale. Perciò è possibile. I nazisti avevano mandato spedizioni di ricerca sull’Himalaya.»

«Qui? E perché?»

Painter scrollò le spalle. «Si racconta che Heinrich Himmler, il capo delle SS, avesse la fissazione dell’occulto. Studiò gli antichi testi vedici dell’India, che risalgono a migliaia di anni fa e si convinse che queste montagne avessero dato i natali alla razza ariana originaria. Perciò mandò spedizioni in cerca di prove. Naturalmente quel tipo aveva più sale nello stomaco che nella zucca.»

Lisa gli sorrise. «In ogni caso, forse il vecchio Lama si era imbattuto in una di quelle spedizioni. Magari aveva fatto da guida o qualcosa del genere.»

«Forse. Ma non lo sapremo mai. Se aveva dei segreti sono morti con lui.»

«Non è detto. Forse era proprio quello che stava cercando di fare nella sua stanza, liberarsi di qualcosa di orribile. Forse il suo subconscio cercava di assolversi rivelando ciò che sapeva.»

«Un sacco di ‘forse’.» Painter si strofinò la fronte, trasalendo. «E io ne ho un altro. Forseerano scritte senza senso.»

Lisa non aveva argomenti da opporre a quell’ipotesi. Sospirò, sopraffatta dalla stanchezza: l’adrenalina della fuga si stava esaurendo. «Fa caldo abbastanza per te?»

«Sì, grazie.»

Spense il radiatore. «Dobbiamo conservare il butano.»

Painter annuì, poi non riuscì a trattenere uno sbadiglio madornale.

«Dovremmo cercare di dormire un po’», disse Lisa. «Fare i turni.»

Ore dopo, Painter si svegliò di soprassalto. Qualcuno gli stava scuotendo la spalla. Si staccò dalla parete alla quale era appoggiato. Fuori era buio. La parete di ghiaccio davanti a lui era nera quanto le rocce. Perlomeno sembrava che la tormenta si fosse placata.

«Che c’è?» chiese.

Lisa aveva fatto cadere una parte della coperta. Indicò qualcosa e sussurrò: «Aspetta».

Lui si avvicinò di più a lei, scrollandosi di dosso il torpore. Aspettò mezzo minuto. Ancora nulla. Sembrava che la tormenta fosse davvero finita. Non si sentiva più l’ululato del vento. Oltre la loro grotta, una quiete cristallina era discesa sulla valle e sulle rocce. Tese le orecchie per sentire eventuali rumori sospetti.


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