Текст книги "L'ordine del sole nero"
Автор книги: James Rollins
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Триллеры
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PRIMO
1. IL TETTO DEL MONDO
Himalaya,
campo base Everest, 5364 m,
ai giorni nostri,
16 maggio, ore 06.34
La morte cavalcava il vento.
Taski, il capo degli sherpa, aveva pronunciato quel verdetto con tutta la solennità e la certezza della sua professione. L’uomo, tarchiato, raggiungeva appena il metro e cinquanta col malandato cappello da cowboy, ma dal portamento si sarebbe detto che fosse più alto di chiunque altro, su quella montagna. I suoi occhi, nascosti dalle palpebre semichiuse, studiavano le bandierine di preghiera agitate dal vento.
La dottoressa Lisa Cummings lo inquadrò con la Nikon D-100 e scattò una foto. Taski era la guida del gruppo, ma era anche il soggetto dei test psicometrici di Lisa, un candidato perfetto per le sue ricerche.
Era andata in Nepal grazie a una borsa di studio per osservare gli effetti fisiologici di un’ascensione dell’Everest senza riserve d’ossigeno. Prima del 1978, nessuno aveva mai raggiunto la cima dell’Everest senza servirsi di ossigeno supplementare: l’aria era troppo rarefatta. Persino gli alpinisti esperti, pur aiutandosi con le bombole d’ossigeno, mostravano sintomi di affaticamento estremo, problemi di coordinazione, diplopia, allucinazioni. Si riteneva impossibile raggiungere la vetta di una montagna alta ottomila metri senza una riserva d’aria.
Poi, nel 1978, due alpinisti tirolesi realizzarono l’impossibile e arrivarono in cima, contando soltanto sui loro affannati polmoni. Negli anni successivi il loro esempio fu seguito da circa sessanta persone, uomini e donne, che consacrarono la nuova meta dell’élite degli alpinisti.
La dottoressa Cummings non avrebbe potuto sperare in un migliore test di resistenza alla bassa pressione atmosferica.
Qualche tempo prima, sempre grazie a una borsa di studio, aveva concluso un’altra ricerca, durata cinque anni, riguardo agli effetti dei sistemi ad altapressione sui processi fisiologici umani. In quel caso aveva studiato i sommozzatori, a bordo di una nave di ricerca, la Deep Fathom.Poi le circostanze le avevano imposto un cambiamento… sia nella vita professionale sia in quella personale. Perciò aveva accettato una borsa di studio dell’NSF, la fondazione nazionale per la scienza, per svolgere ricerche antitetiche: studiare gli effetti fisiologici dei sistemi a bassa pressione.
E così era finita sul tetto del mondo.
Lisa cambiò posizione per scattare un’altra foto a Taski Sherpa. Come molti altri fra la sua gente, Taski usava come cognome la denominazione del suo gruppo etnico.
L’uomo si allontanò dalle bandierine di preghiera, annuì vigorosamente e, con la sigaretta stretta fra due dita, indicò la cima svettante. «Brutta giornata. La morte cavalca il vento», ripeté, poi si rimise in bocca la sigaretta e se ne andò. Per lui la faccenda era risolta.
Ma non per gli altri membri del gruppo.
Espressioni di disappunto si diffusero tra gli scalatori, che fissavano il cielo blu e sgombro sopra le loro teste. La squadra di alpinisti, composta da dieci persone, aspettava da nove giorni una situazione meteorologica favorevole. Prima di quel momento, nessuno aveva avuto nulla da ridire. Per una settimana, il buon senso aveva imposto loro di aspettare, mentre imperversava una tempesta, causata da un ciclone in arrivo dal golfo del Bengala. L’accampamento era stato spazzato da un vento selvaggio, che, sfiorando i centosessanta chilometri orari, aveva fatto volar via una delle tende della cucina ed era in grado di buttare letteralmente a terra le persone; poi erano arrivate le violente nevicate, che raschiavano qualsiasi lembo di pelle scoperta come carta vetrata.
Ma quella mattina l’alba era splendente quanto le loro speranze. Il ghiacciaio Khumbu e i seracchi brillavano dei riflessi del sole. Su tutto galleggiava un Everest incappucciato di neve e circondato dalle sue sorelle, come a una festa nuziale in bianco.
Lisa aveva scattato un centinaio di foto, riprendendo le variazioni della luce in tutta la sua bellezza cangiante. Capiva finalmente i nomi locali dell’Everest: Chomolungma, la Dea Madre del Mondo, in cinese, e Sagarmatha, la Dea del Cielo, in nepalese.
Sospesa tra le nuvole, la montagna era davvero una dea, fatta di ghiaccio e strapiombi, e tutti loro erano andati lì per adorarla, per dimostrarsi degni di baciare il cielo. Non era costato poco: sessantacinquemila dollari a testa. Perlomeno, quella cifra comprendeva l’attrezzatura da campo, i portatori, gli sherpa e, naturalmente, tutti gli yak possibili e immaginabili. Si sentì echeggiare nella vallata il muggito di una femmina di yak, una delle due dozzine che assistevano la squadra di alpinisti. Le loro tende ornavano l’accampamento come palloncini rossi e gialli. A condividere quella scarpata rocciosa c’erano altri cinque accampamenti: tutti arrampicatori in attesa che gli dei della tempesta voltassero le spalle.
Ma, secondo il loro capo sherpa, non era la giornata giusta.
«È solo una montagna di stronzate», proclamò il manager di un’azienda di articoli sportivi di Boston. Se ne stava a braccia conserte accanto al suo animale da carico, con indosso una tuta di piumino d’oca all’ultimo grido, che ricordava un po’ un piumone. «Più di seicento dollari al giorno per non muovere neanche le chiappe da qui. Ci stanno fregando. Non c’è neanche una nuvola in questo dannatissimo cielo…» Parlava sottovoce, come se volesse istigare una rivolta che non aveva nessuna intenzione di guidare in prima persona.
Lisa conosceva quel genere di individuo. Una personalità di tipo S: S come stronzo. Col senno di poi, forse non ci sarebbe dovuta andare a letto. Il solo ricordo la mise a disagio. Il rendez-vous era avvenuto negli Stati Uniti, dopo una riunione organizzativa allo Hyatt di Seattle e qualche cocktail di troppo a base di whisky. Boston Bob era stato soltanto un porto cui approdare durante una tempesta… non il primo e probabilmente nemmeno l’ultimo. Ma una cosa era certa: era un porto in cui non avrebbe mai più gettato l’ancora.
Lisa sospettava che quello fosse il motivo principale della persistente belligeranza di lui.
Si allontanò, augurandosi che suo fratello minore avesse la forza di placare il fermento. Josh era un alpinista con dieci anni di esperienza e aveva fatto in modo che Lisa potesse partecipare a una delle sue ascensioni sull’Everest. Guidava spedizioni di alpinisti in tutto il mondo almeno due volte all’anno.
Josh Cummings alzò una mano. Biondo e snello come la sorella, indossava un paio di jeans neri, infilati nelle ghette dei suoi scarponi Millet One Sport, e una maglia termica da escursione grigia.
Si schiarì la voce. «Taski ha scalato l’Everest dodici volte. Conosce la montagna e i suoi umori. Se dice che il tempo è troppo imprevedibile per procedere, vuol dire che passeremo un’altra giornata qui ad acclimatarci e a fare pratica. Per chi lo desiderasse, posso anche organizzare un’escursione in giornata alla foresta di rododendri nella valle Khumbu inferiore, con un paio di guide.»
Si alzò una mano nel gruppo. «Che ne dite di un’escursione in giornata all’hotel Everest View? Siamo accampati in queste maledette tende da sei giorni. Non mi dispiacerebbe un bagno caldo.»
La richiesta fu accolta da mormorii di consenso.
«Non so se sia davvero una buona idea», li ammonì Josh. «L’hotel è a una giornata intera di cammino e le stanze vengono riempite d’ossigeno, per evitare il mal d’altitudine. Potrebbe compromettere la vostra acclimatazione e ritardare l’ascensione.»
«Come se non fosse già abbastanza ritardata!» incalzò Boston Bob.
Josh lo ignorò. Lisa sapeva che suo fratello non si sarebbe lasciato indurre a fare una cosa così stupida, a rischiare un’ascensione in presenza di condizioni meteorologiche avverse. Anche se il cielo era sereno, sapeva che poteva cambiare da un momento all’altro. Era cresciuta sul mare, al largo della costa di Catalina, come Josh. Avevano imparato a leggere tutti i segnali, a prescindere dall’assenza di nuvole. Forse Josh non aveva un occhio da sherpa per leggere il tempo a quelle altitudini, ma certamente sapeva rispettare chi era in grado di farlo.
Lisa fissò il pennacchio di neve che volava via dalla cima dell’Everest. Era un indicatore della corrente a getto, che in vetta poteva soffiare a oltre trecento chilometri orari. Il pennacchio si allungava all’infinito. Anche se la tempesta si era esaurita, sopra gli ottomila metri le variazioni di pressione atmosferica erano ancora impetuose. La corrente a getto avrebbe potuto catapultare su di loro una nuova tempesta in qualsiasi momento.
«Potremmo almeno arrivare al campo uno», insistette Boston Bob. «Bivaccare là e poi vedere come si mette il tempo.»
La voce del negoziante di articoli sportivi aveva assunto un irritante tono piagnucoloso, nel tentativo di ottenere qualche concessione con modi più blandi. Era rosso in viso per la frustrazione.
Lisa non riusciva a spiegarsi come potesse essere stata attratta da quell’uomo. Prima che suo fratello potesse rispondere a quel cafone, s’intromise un nuovo rumore, un tonfo sordo, come un tamburo. Tutti gli sguardi si rivolsero a est. Nella luce abbagliante dell’alba comparve un elicottero nero. Un B-2 Squirrel A-Star Ecuriel, dalla tipica forma di calabrone. Un elicottero di soccorso, progettato per raggiungere quelle altitudini.
Il gruppo piombò in un silenzio assoluto.
La settimana precedente, appena prima che iniziasse l’ultima tempesta, una spedizione era salita sul versante nepalese. Secondo i contatti radio, erano al campo due, a oltre seimila e quattrocento metri di altitudine.
Lisa si schermò gli occhi. Era forse successo qualcosa?
Aveva visitato la clinica della Himalayan Rescue Association, a Pheriche. Era lì che venivano smistati tutti i casi tipici di quelle parti: ossa rotte, edema polmonare e cerebrale, congelamento, malattie cardiovascolari, dissenteria, accecamento da neve e ogni genere di infezioni, comprese quelle veneree. Pareva che persino clamidia e gonorrea fossero determinate a conquistare la vetta dell’Everest.
Ma che cos’era successo stavolta? Non c’era stato nessun SOS sulla frequenza radio delle emergenze. Gli elicotteri potevano arrivare soltanto un po’ più su del campo base, data la rarefazione dell’aria. Ciò significava che i salvataggi aerei spesso imponevano una discesa a piedi dalle altitudini più ostiche. Sopra i settemilacinquecento metri i morti venivano semplicemente lasciati dov’erano, tanto che i pendii più elevati dell’Everest si erano trasformati in un cimitero ghiacciato di attrezzature abbandonate, bombole d’ossigeno vuote e cadaveri mummificati dal gelo.
Il battito dei rotori cambiò tono.
«Vengono da questa parte», disse Josh, facendo cenno a tutti quanti di spostarsi dove erano annidate le tende, sgombrando l’area pianeggiante che fungeva da eliporto per l’accampamento.
L’elicottero nero scese su di loro. Il vortice creato dall’elica sollevò sabbia e sassolini. Un incarto di Snickers passò accanto alla faccia di Lisa. Le bandierine di preghiera danzavano e si contorcevano. Gli yak si dispersero. Dopo così tante giornate di silenzio sulle montagne, il rumore era assordante.
Il B-2 si posò sui pattini con una grazia che ne contraddiceva le dimensioni. I portelloni si aprirono e ne scesero due uomini. Uno indossava un’uniforme mimetica verde e portava in spalla un fucile automatico: era un militare dell’esercito reale del Nepal. L’altro era più alto, portava una tunica rossa e un mantello, una fascia in vita, la testa rasata a zero: un monaco buddista.
I due si avvicinarono a un paio di sherpa e parlarono speditamente in un dialetto nepalese. Ci furono un po’ di gesti, poi si sollevò un braccio, a indicare qualcuno.
Lisa.
Il monaco si avviò verso di lei, affiancato dal militare. Dalle rughe che il sole gli aveva scavato attorno agli occhi, il monaco sembrava sui quarantacinque, la pelle color caffellatte, gli occhi color caramello.
Il militare aveva la pelle più scura e gli occhi semichiusi. Aveva lo sguardo fisso sulla scollatura della donna. Lisa aveva lasciato aperto lo zip della giacca e il reggiseno sportivo che indossava sotto il pile aveva catturato l’attenzione del soldato.
Il monaco buddista, per contro, mantenne uno sguardo rispettoso, inclinando leggermente il capo a mo’ d’inchino. Parlava un inglese accurato, con un lieve accento britannico.
«Dottoressa Cummings, mi scuso per l’intrusione, ma c’è stata un’emergenza. Sono stato informato dalla clinica dell’HRA che lei è un medico.»
Lisa aggrottò le sopracciglia. «Sì.»
«Un vicino monastero è stato colpito da un male misterioso, che affligge quasi tutti gli abitanti. Un unico messaggero, un uomo di un villaggio circostante, ha viaggiato a piedi per tre giorni fino all’ospedale di Khunde. Una volta avvisati, speravamo di inviare uno dei medici dell’HRA al monastero, ma il personale della clinica è già sovraccarico per via di una valanga. La dottoressa Sorenson ci ha informato della sua presenza, qui al campo base.»
Lisa rivide nella mente la minuta dottoressa canadese. Avevano diviso assieme una serata, una confezione di Carlsberg da sei e qualche tazza di tè zuccherato con latte. «Come posso esservi utile?»
«Sarebbe disposta ad accompagnarci lassù? Per quanto sia isolato, il monastero è raggiungibile in elicottero.»
«Quanto tempo…?» chiese, lanciando uno sguardo a Josh, che li aveva appena raggiunti.
Il monaco scosse la testa, con lo sguardo preoccupato e un leggero imbarazzo per l’imposizione nei confronti della donna. «Ci vogliono circa tre ore per arrivarci. Non so che cosa ci aspetti là.» Scosse nuovamente il capo con preoccupazione.
Intervenne Josh. «Noi non ci muoveremo per tutta la giornata, in ogni caso.» Le toccò un gomito e, avvicinandosi, aggiunse: «Ma è meglio che io venga con te».
Lisa era perplessa. Sapeva cavarsela da sola, ma d’altra parte era informata sulle tensioni politiche in atto in Nepal dal 1996. I ribelli maoisti conducevano azioni di guerriglia sulle montagne, nel tentativo di rovesciare la monarchia costituzionale e rimpiazzarla con una repubblica socialista. Si sapeva che tranciavano gli arti alle loro vittime, a uno a uno, con falci da contadini. Anche se al momento c’era un cessate il fuoco, occasionalmente venivano ancora commesse atrocità.
Lisa diede uno sguardo al fucile automatico ben oliato che il soldato aveva in mano. Se anche un sant’uomo aveva bisogno di una scorta armata, forse era il caso che lei riconsiderasse l’offerta del fratello.
«Io ho ben poco a disposizione, tranne un kit di pronto soccorso e qualche attrezzatura di monitoraggio», disse in tono esitante al monaco. «Non sono equipaggiata per un’emergenza medica con un gran numero di pazienti.»
Il monaco annuì e indicò con un cenno l’elicottero, che li aspettava coi rotori ancora in movimento. «La dottoressa Sorenson ci ha dotato di tutto ciò che ci dovrebbe servire, nel breve termine. Non prevediamo di approfittare dei suoi servigi per più di una giornata. Il pilota ha un telefono satellitare per riferire quanto lei accerterà. Forse il problema è già stato risolto e potremo far ritorno addirittura entro mezzogiorno.»
Mentre pronunciava l’ultima frase, gli si adombrò il viso. Non ci credeva nemmeno lui. Le sue parole erano intrise di preoccupazione. E forse c’era anche una punta di paura.
Lisa inspirò a fondo l’aria rarefatta. Riuscì a malapena a riempire i polmoni. Aveva fatto un giuramento. E poi aveva già scattato abbastanza fotografie. Voleva ritornare a lavorare sul serio.
Il monaco notò che qualcosa era cambiato nella sua espressione. «Dunque verrà?»
«Sì.»
«Lisa…» Josh l’ammonì.
«Me la caverò.» Gli strizzò il braccio. «Tu hai una squadra da tenere a bada, per evitare un ammutinamento.»
Josh lanciò un’occhiata rapida a Boston Bob e sospirò.
«Perciò difendi il forte sino al mio ritorno.»
Il fratello si voltò di nuovo verso di lei, non convinto, ma non si mise a discutere. Aveva un’espressione tesa. «Fai attenzione.»
«Ho il meglio dell’esercito reale del Nepal come scorta.»
Josh guardò l’arma oliata del militare solitario. «È proprio questo che mi preoccupa.» Sbuffò, per alleggerire la battuta, ma la fece suonare ancora più aspra.
Lisa sapeva che non avrebbe ottenuto di meglio dal fratello. Gli diede un rapido abbraccio, prese dalla tenda lo zaino con le attrezzature mediche e, dopo pochi istanti, china sotto la minaccia affilata dei rotori, si accingeva a prendere posto sul sedile posteriore dell’elicottero di soccorso.
Il pilota non le fece neanche un cenno. Il soldato prese il posto di copilota e il monaco, che si presentò come Ang Gelu, la raggiunse sul sedile posteriore.
Lisa indossò un paio di cuffie insonorizzanti, ma il rombo dei motori crebbe comunque, mentre le pale giravano sempre più veloci. Il velivolo sobbalzò, senza sollevarsi, mentre i rotori cercavano di aggrapparsi all’aria rarefatta. Il lamento dei motori raggiunse frequenze subsoniche e finalmente l’elicottero si staccò dall’eliporto roccioso, sollevandosi rapidamente.
Quando il velivolo volteggiò sopra una vicina gola, Lisa si sentì lo stomaco piombare sotto l’ombelico. Guardò giù dal finestrino, verso l’accozzaglia di tende e yak. Individuò suo fratello, che aveva alzato un braccio per salutarla… o forse soltanto per ripararsi dalla luce del sole? Accanto a lui c’era Taski Sherpa, facilmente identificabile grazie al cappello da cowboy.
La valutazione espressa poco prima dallo sherpa la seguì su nel cielo, ghiacciando i suoi pensieri e le sue preoccupazioni.
La morte cavalca il vento.
Non era un pensiero gradevole in quel momento.
Accanto a lei, le labbra del monaco si muovevano in una preghiera silenziosa. L’uomo era ancora teso: per il loro mezzo di trasporto o per paura di ciò che avrebbero potuto scoprire al monastero?
Lisa si appoggiò allo schienale, nella mente l’eco delle parole dello sherpa. Davvero una brutta giornata.
Altitudine: 6775 m,
ore 09.13
Si muoveva agevolmente sul fondo dell’abisso, a grandi passi, affondando i ramponi d’acciaio nella neve e nel ghiaccio. Su entrambi i lati si levavano pareti di roccia nuda, con pittogrammi di licheni marroni. La gola risaliva verso l’alto. Verso il suo obiettivo.
L’uomo indossava una tuta di piumino d’oca, con un disegno mimetico composto di sfumature di bianco e nero. Aveva la testa coperta da un passamontagna di pile e il viso nascosto da grossi occhiali da neve. Portava uno zaino da alpinista del peso di ventun chili, compresa la piccozza da ghiaccio affrancata da un lato e il rotolo di corda di poliestere dall’altro.
Aveva anche un fucile d’assalto Heckler Koch, un caricatore extra da venti colpi e una sacca con nove granate incendiarie.
Non aveva bisogno di ossigeno aggiuntivo, nemmeno a quell’altitudine. Le montagne erano la sua casa da quarantaquattro anni. Era ben ambientato in quegli altipiani, come gli sherpa, ma non parlava la loro lingua e nei suoi occhi brillavano altre origini: l’uno era di un blu glaciale, l’altro bianco puro. Quella disparità lo contraddistingueva senza ombra di dubbio, come il tatuaggio che recava sulla spalla. Persino tra i Sonnenkönige, i Cavalieri del Sole.
Sentì un ronzio nell’orecchio. Era la radio.
«Sei arrivato al monastero?»
Si toccò la gola. «Quattordici minuti.»
«Non dovrà trapelare nulla dell’incidente.»
«La questione sarà risolta.» Manteneva un tono uniforme, respirando dal naso. Nella voce all’altro capo della radio non sentiva soltanto un tono di comando, ma anche paura. Una debolezza. Era uno dei motivi per cui visitava così raramente il Granitschloß, il Castello di Granito, preferendo vivere ai margini, come era suo diritto.
Nessuno gli imponeva di avvicinarsi.
Gli chiedevano soltanto di usare la sua abilità quando era necessaria.
L’auricolare crepitò. «Raggiungeranno il monastero fra poco.»
Non si prese nemmeno la briga di rispondere. Sentiva il tonfo sordo dei rotori in lontananza. Fece qualche calcolo. Non c’era fretta. Le montagne insegnavano la pazienza.
Regolarizzò il respiro e proseguì in discesa, verso il gruppetto di costruzioni in pietra coi tetti di tegole rosse. Il monastero di Temp Och era abbarbicato sul bordo di una parete rocciosa, raggiungibile soltanto da un unico sentiero, proveniente dal basso. I monaci e gli studenti raramente dovevano preoccuparsi del resto del mondo.
Fino a tre giorni prima.
L’incidente.
Il suo compito era fare pulizia.
Il battito dell’elicottero divenne sempre più intenso. Risaliva dal basso. L’uomo mantenne un passo regolare. C’era tutto il tempo. Era importante che i nuovi arrivati entrassero nel monastero.
Sarebbe stato molto più facile uccidere tutti quanti.
Ore 09.35
Dall’elicottero, il mondo sottostante appariva come un negativo fotografico o uno studio sui contrasti: bianchi e neri, neve e roccia, cime avvolte dalla nebbia e gole nell’ombra. Le creste di ghiaccio e i gelidi strapiombi rilanciavano la luce del mattino in strali lancinanti, un riverbero aereo che costituiva una minaccia costante per gli occhi.
Lisa batteva le palpebre per proteggersi dal bagliore. Chi poteva vivere così lontano da tutto, in un ambiente tanto spietato? Perché l’umanità trovava sempre luoghi così inospitali da conquistare, quando aveva a disposizione modi di vivere molto più facili?
D’altra parte, quello era il genere di domande che le rivolgeva sua madre. Perché cercare realtà così estreme? Cinque anni per mare su una nave di ricerca, poi un altro anno passato ad allenarsi e abituarsi ai rigori dell’alta montagna e infine in Nepal, a prepararsi per conquistare l’Everest. Perché tutti quei rischi, quando c’era una vita più facile a portata di mano?
Lisa aveva sempre dato una risposta semplice: il gusto della sfida. Non aveva forse risposto in modo simile anche George Mallory, la leggenda dell’alpinismo, quando gli avevano chiesto perché scalasse l’Everest? Perché c’è.Naturalmente, dietro quella celebre frase, c’era un’altra verità: Mallory l’aveva pronunciata per esasperazione, rispondendo a un giornalista che lo tormentava. Anche la risposta di Lisa alle domande di sua madre era una reazione istintiva? Che cosa ci faceva davvero lassù? La vita quotidiana comportava già sfide a sufficienza: guadagnarsi da vivere, risparmiare per la pensione, trovare qualcuno da amare, sopravvivere alle perdite, crescere dei figli.
Lisa trasalì di fronte a quei pensieri, riconoscendovi una punta d’ansia e rendendosi conto di ciò che poteva significare. Può essere che io faccia una vita al limite per evitare di vivere una vita reale? È forse per questo che così tanti uomini hanno attraversato la mia vita senza mai rimanere?
Ed eccola lì. Trentatreenne, sola, senza prospettive, soltanto la ricerca per compagna, e un sacco a pelo a una piazza per letto. Forse avrebbe dovuto semplicemente radersi la testa e trasferirsi in uno di quei monasteri in cima alle montagne.
L’elicottero sobbalzò e puntò verso l’alto.
Lisa si concentrò di nuovo sul presente.
Trattenne il fiato mentre l’elicottero volava radente sopra una cresta affilata, coi pattini che schivavano di un soffio la lingua di ghiaccio battuta dal vento, per poi tuffarsi nella gola successiva.
Lisa dovette forzare le sue dita a mollare la presa sul bracciolo del sedile. All’improvviso una villetta con tre stanze da letto e due bambini non suonava poi così noiosa.
Accanto a lei, Ang Gelu si sporse in avanti tra il pilota e il soldato e indicò un punto sotto di loro. Il rombo dei rotori inghiottì le sue parole.
Lisa premette la guancia contro il finestrino per guardare fuori. Sentì il bacio freddo della curva di plexiglas. Individuò la prima macchia di colore là sotto: tetti di tegole rosse. Un piccolo agglomerato di otto casette di pietra, abbarbicate su un altopiano e incorniciate da cime di seimila metri su tre lati e da uno strapiombo verticale sul quarto.
Il monastero di Temp Och.
L’elicottero scese precipitosamente verso gli edifici. Lisa notò un campo di patate a terrazza, da un lato, e qualche recinto e granaio sparso, dall’altro. Nessun movimento. Nessuno uscì a salutare i rumorosi nuovi arrivati.
Cosa ancora più inquietante, Lisa vide un gruppo di capre e pecore bharal blu radunate in recinti chiusi. Nemmeno loro si muovevano. Invece di essere spaventate dall’elicottero che scendeva di quota, erano stese a terra scomposte, le zampe torte, il collo piegato in modo innaturale.
Anche Ang Gelu le notò e si afflosciò sul sedile. I loro sguardi s’incrociarono. Che cosa era successo? Intanto, sul sedile anteriore era in corso una discussione di qualche tipo. Era evidente che il pilota non voleva atterrare. Il soldato ebbe la meglio, gli bastò poggiare un palmo sul calcio del fucile. Il pilota aggrottò le sopracciglia e strinse ancora di più la maschera d’ossigeno che gli copriva naso e bocca. Non perché gli servisse una fonte d’ossigeno aggiuntiva, ma per paura del contagio.
In ogni caso, obbedì agli ordini del militare. Stritolò i comandi e fece abbassare il velivolo verso terra. Puntò il più lontano possibile dai recinti degli animali, scendendo verso il margine dei campi di patate del monastero.
La piantagione era simile a un anfiteatro a più livelli, con file di minuscoli germogli verdi. La coltivazione di patate ad alta quota era stata introdotta dai britannici all’inizio del XIX secolo, diventando uno dei principali mezzi di sostentamento della zona.
Con un colpo stridente, i pattini dell’elicottero colpirono il suolo roccioso, schiacciando una fila di piantine. I germogli circostanti si dibattevano e ondeggiavano nel vortice d’aria creato dai rotori.
Nessuno si fece vivo in seguito al loro arrivo. Lisa rivide nella mente l’immagine delle bestie morte. C’era ancora qualcuno da salvare? Che cosa era successo? Passò in rassegna diverse eziologie e varie modalità di esposizione: ingestione, inalazione, contatto. O forse era qualcosa di contagioso? Le servivano maggiori informazioni.
«Forse lei dovrebbe restare qui», le disse Ang Gelu, mentre si slacciava la cintura di sicurezza. «Noi andiamo a dare un’occhiata al monastero.»
Lisa afferrò lo zaino con l’attrezzatura medica, scuotendo la testa. «Non ho paura dei malati. E ci potrebbero essere domande cui solo io so rispondere.»
Ang Gelu annuì, parlò in modo concitato col militare e aprì il portellone posteriore. Scese e si voltò per porgere una mano a Lisa.
Nell’abitacolo riscaldato s’insinuò un vento gelido, facilitato anche dal movimento dei rotori. Mentre sollevava il cappuccio del parka, Lisa si rese conto che la corrente glaciale si portava via gli ultimi residui di ossigeno disponibili a quell’altitudine. O forse era la paura. Aveva pronunciato parole più coraggiose di lei.
Prese la mano del monaco, sentendone la forza e il calore anche attraverso gli spessi guanti di lana. Lui non si curò neanche di coprirsi il capo rasato, sembrava che non si accorgesse nemmeno del freddo pungente.
Lisa scese a terra, ma rimase ferma, china sotto le pale rotanti dell’elicottero. Il militare fu l’ultimo a scendere. Il pilota restò nell’abitacolo. Aveva fatto atterrare l’elicottero, come gli era stato ordinato, ma non si arrischiava certo ad abbandonare la cabina.
Ang Gelu chiuse il portellone con un colpo deciso e i tre attraversarono di gran lena il campo di patate, dirigendosi verso l’assembramento di costruzioni di pietra. Visti da terra, gli alloggi coi tetti rossi erano più alti di quanto sembrassero dall’alto. La struttura centrale era di tre piani, con in cima un tetto in stile pagoda. Tutti gli edifici avevano decorazioni elaborate Porte e finestre erano incorniciate da affreschi con le sfumature dell’arcobaleno e gli architravi erano illuminati da foglie d’oro, mentre dagli angoli dei tetti spuntavano gli sguardi maliziosi e i ghigni beffardi di draghi e uccelli mitici scolpiti nella pietra. Le varie costruzioni erano collegate da portici, che creavano piccoli cortili e spazi appartati. Sui pali dell’intera struttura erano montate ruote di preghiera in legno, con scritte intagliate in caratteri antichi, e dai tetti pendevano bandierine di preghiera multicolore, sferzate dalle folate intermittenti.
Sembrava un luogo da fiaba, una sorta di Shangri-La d’alta quota, eppure Lisa si accorse di aver rallentato il passo. Non si muoveva nulla. Quasi tutte le persiane erano chiuse. Il silenzio era pesante.
In più c’era quell’odore caratteristico nell’aria. Pur essendo prevalentemente una ricercatrice, Lisa aveva avuto la sua dose di morti durante il praticantato in ospedale. Il fetido miasma della putrefazione non si disperdeva tanto facilmente. Pregò che provenisse soltanto dalle bestie all’altra estremità del padiglione. Tuttavia, data l’assenza di qualsiasi reazione al loro arrivo, non aveva grandi speranze.
Ang Gelu faceva strada, affiancato dal militare. Lisa fu costretta ad accelerare per seguirli. Passarono tra due edifici e si diressero verso l’imponente struttura centrale.
Nel cortile principale c’erano attrezzi agricoli sparsi a casaccio, come se fossero stati abbandonati in tutta fretta. Un carretto legato a uno yak era rovesciato su un lato. Anche la bestia era morta, riversa su un fianco, con la pancia gonfia e dilatata. L’animale aveva gli occhi fissi e lattiginosi, la lingua protesa e ingrossata tra le labbra nere e gonfie.
Lisa notò l’assenza di mosche o altri piccoli opportunisti. C’erano mosche a quella quota? Non ne era certa. Scrutò il cielo. Nemmeno un uccello, nessun rumore, a parte il sibilo sommesso del vento.
«Da questa parte», disse Ang Gelu.
Il monaco si diresse verso una serie di alte porte che conducevano alla residenza centrale, che era evidentemente il tempio principale. Controllò il catenaccio. Non era chiuso a chiave. Lo aprì, facendo gemere i cardini.
Oltre la soglia brillava debolmente il primo segno di vita. A entrambi i lati della porta ardevano grandi lampade cilindriche, con una dozzina di stoppini accesi. Erano alimentate con burro di yak. All’interno, il fetore era peggio che fuori. Non era un buon presagio.
Persino il soldato esitava a superare la soglia, passando il fucile automatico da una spalla all’altra, come per rassicurarsi. Il monaco entrò con passo deciso e pronunciò a gran voce un saluto, che echeggiò nella sala.