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L'ordine del sole nero
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Автор книги: James Rollins


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02:01

«Abbiamo due minuti per levarci di torno», concluse Lisa.

«Tutti fuori! Monk, avvisa Khamisi per radio! Digli di allontanare i suoi uomini dal palazzo.»

Il suo compagno obbedì.

«Abbiamo un elicottero sul tetto», disse Lisa.

Nel giro di pochi secondi, stavano tutti correndo. Gray sosteneva Painter, mentre Mosi aiutava Brooks. Lisa, Fiona e Marcia li seguivano.

«Dov’è Gunther?» chiese Fiona.

Le rispose Brooks: «Se n’è andato con sua sorella. Non voleva essere seguito da nessuno».

Non c’era tempo di cercarlo. Gray indicò l’ascensore. Il gruppo di Monk aveva incastrato le porte con una sedia trovata in corridoio, per evitare che qualcuno potesse usarlo per seguirli.

Si accalcarono nella cabina.

Lisa premette il bottone del sesto piano. L’ascensore cominciò a salire lentamente.

«Ho avvisato il nostro uomo all’eliporto», disse Monk. «Non sa pilotare, ma sa come girare una chiave. Scalderà i motori».

«La bomba», disse Gray, rivolgendosi a Lisa. «Che cosa ci dobbiamo aspettare?»

«Se è come quella dell’Himalaya, sarà una bella esplosione. Hanno sviluppato una specie di bomba quantica utilizzando lo Xerum 525.»

Gray ripensò ai fusti immagazzinati al piano inferiore…

L’ascensore continuò a salire, passando il piano terra, che era mortalmente silenzioso.

Painter si mosse. Non era ancora in grado di sostenersi da sé, ma guardò negli occhi Gray. «La prossima volta… ci vai tu, in Nepal… da solo.»

Gray sorrise: sì, Painter era tornato.

Ma per quanto tempo?

L’ascensore raggiunse il sesto piano e si aprì.

«Un minuto», li informò Marcia. Aveva la presenza mentale per tenere conto del tempo.

Salirono di corsa le scale del tetto e trovarono l’elicottero ad aspettarli, con le pale in movimento.

Una volta sotto i rotori, Gray passò Painter a Monk. «Fai salire tutti a bordo.»

Lui corse dall’altro lato e si mise al posto di pilotaggio.

«Quindici secondi!» gridò Marcia.

Gray accelerò i motori. Le pale stridevano. Tirò il collettivo e il velivolo staccò i pattini dal tetto.

A che quota dovevano portarsi?

Regolò l’inclinazione delle pale e spinse ancora di più i motori.

Mentre salivano rapidamente, Gray fece una leggera imbardata e studiò l’area circostante il palazzo. Vide Jeep e motociclette che si allontanavano a tutta velocità, in ogni direzione.

Marcia cominciò un conto alla rovescia: «Cinque, quattro…»

Non era del tutto preciso.

D’un tratto, una luce accecante esplose sotto di loro, come se si stessero sollevando dal sole. Ma l’effetto più fastidioso era il silenzio assoluto. Incapace di vedere, Gray si sforzò di mantenere in volo l’elicottero. Però era come se l’aria fosse svanita. Sentiva che il velivolo stava perdendo quota.

Poi la luce scomparve, con un colpo fragoroso, cascando come un getto d’acqua.

All’improvviso, i rotori ritrovarono l’aria e l’elicottero sobbalzò per un lungo momento. Gray lo stabilizzò e si allontanò, virando, poi lanciò un’occhiata al punto in cui prima sorgeva il palazzo. C’era un gigantesco cratere, dalle pareti lisce, scavato di netto nella roccia e nel terreno. Era come se un possente Titano avesse sollevato il palazzo e gran parte dei giardini circostanti con un gigantesco cucchiaio da gelato.

Era scomparso tutto quanto. Non c’erano macerie, soltanto il vuoto.

I laghi e i ruscelli, tagliati a metà, riversavano cascate d’acqua oltre il bordo del cratere.

Più in là, Gray notò i veicoli che si fermavano e persone che si guardavano indietro. L’esercito di Khamisi era al sicuro. Il popolo zulù si era radunato ai confini, per riprendersi ciò che aveva perso molto tempo prima.

Gray li sorvolò con l’elicottero, girando attorno al cratere. Si ricordò del fusto di Xerum 525 mancante, quello destinato agli Stati Uniti. Accese la radio e cominciò ad attraversare una lunga catena di codici di sicurezza per contattare il comando della Sigma.

Fu sorpreso di sentirsi rispondere da Sean McKnight, l’ex direttore della Sigma. Gray si sentì raggelare per la paura. Che cosa ci faceva lì? C’era qualcosa che non andava.

McKnight lo informò brevemente di ciò che era accaduto. L’ultima notizia fu come un pugno nello stomaco.

Poi Gray chiuse la comunicazione, intontito e scioccato.

Monk si era sporto in avanti, notando la sua costernazione. «Che c’è?»

Si voltò. Doveva guardare in faccia il suo compagno per dirglielo. «Monk… si tratta di Kat.»

Washington, D.C.,

ore 18.47

C’erano voluti tre giorni, tre lunghigiorni per sistemare tutto quanto in Sudafrica.

Finalmente, erano atterrati al Dulles International, dopo un volo da Johannesburg. Monk aveva piantato Gray e gli altri all’aeroporto. Aveva preso al volo un taxi e se n’era andato. Poi il taxi si era ritrovato bloccato nel traffico, nei pressi del parco. Monk si era dovuto trattenere dall’aprire la portiera e mettersi a correre, ma alla fine l’ingorgo si era risolto e si erano nuovamente messi in moto.

Monk si sporse in avanti. «Cinquanta dollari se mi ci porti in meno di cinque minuti.»

L’accelerazione lo appiattì al sedile. Si cominciava a ragionare.

Entro due minuti comparve una serie di edifici di mattoni marroni. Sfrecciarono accanto a un cartello che segnalava il Georgetown University Hospital. Con grande stridore di pneumatici, entrarono nel parcheggio, rischiando di strisciare contro un’ambulanza.

Monk lanciò una manciata di banconote al tassista e saltò giù.

S’infilò di traverso nella porta automatica, impaziente perché ci metteva troppo ad aprirsi. Corse a capofitto lungo il corridoio, schivando pazienti e personale. Sapeva il numero della stanza nel reparto di terapia intensiva.

Passò di corsa davanti a una postazione di infermieri, ignorando una voce che gli strillava di rallentare.

Non oggi, dolcezza.

Monk girò l’angolo di volata e vide il letto. Continuò a correre, cadde mentre si avvicinava e scivolò sulle ginocchia fino alla fiancata del letto. Infine andò a sbattere piuttosto forte contro la sponda abbassata.

Kat lo fissò, con una cucchiaiata di gelatina verdognola tremolante sospesa davanti alla bocca.

«Sono venuto il prima possibile…»

«Ma neanche un’ora e mezzo fa abbiamo parlato al telefono satellitare.»

«Quello è solo parlare.»

Si alzò, si chinò sul letto e la baciò in bocca. Le bende erano avvolte attorno alla spalla sinistra e alla parte superiore del tronco, nascoste per metà da un camice blu da ospedale. Tre colpi d’arma da fuoco, un’emorragia copiosa, un polmone collassato, frattura della clavicola e milza lacerata.

Ma era viva.

E dannatamente fortunata.

Il funerale di Logan Gregory si sarebbe tenuto tre giorni dopo.

Comunque, i due avevano salvato Washington da un attentato terroristico, uccidendo il sicario dei Waalenberg e bloccando il piano prima che fosse messo in atto. La Campana dorata era sepolta nei laboratori di ricerca della Sigma. La partita di Xerum 525 era stata ritrovata presso uno spedizioniere nel New Jersey. Ma quando le agenzie di intelligence statunitensi l’avevano rintracciata – compito non facile, data la vasta rete di aziende, società fasulle e affiliate di proprietà dei Waalenberg – quell’ultima partita di Xerum era ormai deteriorata. Rimasta troppo a lungo al sole, la sostanza era diventata inerte, per mancanza di una refrigerazione adeguata. E, senza quel combustibile, le Campane, anche quelle recuperate presso le altre ambasciate, non avrebbero mai più suonato.

Per fortuna.

Monk preferiva l’evoluzione all’antica. Lasciò scivolare la mano sulla pancia di Kat. Aveva paura di chiedere.

Non ce ne fu bisogno. La mano di lei coprì la sua. «Il bambino sta bene. I medici dicono che non ci dovrebbero essere complicazioni.»

Monk cadde di nuovo in ginocchio, appoggiando la testa sul ventre di Kat. Chiuse gli occhi, la cinse attorno alla vita, delicatamente, facendo attenzione alle ferite, e la strinse forte. «Grazie a Dio.»

Kat gli accarezzò la guancia.

Ancora in ginocchio, Monk mise una mano in tasca e tirò fuori l’astuccio nero dell’anello. Glielo porse, gli occhi ancora chiusi, una preghiera sulle labbra. «Sposami.»

«Okay.»

Monk aprì gli occhi, guardando in faccia la donna che amava. «Cosa?»

«Ho detto ‘okay’.»

«Sei sicura?»

«Stai cercando di farmi cambiare idea?»

«Be’, sei sotto l’effetto dei farmaci. Forse te lo dovrei chiedere…»

«Dammi l’anello e basta.» Prese l’astuccio e l’aprì. Lo fissò in silenzio per un istante. «È vuoto.»

Monk controllò: l’anello era scomparso.

«Che è successo?» chiese Kat.

«Fiona», grugnì Monk.

ore 10.32

Il mattino successivo, Painter era disteso supino in un’altra ala del Georgetown University Hospital. Il lettino riemerse dal cilindro della macchina per la TAC. L’esame era durato più di un’ora e lui si era quasi addormentato, visto che negli ultimi giorni aveva riposato ben poco. Ogni notte era tormentato dall’ansia.

Un’infermiera aprì la porta e Lisa entrò nella stanza.

Painter si mise a sedere. Faceva freddo e lui non indossava altro che un camice d’ospedale leggerissimo. Si sforzò di recuperare un minimo di dignità, piegando e rimboccando quel velo, ma alla fine rinunciò.

Lisa gli si sedette accanto e, con un cenno del capo, indicò la sala di monitoraggio. C’era un gruppo di ricercatori del Johns Hopkins e della Sigma, intenti a discutere sulle sue condizioni di salute.

«I risultati sono buoni», lo informò la donna. «Tutti i segni di calcificazione interna sono in calo e i valori stanno ritornando nella norma. Potrebbe rimanere un residuo di cicatrizzazione della valvola aortica, ma forse nemmeno quello. Il tasso di recupero è straordinario. Miracoloso, oserei dire.»

«Puoi dirlo forte», replicò Painter. «Ma che ne dici di questo?»

Fece scorrere le dita tra una ciocca di capelli bianchi, sopra un orecchio.

Lei ci mise anche le sue, di dita. «Mi piace. E tu starai bene.»

Lui le credette. Per la prima volta, era convinto che sarebbe guarito completamente. Gli sfuggì un sospiro. Aveva ancora una vita davanti.

Prese la mano di Lisa e le baciò il palmo, poi la posò.

Lei arrossì e diede un’occhiata al vetro della stanza di monitoraggio, ma non spostò la mano, mentre discuteva alcuni dettagli tecnici con l’infermiera.

Painter la osservò. Era andato in Nepal per indagare sulle malattie riferite da Ang Gelu, ma anche per ritagliarsi un periodo di riflessione. Si era aspettato incensi, ore di meditazione, canti e preghiere, invece si era ritrovato coinvolto in un viaggio infernale per mezzo mondo. Alla fine, però, ne era valsa la pena.

Strinse le dita attorno alla mano di Lisa.

Aveva trovato lei.

Tuttavia, anche se ne avevano passate così tante assieme in quei giorni, si conoscevano a malapena. Chi era, veramente? Qual era il suo cibo preferito, che cosa la faceva sbellicare dalle risate, come ballava, che cosa gli avrebbe sussurrato all’orecchio dandogli la buonanotte?

Painter sapeva soltanto una cosa con certezza, seduto quasi nudo accanto a lei, in un camice d’ospedale, esposto fino al DNA.

Voleva sapere tutto di lei.

ore 14.22

Due giorni dopo, i fucili esplosero gli ultimi colpi nel cielo blu, riecheggiando secchi tra i verdi pendii dell’Arlington National Cemetery. Era una giornata troppo assolata per un funerale.

Gray si fece da parte, mentre la cerimonia terminava. In lontananza, a sovrastare il gruppo dei partecipanti al lutto, sorgeva la tomba del milite ignoto: ottanta tonnellate di marmo Yule, estratto da una cava del Colorado. Rappresentava i caduti senza nome, le vite donate per servire la patria.

Logan Gregory era uno di loro, un altro sconosciuto. Pochi avrebbero saputo del suo eroismo, del sangue versato per proteggere gli Stati Uniti.

Ma qualcuno ne era a conoscenza.

Gray guardò il vicepresidente consegnare una bandiera piegata alla madre di Logan, sostenuta dal marito. Logan non aveva moglie né figli. La Sigma era la sua vita… e la sua morte.

Un po’ alla volta, dopo il viavai per le condoglianze e i commiati, la funzione terminò. Tutti si diressero verso le limousine nere e le Town Car.

Gray fece un cenno a Painter, che, convalescente, si appoggiava a un bastone, ancora zoppicante, ma sempre più in forze, giorno dopo giorno. Al suo fianco, la dottoressa Lisa Cummings lo teneva a braccetto, non per sostenerlo, ma soltanto per stargli vicino.

Monk li seguiva e tutti assieme si diressero verso la fila delle auto in attesa.

Kat era ancora in ospedale. E comunque il funerale sarebbe stato insostenibile per lei. Era ancora troppo presto.

Quando raggiunsero le auto, Gray si avvicinò a Painter. Avevano alcune questioni da discutere.

Lisa baciò il direttore sulla guancia. «Ci vediamo là.» Poi fece un passo indietro, affiancandosi a Monk. Avrebbero preso un’altra macchina per raggiungere la casa dei Gregory, dove era previsto un piccolo rinfresco.

Gray aveva scoperto che i genitori di Logan vivevano soltanto a qualche isolato dai suoi genitori, a Takoma Park. Un’ulteriore dimostrazione di quanto poco conoscesse quell’uomo.

Painter raggiunse una Lincoln e salì sul sedile posteriore. L’autista alzò il vetro divisorio, mentre faceva partire l’auto.

«Gray, ho letto il tuo rapporto», disse finalmente il direttore. «È una prospettiva interessante. Continua pure a fare ricerche in merito. Ma dovrai andare nuovamente in Europa.»

«Ho già altre questioni personali da risolvere laggiù. E proprio di questo che le volevo parlare: volevo chiedere qualche giorno in più.»

Painter inarcò un sopracciglio, con un’espressione di stanca facezia. «Non so se il mondo è pronto per un’altra delle tue vacanze di lavoro.»

Gray dovette ammettere che il suo capo non aveva tutti i torti.

Painter si riassestò sul sedile, chiaramente dolorante. «E che mi dici del rapporto della dottoressa Fairfield? Credi che la stirpe dei Waalenberg…» Scosse la testa.

Anche Gray aveva letto quel rapporto. Ripensò a quando con la dottoressa inglese si era intrufolato nel laboratorio degli embrioni, sepolto ai livelli inferiori del palazzo. La dottoressa Fairfield aveva affermato che, più grande era un tesoro, più in profondità era nascosto. Lo stesso valeva per i segreti, soprattutto quelli dei Waalenberg. Come i loro esperimenti chimerici, in cui mescolavano cellule staminali umane e animali nei cervelli delle creature.

Ma c’era anche di peggio.

«Abbiamo controllato gli archivi medici dell’azienda a partire dagli anni ’50», disse Gray. «È confermato: Baldric Waalenberg era sterile.»

«Non c’è da meravigliarsi che quel bastardo fosse così ossessionato dalla genetica e che combattesse la natura per piegarla al suo volere. Ma i suoi nuovi bambini… quelli che ha usato negli esperimenti? È vero?»

Gray scrollò le spalle. «Baldric era coinvolto nel programma nazista Lebensborn, il programma di riproduzione ariana, oltre che in altri progetti di eugenetica e nei primi tentativi di conservare ovuli e sperma. Alla fine della guerra, sembra che il programma Xerum 525 non fosse l’unico progetto segreto finito nelle mani di Baldric. Ce n’era anche un altro, di cui erano rimaste alcune provette congelate. Baldric ha scongelato quei campioni e li ha usati per inseminare la sua giovane moglie.»

«Ne sei sicuro?»

Gray annuì. Nel laboratorio sotterraneo, la dottoressa Fairfield aveva esaminato il vero albero genealogico del nuovo, perfezionato clan dei Waalenberg. Aveva visto il nome scritto accanto a quello della moglie di Baldric: Heinrich Himmler, il capo dell’Ordine Nero. Il gerarca nazista si era ucciso alla fine della guerra, ma aveva un piano per continuare a vivere dopo la morte, per dare i natali ai nuovi superuomini ariani, una nuova stirpe di re germanici, tramite il suo seme corrotto.

«E ora che il clan dei Waalenberg è stato sterminato», riferì Gray, «anche quel mostro è finalmente sepolto.»

«O almeno si spera», replicò Painter.

«Sono in contatto con Khamisi, che ci tiene informati sulla puliziadella tenuta. Finora hanno preso alcune guardie. Teme che parte degli animali del serraglio sia fuggita nel folto della foresta, ma probabilmente sono in gran parte morti nell’esplosione. Le ricerche continuano, comunque.»

Khamisi era stato nominato sovrintendente capo ad interim della riserva di Hluhluwe-Umfolozi. Il governo sudafricano gli aveva attribuito poteri di polizia per l’emergenza e l’incarico di coordinare l’aiuto delle tribù locali col capo Mosi D’Gana. Anche la dottoressa Paula Kane e Marcia Fairfield gli fornivano supporto tecnico nella gestione delle reazioni dell’intelligence internazionale alla guerriglia e alla devastante esplosione.

Le due donne si erano reinsediate nella loro abitazione nella riserva, felici di essersi ritrovate entrambe vive e vegete, ma avevano anche accolto in casa loro Fiona. Le due spie avevano persino aiutato la ragazza ad accedere a un programma di studi preliminari a Oxford.

Gray aveva lo sguardo fisso sul paesaggio che sfrecciava oltre il finestrino. Sperava che a Oxford vigesse la massima sicurezza. Sospettava che il tasso di microcriminalità attorno all’università stesse per subire un improvviso e significativo aumento.

Pensando a Fiona, Gray si ricordò che doveva sentire Ryan. Dopo l’assassinio del padre, il giovane aveva messo all’asta la tenuta di famiglia, deciso a sfuggire finalmente all’ombra di Wewelsburg.

Meglio così.

«Monk e Kat?» chiese Painter, richiamando la sua attenzione. Il tono di voce era più sereno. Aveva quantomeno messo da parte il dolore per la perdita dell’amico. «Ho sentito che ieri si sono fidanzati ufficialmente.»

Gray si rese conto di sorridere, per la prima volta, quel giorno. «Infatti.»

«Che il cielo ci aiuti.»

Condivisero quel breve lampo di felicità: la vita continuava. Discussero qualche altro dettaglio, poi l’autista infilò l’auto nei viali alberati di Takoma Park, fermandosi davanti a una piccola casa vittoriana verde.

Painter scese.

Lisa era già lì.

«Abbiamo finito?» chiese Painter a Gray.

«Sissignore.»

«Fammi sapere che cosa scopri in Europa. E prenditi pure qualche giorno in più.»

«Grazie, signore.»

Painter porse il braccio a Lisa e la coppia si diresse verso la casa.

Mentre Gray scendeva dall’auto, Monk lo raggiunse e indicò la donna e il direttore con un cenno del capo. «Scommettiamo?»

Gray li guardò salire le scale della veranda. I due erano stati quasi inseparabili da quando avevano lasciato la tenuta dei Waalenberg. Morta Anna e scomparso Gunther, Lisa era l’unica persona che conoscesse il funzionamento della Campana. Era stata interrogata a lungo alla Sigma. Ma Gray sospettava che Painter e Lisa avessero usato quei colloqui come scusa per trascorrere altro tempo assieme.

Sembrava che la Campana non avesse soltanto guarito il corpo.

Gray soffermò lo sguardo per un istante sulle loro mani intrecciate e rifletté sulla proposta di Monk. Ma era ancora troppo presto per fare previsioni. Se la vita e la coscienza erano un fenomeno quantistico, forse lo era anche l’amore.

Amare o non amare.

L’onda o la particella.

Forse per Painter e Lisa erano ancora entrambele cose, un potenziale sospeso che soltanto il tempo avrebbe stabilizzato.

«Non so», borbottò Gray.

Si avviò verso la casa, pensando al proprio futuro.

Come tutti, anche lui aveva una sua realtà da misurare.

EPILOGO

Wroclaw, Polonia,

ore 18.45

Era in ritardo.

Mentre il sole calava all’orizzonte, Gray avanzava sul ponte verde di ghisa. La struttura attraversava il fiume Oder, una distesa piatta verde, lucente come uno specchio.

Gray guardò l’orologio. Sara sarebbe atterrata di lì a poco. Si erano dati appuntamento al caffè di fronte al loro albergo, nel centro storico. Ma prima lui aveva un altro capitolo da chiudere, un ultimo colloquio.

Una coppia di cigni neri solcava le acque sottostanti e nel cielo scorrazzavano alcuni gabbiani, che si riflettevano nel fiume. L’aria profumava di mare e dei lillà che crescevano lungo gli argini. Gray aveva iniziato la sua missione su un ponte di Copenhagen e lo terminava su un altro ponte.

Sollevò lo sguardo verso l’antica città, ornata di guglie nere, torrette con tetti di rame e campanili rinascimentali. La città di Wroclaw un tempo si chiamava Breslavia ed era una fortezza al confine tra la Germania e la Polonia. Interi quartieri erano stati rasi al suolo durante la seconda guerra mondiale, quando la Wehrmacht tedesca si era scontrata con l’Armata Rossa.

Era quello il motivo per cui Gray ci era andato.

Davanti a lui sorgeva l’Isola della Cattedrale. Le due torri gotiche della cattedrale di San Giovanni Battista, che dava il nome all’isola, fiammeggiavano nella luce del tramonto. Ma la cattedrale non era la destinazione di Gray. C’erano decine di chiese più piccole ammassate sull’isola, e quella cui era diretto si ergeva a pochi passi dal ponte.

La piccola e modesta chiesa dei Santi Pietro e Paolo era sulla sinistra, la parete posteriore che si fondeva con l’argine di mattoni del fiume. Gray vide la porticina di una carbonaia che conduceva dalla sponda rocciosa del corso d’acqua all’entrata posteriore della canonica.

Forse un certo bambino un tempo aveva giocato in quei paraggi?

Un bambino perfetto…

Gray aveva scoperto negli archivi russi desecretati di recente che il bambino era cresciuto all’orfanotrofio un tempo gestito dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Molti bambini erano rimasti orfani a causa della guerra, ma Gray aveva ristretto le possibilità in base all’età, al sesso e al colore dei capelli.

L’ultimo di quei parametri era sicuramente biondo-platino.

Gray aveva anche trovato documenti relativi alla perlustrazione della città da parte dell’Armata Rossa – che aveva setacciato le montagne in cerca dei laboratori sotterranei dei nazisti – nonché alla scoperta presso la Miniera di Wenceslas. I russi avevano quasi catturato l’ Obergruppenführerdelle SS Jakob Sporrenberg, il nonno di Anna e Gunther, mentre metteva in salvo la Campana. Lisa aveva saputo da Anna che era proprio in quella città, proprio in quel fiume, che Tola, la figlia di Hugo, aveva affogato il bambino.

Ma l’aveva fatto davvero?

Era quell’incertezza che aveva spinto Gray e una manciata di ricercatori della Sigma a scavare in vecchi archivi, seguendo una pista ormai fredda da tempo, ricomponendo frammenti sparsi. Poi la scoperta: il diario del prete che gestiva l’orfanotrofio, che raccontava di un bambino ritrovato fra le braccia della madre morta. Lei era stata sepolta in una tomba anonima in un cimitero nelle vicinanze.

Ma il bambino era sopravvissuto. Era cresciuto lì, era entrato in seminario ed era stato istruito dallo stesso prete che l’aveva salvato, per poi diventare padre Piotr.

Gray raggiunse la porta della canonica. Aveva chiamato per fissare un appuntamento col prete sessantenne, fingendo di essere un giornalista che faceva ricerche sugli orfani di guerra per scrivere un libro. Sollevò il batacchio di ferro e lo sbatté contro l’anonima porta di assi di legno.

Sentiva dei canti provenire dalla chiesa, dove era in corso una funzione.

Dopo qualche istante, la porta si aprì.

Gray riconobbe subito l’uomo che lo salutò, perché aveva visto quel viso senza rughe e coi folti capelli bianchi con la riga in mezzo in alcune vecchie foto. Padre Piotr era vestito in modo informale, con jeans, una camicia nera, il collare bianco che ne indicava la professione e un maglione leggero abbottonato.

Parlava inglese con un forte accento polacco. «Lei dev’essere Nathan Sawyer.»

Gray annuì, sentendosi improvvisamente a disagio nel mentire a un prete. Si schiarì la voce. «Grazie per avermi concesso questa intervista.»

«Di nulla. Si accomodi, è il benvenuto.»

Padre Piotr condusse Gray lungo il corridoio della canonica, fino a una piccola stanza. Nell’angolo c’era una stufa a carbone accesa, con sopra una teiera. Il prete stava preparando il tè. Indicò una sedia a Gray che, una volta accomodatosi, tirò fuori un taccuino con una serie di domande.

Piotr versò due tazze di tè e si sedette su una vecchia e logora poltrona, coi cuscini che avevano impressa l’impronta del suo corpo. Su un tavolino, accanto a una lampada col paralume di vetro, c’erano una Bibbia e alcuni romanzi gialli consunti.

«Lei è venuto per chiedere informazioni su padre Varick, vero?» chiese l’uomo, con un sorriso dolce e genuino. «Un grand’uomo.»

Gray annuì. «E anche sulla suavita, qui all’orfanotrofio, padre Piotr.»

Il prete sorseggiò il suo tè e fece cenno a Gray di proseguire.

Le domande non erano molto importanti, servivano soprattutto a colmare alcuni vuoti. Gray sapeva già quasi tutto della vita dell’uomo. Lo zio di Sara, Vittorio, in quanto capo dell’intelligence vaticana, aveva fornito alla Sigma un dossier completo e dettagliato su quel sacerdote.

Compresa la sua cartella clinica.

Padre Piotr aveva vissuto una vita modesta. Non c’era nulla degno di nota nella sua carriera, tranne la costante devozione al suo gregge. La sua salute, però, era eccezionale. La sua anamnesi era scarna. Da adolescente si era procurato una frattura, cadendo da un masso. Ma, a parte quello, gli esami di routine mostravano un individuo in perfetta forma. Non era imponente come Gunther o terribilmente agile come i Waalenberg. Era soltanto perfettamente sano.

Dall’intervista non emerse nulla di nuovo.

Gray chiuse il taccuino e ringraziò il prete per il tempo che gli aveva dedicato. Per completezza, si sarebbe procurato campioni di sangue e DNA alla successiva visita medica del sacerdote, sempre tramite lo zio di Sara. Ma non si aspettava che venisse fuori nulla di particolare.

Il bambino perfetto di Hugo era semplicemente un uomo onesto e premuroso, con una salute eccezionale. Forse era sufficiente per parlare di perfezione.

Mentre stava uscendo, Gray vide un puzzle non ancora finito su un tavolo, nell’angolo della stanza. «Le piacciono i puzzle?»

Padre Piotr fece un sorriso colpevole, disarmante. «Solo un hobby, per allenare la mente.»

Gray annuì e uscì. Pensò a Hugo Hirszfeld, che condivideva lo stesso interesse. Forse un’essenza immateriale del ricercatore ebreo era stata trasmessa al bambino, tramite la Campana? Mentre Gray lasciava la chiesa e si apprestava ad attraversare nuovamente il fiume, rifletté su quei collegamenti. Padri e figli. Era soltanto genetica? O c’era qualcosa di più, al livello dei quanti?

La questione non era nuova per Gray. Lui e suo padre non erano mai andati d’accordo e soltanto di recente avevano cominciato a costruire un rapporto. E poi c’erano altre questioni, preoccupanti. Come Piotr aveva ereditato la passione per i puzzle, che cosa aveva ereditato lui dal padre? Di certo non poteva negare di temere l’Alzheimer, una possibilità concreta dal punto di vista genetico, ma c’era anche qualcosa di più profondo, che riguardava il loro rapporto contrastato.

Che tipo di padre sarebbe stato, lui?

Sebbene fosse in ritardo, quell’interrogativo fece fermare di colpo Gray sul ponte.

Quell’unica domanda fu sufficiente a cambiare la sua percezione della realtà.

Ricordò le parole di Monk sull’aereo per la Germania, a proposito della sua relazione con Sara: Avresti dovuto vedere la tua faccia quando ho detto che Kat è incinta. Ti è venuta la cacarella, anche se il bambino èmio.

Era quello che lo spaventava a morte.

Che tipo di genitore sarebbe stato? Sarebbe stato uguale a suo padre?

Gray trovò la risposta nel luogo più improbabile. Una ragazza gli passò accanto: camminava spedita, rannicchiata in un maglione col cappuccio per proteggersi dal vento che spirava lungo il fiume. Pensò a Fiona. Ricordò i giorni di terrore, la mano di lei che teneva stretta la sua perché aveva bisogno di lui, anche se allo stesso tempo lo combatteva costantemente. Ricordò le sensazioni che ciò gli aveva suscitato.

Strinse forte il parapetto del ponte.

Erano state sensazioni meravigliose e voleva provarle ancora.

Quando se ne rese conto, gli sfuggì una breve risata. Non doveva per forza essere come suo padre. Se, da una parte, c’era il potenziale per seguire le sue orme, d’altra parte lui era dotato di libera volontà, di una coscienza che poteva condensare quel potenziale in una direzione o nell’altra.

Finalmente libero, attraversò il ponte, consentendo a quella realtà di far crollare lentamente altri potenziali, l’uno dopo l’altro, con un effetto domino, fino ad arrivare a un ultimo potenziale vacillante e irrisolto.

Sara.

Si diresse verso il luogo dell’appuntamento.

Lei lo stava aspettando davanti al caffè, ma non lo aveva ancora visto. Gray si fermò, colpito dalla sua bellezza. Gli capitava ogni volta. Alta e snella, fianchi, petto e collo che disegnavano curve invitanti. Sara si voltò e si accorse di lui che la fissava. Le fiorì in volto un sorriso e le brillarono gli occhi di un caldo color caramello. Si passò una mano tra i capelli scuri, un gesto quasi timido.

Chi non avrebbe voluto trascorrere il resto della propria vita con quella ragazza?

Gray la raggiunse, allungando una mano verso le sue dita. In quell’istante, si ricordò nuovamente della provocazione di Monk. Sembrava fosse passato così tanto tempo…

Moglie, mutuo, figli.

In altre parole, realtà.

Una relazione non poteva rimanere sospesa per sempre come puro potenziale.Amare e nonamare allo stesso tempo. L’evoluzione non l’avrebbe sostenuta. Prima o poi doveva misurarsi con la realtà.

E così dovette fare anche Gray in quel momento.

Moglie, mutuo, figli.

Gray aveva la risposta. Era pronto per tutt’e tre le sfide. E, così, nel suo cuore cadde anche l’ultima pedina.

Amare o non amare.

L’onda o la particella.

Gray prese le dita di Sara. Lo vedeva con chiarezza, ma il risultato lo sorprese comunque. Accompagnò la donna al tavolino, notando che ad aspettarli c’erano già un piatto con alcune focaccine e due tazze fumanti di caffellatte.

La solita, premurosa Sara.

La fece accomodare e si sedette a sua volta.

La guardò negli occhi. Non riuscì a cancellare il dolore e le scuse nella sua voce, ma lasciò che risuonasse chiaramente anche la sua determinazione. «Sara, dobbiamo parlare.»

Poi vide che c’era qualcosa anche negli occhi di lei: la realtà. Due carriere, due continenti, due persone con percorsi diversi.

Lei gli strinse le dita. «Lo so.»

Padre Piotr aveva guardato il giovane attraversare il ponte. Era accanto alla porta della carbonaia, che conduceva alla cantina della canonica. Aveva aspettato che il visitatore svanisse in lontananza, poi aveva sospirato.


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