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L'ordine del sole nero
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Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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«C’è poco da scherzare. I nazisti avevano capito il potere intrinseco delle idee. Un potere più grande di qualsiasi arma. Lo usarono per soggiogare un’intera nazione, facendole il lavaggio del cervello.»

Un fulmine illuminò la sala alle loro spalle, seguito ben presto da un rombo di tuono che rimescolava le viscere. Le luci tremolarono.

Si fermarono.

«Un solo squittio di pipistrello», bisbigliò Monk. «Anche un pipistrello minuscolo…»

Le luci brillarono più forte, poi si stabilizzarono. I quattro proseguirono. Il breve corridoio terminava con una porta a vetri sbarrata, oltre la quale c’era una sala più grande.

«La Obergruppenführersaal.» Ulmstrom tirò fuori un pesante mazzo di chiavi e aprì la porta. «Il sancta sanctorum del castello. I normali visitatori non vi possono accedere, ma penso che voi possiate apprezzarla.»

Tenne la porta aperta, facendoli entrare l’uno dietro l’altro. La pioggia sferzava le finestre, disposte lungo la circonferenza della sala.

«Himmler costruì questa sala circolare per riprodurre quella di re Artù a Camelot. Fece persino piazzare un massiccio tavolo rotondo di quercia al centro. Era qui che radunava i dodici ufficiali principali del suo Ordine Nero, per assemblee e rituali.»

«Che cos’è quest’Ordine Nero?» chiese Monk.

«Era un altro nome delle SS. Per essere più precisi, der Schwarze Auftrag, l’Ordine Nero, era il nome dato alla cerchia ristretta dei seguaci di Himmler, un comitato segreto che aveva le proprie radici nella società occulta di Thule.»

Di nuovo la società di Thule. Himmler era membro di quel gruppo, come il bisnonno di Ryan. Gray rifletté su quel collegamento. Un gruppo segreto di occultisti e scienziati che credeva in una razza superiore che un tempo aveva dominato il mondo e che sarebbe tornata a farlo.

Il direttore proseguì: «Himmler credeva che questa sala e la torre fossero il centro spirituale e geografico del nuovo mondo ariano».

«Perché qui?» chiese Gray.

Ulmstrom scrollò le spalle e si portò al centro della stanza. «In questa regione i teutoni sconfissero i romani in una battaglia cruciale per la storia germanica.»

Gray aveva sentito un racconto analogo dal padre di Ryan.

«Ma i motivi possono essere molti, da queste parti le leggende abbondano. Qui vicino c’è un gruppo di monoliti preistorici simili a Stonehenge, si chiama Externsteine. Alcuni sostengono che sorga sulle radici dell’albero del mondo norreno, lo Yggdrasil. E poi, naturalmente, c’erano le streghe.»

«Quelle che furono uccise proprio in questo castello», aggiunse Gray.

«Himmler credeva, forse a ragione, che quelle donne fossero state massacrate perché erano pagane e praticavano rituali nordici. Ai suoi occhi il fatto che il loro sangue fosse stato versato qui non faceva altro che consacrare questa terra.»

«È proprio vero quello che dicono gli agenti immobiliari, allora», borbottò Monk. «Tutto dipende dalla posizione.»

«Qualunque sia il motivo, questo è lo scopo ultimo di Wewelsburg», disse Ulmstrom, indicando il pavimento.

Nella semioscurità, c’era un disegno realizzato con mattonelle verde scuro su sfondo bianco. Somigliava a un sole con dodici raggi a forma di saetta.


« Die schwarze Sonne, il Sole Nero.» Ulmstrom girò attorno alla circonferenza. «Anche questo simbolo affonda le radici in numerosi miti, ma per i nazisti rappresentava la terra dalla quale discendeva il Padre di tutte le cose. Una terra chiamata con molti nomi diversi: Thule, Iperborea, Agartha. In ultima analisi, il simbolo rappresenta il sole sotto il quale sarebbe rinata la razza ariana.»

«Il ritorno al Padre di tutte le cose», commentò Gray, ripensando alla Menschrune.

«Quello era l’obiettivo ultimo dei nazisti, o almeno di Himmler e del suo Ordine Nero: far ritornare il popolo tedesco al proprio status divino. Perciò Himmler scelse questo simbolo per rappresentare l’ordine.»

Gray cominciava a intuire il tipo di ricerca in cui Hugo poteva essere stato coinvolto. Un biologo originario di Wewelsburg. Forse era implicato in una forma distorta del progetto Lebensborn, una specie di programma eugenetico? Ma perché qualcuno avrebbe continuato a uccidere per un programma del genere? Qual era la scoperta di Hugo che secondo lui doveva rimanere segreta, nascosta in codice nei libri di famiglia?

Gray ripensò il passaggio della lettera scritta da Hugo alla figlia, poco prima di morire. Accennava a un segreto, una verità troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata.Che cosa aveva scoperto? Che cosa voleva nascondere ai suoi superiori nazisti?

Un altro lampo filtrò attraverso le finestre. Il simbolo del Sole Nero brillò. Le luci elettriche tremolarono, mentre il riverbero del tuono scuoteva il castello abbarbicato sulla collina. Non era il posto migliore in cui stare durante un temporale.

Come a volerlo confermare, l’illuminazione divenne più intensa, poi si spense del tutto.

Ma la luce fievole che penetrava dalle finestre consentiva ancora di vedere qualcosa. Si sentirono alcune grida in lontananza. Più vicino, ci fu un forte clangore. Tutti gli sguardi si diressero verso l’origine di quel suono.

La porta della sala si era chiusa, sbattendo. Gray poggiò la mano sull’impugnatura della pistola, nella fondina sotto il maglione.

«Un blocco di sicurezza», li rassicurò Ulmstrom. «Nulla da temere. I generatori di riserva dovrebbero…»

Le lampade tremolarono, poi si riaccesero.

«Ah, ecco qua. Es tut mir leid», si scusò il direttore. «Da questa parte.» Li condusse di nuovo alla porta di sicurezza, ma, anziché dirigersi verso la sala principale, puntò verso una scalinata laterale. Evidentemente il tour non era finito. «Penso che potreste trovare particolarmente interessante anche un’altra sala, dato che vi è rappresentata la Menschruneche avete visto nella Bibbia.»

Sentirono un rumore di passi che si avvicinavano rapidamente.

Gray si voltò, rendendosi conto di avere ancora la mano sulla pistola. Ma non c’era motivo di sfoderarla. Ryan camminava di gran lena verso di loro, tenendo stretta una busta marrone imbottita. Lanciò una serie di occhiate rapide attorno a sé, evidentemente allarmato dal breve blackout. « Ich glaube…» Si schiarì la voce. «Ho tutte le carte, compresa la lettera indirizzata alla mia prozia, Tola.»

Monk prese la busta. «Ora possiamo levarci dalle scatole.»

Forse era il caso. Gray diede un’occhiata al dottor Ulmstrom, fermo in cima a una rampa di scale che scendeva a un livello inferiore.

Il curatore fece un passo verso di loro. «Se andate di fretta…»

«Non si preoccupi. Che cosa stava dicendo della Menschrune?» Sarebbe stato sciocco andarsene senza esplorare appieno la questione.

Ulmstrom indicò le scale. «Giù c’è l’unica stanza dell’intero castello in cui si trova la Menschrune.Naturalmente la presenza di questa runa ha senso soltanto considerando…»

«Considerando cosa?»

Ulmstrom sospirò, guardando l’orologio. «Venite. Dovrò fare alla svelta, in ogni caso.» Si voltò e cominciò a scendere le scale.

Gray fece cenno a Fiona e Ryan di seguirlo.

Monk strizzò gli occhi quando passò davanti a Gray. «È ora di andare…»

Gray capiva l’impazienza dell’amico. Prima il falso allarme con la Mercedes, poi il blackout. Ma non era successo nulla e lui non voleva sprecare l’opportunità di scoprire qualcosa di più sulla runa della Bibbia e sui collegamenti alla storia di quel luogo.

La voce di Ulmstrom lo raggiunse mentre scendeva le scale. Gli altri erano arrivati al pianerottolo inferiore. «Questa sala è direttamente sotto la Obergruppenführersaal.»

Gray si unì agli altri nel momento in cui il curatore apriva una porta identica a quella del piano superiore, anch’essa sbarrata e sigillata da una spessa lastra di vetro. Ulmstrom tenne aperta la porta ed entrò dopo gli altri.

Anche quella stanza era circolare, ma non aveva finestre. Era illuminata dalla luce fioca di alcune lampade a muro. Dodici colonne di granito erano disposte lungo la circonferenza, a sostenere un soffitto a cupola. Al centro della cupola era stata dipinta una svastica rovesciata.

«Questa è la cripta del castello», spiegò Ulmstrom. «Notate il pozzo al centro della stanza. È lì che veniva bruciato, con un cerimoniale, il blasone degli ufficiali delle SS caduti.»

Gray aveva individuato subito il pozzo di pietra, posto direttamente sotto la svastica sul soffitto.

«Stando vicino al pozzo e guardando le pareti, si vedono le Menschrunenche vi sono raffigurate.»

Gray si avvicinò e seguì le istruzioni. Le rune erano state incise nelle pareti di pietra, in corrispondenza dei punti cardinali. Gray capì finalmente l’osservazione fatta da Ulmstrom poco prima: La presenza di questa runa ha senso soltanto considerando…

Le rune erano tutte rovesciate.

Totenrunen.Rune di morte.

Un forte clangore, identico a quello di poco prima, risuonò nella stanza. Ma, a differenza di prima, non c’era stato nessun blackout. Gray si girò, rendendosi conto dell’errore. La curiosità gli aveva fatto abbassare la guardia.

Il dottor Ulmstrom non si era mai allontanato dalla porta, poi era uscito e aveva fatto scattare la serratura. Parlando ad alta voce attraverso la spessa lastra di vetro, senza dubbio antiproiettile, disse: «Adesso capirete il vero significato della Totenrune» .

Quindi ci fu uno schiocco sonoro. Le lampade si spensero. Senza finestre, la stanza piombò nell’assoluta oscurità.

Rimasero tutti in silenzio, scioccati. Poi sopraggiunse un nuovo suono: un sibilo feroce.

Ma non proveniva da un serpente.

Gray lo sentì sulla lingua.

Gas.

Himalaya,

ore 13.38

I tre elicotteri si allargarono a ventaglio per sferrare l’attacco.

Painter studiava i velivoli in avvicinamento con un binocolo. Si era slacciato la cintura di sicurezza ed era sgattaiolato sul sedile del copilota. Riconobbe i mezzi nemici: Eurocopter Tiger, elicotteri di peso medio, equipaggiati con gun pode missili aria-aria.

«Avete qualche arma montata sull’elicottero?» chiese Painter.

« Nein.»

Azionando i pedali del timone, Gunther fece girare l’elicottero, allontanandosi dagli avversari. Poi piegò il muso in avanti, accelerando. La loro unica contromisura era l’agilità. L’A-Star, più leggero e non appesantito dagli armamenti, era più veloce e manovrabile. Ma anche quel vantaggio era limitato.

Painter sapeva dove stava andando Gunther. Aveva studiato a fondo le cartine della regione. Il confine con la Cina era a meno di cinquanta chilometri.

Se i loro aggressori non fossero riusciti a eliminarli, avrebbero fatto comunque la stessa fine per aver invaso lo spazio aereo cinese. Con le tensioni in corso tra il governo nepalese e i ribelli maoisti, il confine era sotto stretta sorveglianza. Erano tra l’incudine e il martello.

«Missile!» gridò Anna dal sedile posteriore, guardando indietro.

Ancora prima che finisse di parlare, una scia sibilante di fuoco e fumo li superò a sinistra, mancandoli di qualche metro appena. Il missile esplose contro un costone ghiacciato davanti a loro. Un grosso blocco di roccia si staccò e scivolò via.

Gunther inclinò l’elicottero su un fianco e accelerò, scansando la pioggia di macerie. Puntò verso il basso e s’infilò a tutta velocità tra due creste. Così erano temporaneamente fuori tiro.

«Proviamo ad atterrare e a scappare a piedi», propose Anna.

Painter scosse la testa, gridando per farsi sentire sopra il rumore del motore: «Conosco quei Tiger. Hanno gli infrarossi, la traccia del nostro calore corporeo ci smaschererebbe. Dopodiché non potremmo sfuggire ai loro proiettili».

«E allora che facciamo?»

Painter aveva ancora fitte terribili alla testa. Il suo campo visivo si era ridotto a un fascio sottilissimo.

Fu Lisa a rispondere, sporgendosi in avanti, con lo sguardo sulla bussola. «L’Everest.»

«Cosa?»

Indicò la bussola con un cenno del capo. «Stiamo puntando dritti sull’Everest. E se atterrassimo lì e ci perdessimo nella folla degli alpinisti?»

Painter rifletté su quel piano. Nascondersi in piena vista.

«La tormenta ha fatto ritardare le ascensioni», proseguì Lisa. «Quando sono venuta via c’erano circa duecento persone in attesa di salire, tra cui anche alcuni soldati nepalesi. Forse ce ne saranno ancora di più, dopo l’incendio al monastero.»

Lisa lanciò un’occhiata ad Anna. Painter interpretò la sua espressione: stavano lottando per sopravvivere accanto al nemico che aveva incendiato quel monastero. Ma adesso c’era un avversario più pericoloso che li minacciava. Se da una parte Anna aveva compiuto azioni imperdonabili, l’altra fazione l’aveva costretta ad agire, mettendo in moto la catena di eventi che li aveva condotti fin lì.

Painter sapeva che non sarebbe finita. Era soltanto l’inizio, un attacco simulato allo scopo di fuorviarli. Cera qualcosa di mostruoso in corso. Le parole di Anna gli echeggiarono nella testa dolorante: Dobbiamo fermarli.

«Con tutti i telefoni satellitari e le telecamere che trasmettono dal campo base, non oseranno attaccare», concluse Lisa.

«Speriamo», replicò Painter. «Altrimenti metteremo in pericolo molte vite.» Sapeva che il fratello di Lisa era al campo base.

Lei lo guardò. «Dobbiamo correre il rischio, è troppo importante.» Evidentemente era arrivata alla stessa conclusione cui era giunto anche lui un istante prima. «Bisogna che qualcuno sappia cosa sta succedendo.»

Painter si guardò attorno nell’abitacolo.

Anna indicò la parete che avevano di fronte. «Si fa prima a passare sopra la spalla dell’Everest per arrivare dall’altra parte, piuttosto che girarci attorno.»

«Perciò dirigiamo verso il campo base?» chiese Painter.

Erano tutti d’accordo.

Ma gli altri no.

Un elicottero superò la cresta rombando e passò sopra di loro, sfiorando i loro rotori coi pattini d’atterraggio. L’intruso sembrò sorpreso di ritrovarseli lì. Con un’improvvisa piroetta, il Tiger prese quota.

In ogni caso, li avevano scovati.

Painter pregò che gli altri due elicotteri fossero andati a cercarli più lontano, ma d’altra parte un Tiger bastava e avanzava.

Il disarmato A-Star s’infilò in un canalone più ampio, una conca piena di neve e ghiaccio. Non c’era riparo. Il pilota del Tiger reagì rapidamente, tuffandosi all’inseguimento.

Gunther accelerò e aumentò l’inclinazione delle pale, tentando uno sprint a tutta velocità. Forse avrebbero distanziato il più pesante Tiger, ma non i suoi missili. Come a confermarlo, il Tiger lanciato in picchiata mise in azione i gun pod, sputando fuoco e bucherellando la neve.

«Così non riuscirai mai a seminare quel bastardo!» gridò Painter, puntando il pollice verso l’alto. «Cambia direzione!»

Gunther gli lanciò un’occhiata alquanto perplessa.

«Lui è più pesante», spiegò Painter, gesticolando. «Noi possiamo salire a una quota più alta, dove non ci può seguire.»

Gunther annuì e tirò indietro il collettivo, trasformando il movimento da orizzontale a verticale. L’elicottero si scagliò verso il cielo.

Il Tiger fu sorpreso da quella manovra ed esitò un istante prima di seguirli, salendo a spirale.

Painter controllò l’altimetro. Il record mondiale di quota per un elicottero era stato raggiunto da un A-Star alleggerito, atterrato in cima all’Everest. Non c’era bisogno che salissero così in alto. Appesantito dagli armamenti, il Tiger cominciò a perdere colpi quando superarono la soglia dei seimila settecento metri. I rotori giravano inutilmente nell’aria rarefatta, rendendo difficile controllare imbardate e rollio e impossibile impostare una posizione d’attacco per lanciare i missili.

Nel frattempo, il loro velivolo continuava a salire, portandoli al sicuro.

Ma non potevano rimanere lassù per sempre.

Ciò che saliva doveva anche scendere, prima o poi. E l’aggressore li aspettava più giù, facendo la ronda come uno squalo. Non doveva far altro che tenerli d’occhio. Painter vide gli altri due Tiger che si dirigevano verso di loro, convocati per la caccia: un branco che stringeva il cerchio attorno alla preda ferita.

«Sali sopra l’elicottero», disse Painter.

Gunther aveva sempre la fronte corrugata, ma obbedì.

Painter si voltò verso Anna e Lisa. «Guardate fuori dai finestrini laterali. Fatemi sapere quando il Tiger è direttamente sotto di noi.»

Entrambe risposero con un cenno di assenso.

Painter concentrò l’attenzione sulla leva che aveva davanti.

«Ci siamo quasi!» gridò Lisa.

«Adesso!» esclamò Anna, un secondo dopo.

Painter tirò forte la leva che controllava l’argano nel carrello dell’elicottero. Painter aveva usato la corda e l’imbracatura poco prima. Ma in quel momento non stava calando l’imbracatura: la leva d’emergenza che aveva tirato serviva a scaricare il gruppo dell’argano, in caso s’incastrasse.

Gunther virò per ottenere una visuale migliore e Painter si sporse per vedere se la manovra era riuscita.

L’argano colpì il Tiger, abbattendosi sui rotori. L’effetto fu devastante, quanto una bomba. Le pale si staccarono e l’elicottero si mise a girare come una trottola, rovesciandosi di lato e precipitando.

Non avendo tempo da perdere, Painter indicò la vetta bianca dell’Everest che s’innalzava di fronte a loro, velata dalle nuvole. Dovevano raggiungere il campo base, sui pendii più bassi, ma a quella quota il cielo non era più sicuro: erano inseguiti da altri due elicotteri e Painter aveva finito gli argani.

Lisa guardava gli elicotteri piombare su di loro, trasformandosi da moscerini in falchi. Era una corsa.

Gunther scese in picchiata, lasciando l’aria rarefatta. Puntava allo spazio tra l’Everest e la sua cima gemella, il Lhotse. I due monti erano collegati da una cresta nota anche come «sella sud». Dovevano superarla e mettere la montagna tra sé e gli altri. Il campo base era dall’altra parte, ai piedi della sella.

Se l’avessero raggiunto…

Lisa pensò al fratello, al suo sorriso sciocco, al ciuffo ribelle che cercava sempre di appiattire. Come le era saltato in mente di portare quella guerra al campo base, da suo fratello?

Painter confabulava con Gunther, ma il rombo del motore si mangiava le loro parole. Doveva fidarsi di Painter. Lui non avrebbe messo in pericolo inutilmente la vita di nessuno.

La sella sorgeva davanti a loro. L’Everest occupava tutto lo spazio a destra, con un pennacchio di neve che sventolava sulla cima. Il Lhotse, la quarta vetta più alta del mondo, era una parete alla loro sinistra.

Gunther aumentò l’angolo di discesa e Lisa si tenne alla cintura. Le sembrava di cadere fuori dal parabrezza. Il mondo divenne un’unica superficie di ghiaccio e neve.

Un urlo sibilante penetrò il rombo del motore.

«Missile!» gridò Anna.

Gunther tirò violentemente il collettivo. Il muso dell’elicottero s’impennò e imbardò a destra. Il missile sfrecciò sotto i loro pattini e disegnò una traccia nella cresta orientale della sella. Le fiamme si alzarono verso il cielo. Gunther schivò l’esplosione, poi scese nuovamente in picchiata.

Premendo una guancia contro il finestrino laterale, Lisa guardò indietro. I due elicotteri avevano ridotto le distanze, piegando verso di loro. Poi una parete di ghiaccio le ostruì la visuale.

«Siamo sopra la cresta!» avvertì Painter. «Tenetevi forte!»

L’elicottero si tuffò lungo il pendio della sella sud. Sotto di loro sfrecciavano neve e ghiaccio. Più avanti, comparve una cicatrice scura: il campo base.

Puntarono in quella direzione, come se volessero precipitare sulla tendopoli. Il campo diventava sempre più grande sotto di loro, crescendo di secondo in secondo, finché non si cominciarono a distinguere le bandierine cerimoniali agitate dal vento e le singole tende.

«Così ci schianteremo!» gridò Painter.

Gunther non rallentò.

Lisa sentì una preghiera, o forse un mantra, uscire dalle sue labbra: «Oh, Dio… oh, Dio… oh, Dio…»

All’ultimo momento, Gunther cambiò direzione, lottando coi comandi e col vento. L’elicottero continuò a scendere, mentre i rotori stridevano.

Sballottata di qua e di là, Lisa si aggrappò ai braccioli. Poi i pattini sbatterono forte a terra, leggermente inclinati verso il basso, sbalzandola in avanti. La cintura di sicurezza la trattenne. Il risucchio dei rotori sollevò un turbine di neve, ma alla fine l’elicottero si poggiò completamente sui pattini, in piano.

«Tutti fuori!» ordinò Painter, mentre Gunther riduceva la velocità del motore.

I portelloni si aprirono e i passeggeri rotolarono fuori.

Painter fu subito accanto a Lisa e la prese sottobraccio. Anna e Gunther li seguirono. Una massa di persone convergeva verso di loro. Lisa guardò in alto, verso la cresta della montagna. Una colonna di fumo saliva da dietro la sella, nel punto dove era caduto il missile. Dovevano averlo sentito tutti, al campo. Le tende si erano svuotate.

Furono assaliti da una ridda di voci in un miscuglio di lingue diverse.

Lisa, quasi assordata dall’elicottero, si sentiva lontanissima da tutto quanto.

Poi fu raggiunta da una voce. «Lisa!»

Si voltò. Una figura familiare, con pantaloni da neve neri e una maglia termica grigia, si fece strada tra la folla, a gomitate e spintoni.

«Josh!»

Painter le consentì di deviare in quella direzione. Ben presto, Lisa fu tra le braccia del fratello. Si strinsero forte. Lui aveva un vago odore di yak. Lisa non aveva mai sentito un odore migliore di quello.

Gunther grugnì alle loro spalle. « Pass auf!»

Un avvertimento.

Attorno a loro si levarono urla allarmate. L’attenzione si spostò come un’onda verso un punto indicato da una serie di braccia alzate.

Lisa si liberò dall’abbraccio del fratello. Un paio di elicotteri d’assalto sorvolava la sella, agitando il fumo dell’esplosione del missile. Rimanevano sospesi sul posto, come predatori letali.

Andate via, pregò Lisa, con tutta la sua volontà. Andate via e basta.

«Chi sono quelli?» chiese un’altra voce.

Lisa non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere Boston Bob, un errore del passato. Il suo accento e il tono sempre lamentoso lo identificavano in modo univoco. Invadente come al solito, doveva aver seguito Josh. Lisa lo ignorò.

Ma Josh doveva averla sentita irrigidirsi quando erano comparsi gli elicotteri. «Lisa…»

Lei scosse la testa, gli occhi fissi al cielo. Le serviva tutta la concentrazione possibile per scacciarli via.

Ma furono sforzi vani.

Entrambi gli elicotteri puntarono giù per il pendio, verso di loro, sputando fuoco dal muso. Neve e ghiaccio saltavano in aria, in linee parallele di morte, che bucherellavano la roccia, puntando direttamente sul campo base.

«No…» gemette Lisa.

Boston Bob gridò, mentre arretrava: «Che diavolo avete fatto?»

La folla, esterrefatta e immobile per un istante, improvvisamente eruppe in grida e urla, disperdendosi in tutte le direzioni.

Painter prese l’altro braccio di Lisa e la trascinò via, portandosi dietro anche Josh. Ma non c’era nessun nascondiglio.

«Una radio!» gridò Painter a Josh. «Dove troviamo una radio?»

Il fratello di Lisa si limitò a guardare il cielo in silenzio.

Lei lo strattonò, attirando la sua attenzione. «Josh, dobbiamo trovare una radio.» Aveva capito a cosa pensava Painter. Perlomeno dovevano far sapere al resto del mondo quello che era successo.

Josh indicò una grande tenda rossa. «Da questa parte… Hanno allestito una rete di comunicazione d’emergenza, dopo l’attacco dei ribelli al monastero.»

Si precipitarono in quella direzione.

Lisa notò che Boston Bob li seguiva, guardandosi le spalle, percependo l’autorità che emanava Paitner. O forse era il fucile d’assalto di Gunther. Il tedesco aveva caricato un’altra granata nel lanciarazzi. Era pronto a un ultimo atto di resistenza, mentre loro tentavano di inviare un appello via radio.

Ma, prima che potessero raggiungere la tenda, Painter gridò: «Giù!» e gettò a terra Lisa.

Tutti seguirono il suo esempio, anche se Josh dovette afferrare Boston Bob per le gambe per farlo cadere.

Un nuovo, strano rumore echeggiò tra le montagne. Painter scandagliò il cielo.

«Che cosa…» chiese Lisa.

«Aspetta», disse Painter, perplesso.

Poi, sopra la spalla del Lhotse, comparvero due jet militari, che solcavano il cielo a tutta velocità, tracciando scie parallele. Sputavano fuoco da sotto le ali.

Missili.

Ma il loro obiettivo non era la base. I jet sfrecciarono sulle loro teste con un rombo assordante e salirono rapidamente di quota.

I due elicotteri d’assalto vennero colpiti dai missili termici, riversando sulla neve una pioggia di fuoco e rottami. Ma nemmeno una scheggia arrivò fino al campo.

Painter si rimise in piedi, poi aiutò Lisa ad alzarsi. Gli altri fecero altrettanto.

Boston Bob si fece avanti, facendo il prepotente con Lisa. «Che diavolo era quel casino? Che merda ci hai scaricato addosso?»

Lisa fece per andarsene. Come le era venuto in mente di andare a letto con quel tipo, a Seattle? Era come se fosse stata un’altra donna a farlo.

«E non mi voltare le spalle, puttana!»

Lisa si girò, col pugno chiuso, ma non ce ne fu bisogno. Ci aveva già pensato Painter. Caricò il braccio e mollò un diretto in faccia a quell’uomo. Lisa sapeva che cos’era un colpo da KO, ma non ne aveva mai visto uno dal vivo. Boston Bob cadde all’indietro, dritto come un fuso, e si schiantò al suolo. Non si rialzò. Rimase lungo disteso, col naso rotto, privo di sensi.

Painter scrollò la mano, trasalendo.

Josh restò a guardare a bocca aperta, poi sorrise. «Ragazzi, è da una settimana che non vedevo l’ora di farlo.»

Prima che qualcuno potesse aggiungere qualcosa, un uomo dai capelli biondo-rossicci uscì dalla tenda. Indossava un’uniforme militare. Degli Stati Uniti.

Si avvicinò al gruppetto, posando lo sguardo su Painter. «Direttore Crowe?» chiese, con l’accento strascicato della Georgia, tendendo una mano.

Painter accettò la stretta di mano, con una smorfia di dolore per la pressione sulle nocche contuse.

«Logan Gregory le manda i suoi saluti, signore.» Con un cenno del capo, l’uomo indicò i resti degli elicotteri esplosi.

«Meglio tardi che mai.»

«Lo abbiamo in linea. Se mi vuole seguire.»

Painter accompagnò l’ufficiale dell’Air Force, il maggiore Brooks, verso la tenda. Lisa cercò di seguirli, assieme ad Anna e Gunther, ma il maggiore sollevò una mano per fermarli.

«Torno subito», li rassicurò Painter, entrando nella tenda.

All’interno c’era un vasto assortimento di apparecchiature. Un radiotelegrafista si allontanò da una stazione per le telecomunicazioni satellitari e Painter prese il suo posto.

«Logan?»

La voce gli giunse chiara. «Direttore Crowe, è meraviglioso sentire che sta bene.»

«Penso di dover ringraziare lei per questo.»

«Abbiamo ricevuto il suo SOS.»

Perciò il suo messaggio era arrivato a destinazione. Per fortuna il segnale GPS era stato inviato prima che l’amplificatore sovraccarico esplodesse. Evidentemente era stato sufficiente per consentire la loro localizzazione.

«Abbiamo dovuto lavorare alla svelta per attivare la sorveglianza e coordinarci con l’esercito reale nepalese», spiegò Logan. «E comunque ce l’abbiamo fatta per un soffio.»

Ovviamente Logan aveva monitorato l’intera situazione via satellite, forse già dal momento in cui erano fuggiti dal castello.

Ma i dettagli potevano attendere, Painter aveva preoccupazioni più importanti. «Logan, prima che faccia un rapporto completo, ho bisogno che lei avvii una ricerca. Le faxerò un simbolo, un tatuaggio.» Painter mimò il gesto di scrivere su un blocco, rivolgendosi al maggiore Brooks. Gli furono portati carta e penna. Disegnò rapidamente il simbolo che aveva visto sulla mano dell’assassina: era l’unico indizio che avevano. «Cominci immediatamente. Veda se riesce a scoprire se qualche organizzazione terroristica, partito politico, cartello del narcotraffico, o addirittura un reparto di Boy Scout ha qualche legame con questo simbolo.»

«Mi metto subito al lavoro.»

Completato uno schizzo approssimativo del tatuaggio a forma di quadrifoglio, Painter lo passò al radiotelegrafista.

Mentre il fax veniva trasmesso, Painter riferì in breve che cosa era accaduto. Fu grato a Logan perché non lo interruppe per fare domande.

«Il fax è già arrivato?» chiese Painter dopo qualche minuto.

«Lo sto prendendo in mano in questo momento.»

«Perfetto. Questa ricerca ha la massima priorità.»

Seguì una lunga pausa. Painter pensò che avessero perso il segnale, poi Logan ricominciò a parlare, esitante, confuso. «Signore…»

«Che c’è?»

«Conosco questo simbolo. Grayson Pierce me l’ha mandato otto ore fa.»

«Come?»

Logan riferì gli eventi di Copenhagen. Painter faceva fatica a dare un senso a tutto quanto. Conclusa la fuga, l’adrenalina stava svanendo e il dolore martellante alla testa lo confondeva e lo deconcentrava. Si sforzò di mettere assieme i pezzi del puzzle. Gli stessi assassini erano alle costole di Gray, Sonnenkönigenati sotto una Campana straniera. Ma che cosa ci facevano in Europa? Che cosa c’era di così importante in qualche libro? Gray era in Germania a proseguire le indagini, cercando di scoprire qualcosa di più.

Painter chiuse gli occhi. Il mal di testa peggiorò ulteriormente. Gli attentati in Europa confermavano ancora una volta che era in atto qualcosa di grosso. E forse che il piano stava per arrivare a compimento.

Ma quale?

Avevano soltanto un punto di partenza, un unico indizio. «Quel simbolo deve essere importante. Dobbiamo scoprire a chi appartiene.»

Logan rispose, in tono asciutto: «Forse ho la risposta».

«Come? Di già?»

«Ho avuto otto ore, signore.»

Giusto. Painter scosse la testa. Diede un’occhiata alla penna che aveva in mano, poi notò qualcosa di strano. Girò la mano: l’unghia del mignolo era scomparsa, si era staccata, forse quando aveva preso a pugni lo stronzo, qualche minuto prima. Non c’era sangue, soltanto carne asciutta, pallida, insensibile e fredda.

Painter sapeva bene cosa significava.

Il tempo stringeva.

Logan spiegò ciò che aveva scoperto. Painter lo interruppe: «Ha già dato queste informazioni a Gray?»

«Non ancora, signore. Abbiamo difficoltà a raggiungerlo in questo momento.»

«Si metta in contatto con lui, subito. Gray non ha idea di chi ha di fronte.»

Wewelsburg, Germania,

ore 09.50

La cripta s’illuminò: Monk aveva acceso una torcia. Gray cercò la propria nello zaino, l’accese e la puntò verso l’alto. Lungo il bordo della cupola c’erano piccole bocche di aerazione. Ne sgorgava un gas verdognolo, più pesante dell’aria, creando cascate di fumo. Le bocche di aerazione erano troppo in alto e troppo numerose per poterle bloccare.

Fiona gli si avvicinò. Ryan era dal lato opposto del pozzo, con le braccia strette al petto, incredulo.


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