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L'ordine del sole nero
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Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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9. IL SABOTATORE

Himalaya,

ore 12.32

«Da dove proviene il segnale?» chiese Anna.

La donna si era precipitata nel locale manutenzione, rispondendo immediatamente alla chiamata di Gunther. Era arrivata da sola, sostenendo che Lisa preferiva fermarsi in biblioteca, per proseguire alcune ricerche. Painter ritenne più probabile che Anna volesse tenerli ancora separati. Meglio così, almeno Lisa era al sicuro, soprattutto se davvero erano sulle tracce del sabotatore.

Avvicinandosi allo schermo del laptop, Painter si massaggiò i polpastrelli. Sentiva un formicolio insistente sotto le unghie. Smise di sfregarsi le dita per il tempo necessario a indicare lo schema tridimensionale del castello. «La stima migliore è che provenga da questa zona», disse, toccando un punto sullo schermo. Aveva constatato con sorpresa quanto il castello si estendesse nella montagna. Era scavato nella roccia fino alla vetta. Il segnale proveniva dal versante opposto. «Ma non è un punto preciso. Il sabotatore ha bisogno di un’esposizione diretta per usare il telefono satellitare.»

«C’è l’eliporto, laggiù», disse Anna.

Gunther annuì, con un grugnito. Sullo schermo, le righe lampeggianti svanirono all’improvviso. «Ha riagganciato», disse Painter. «Dobbiamo muoverci alla svelta.»

Anna si rivolse a Gunther: «Contatta Klaus e digli che i suoi uomini devono chiudere gli accessi all’eliporto. Subito».

Gunther si precipitò verso un telefono e diede inizio al blocco. Il piano era perquisire chiunque si trovasse nelle vicinanze del segnale e scoprire chi fosse in possesso di un telefono satellitare illecito.

Anna ritornò da Painter. «Grazie per l’aiuto. Continueremo noi la ricerca.»

«Potrei esservi ancora utile», replicò Painter, che non aveva smesso di battere sulla tastiera del laptop. Memorizzò il numero apparso sullo schermo, poi scollegò l’amplificatore di segnale che aveva costruito. «Ma mi servirà uno dei vostri telefoni satellitari portatili.»

«Non posso lasciarla qui con un telefono», ribatté Anna, massaggiandosi le tempie e trasalendo per le fitte di emicrania.

«Non c’è bisogno che mi lasciate qui. Vengo con voi all’eliporto.»

Gunther fece un passo avanti, assumendo un’espressione ancora più accigliata del solito.

Anna lo allontanò con un cenno. «Non abbiamo tempo di discutere.» Ma tra il bestione e sua sorella ci fu una comunicazione silenziosa. La donna lo stava avvisando di tenere d’occhio Painter.

Lei fece strada.

Painter la seguì, continuando a massaggiarsi le dita. Le unghie avevano cominciato a bruciare. Le osservò con attenzione per la prima volta, aspettandosi di trovarle infiammate, ma erano stranamente sbiancate, scolorite.

Un principio di congelamento?

Gunther gli passò uno dei telefoni del castello, notò lo sguardo di Painter e scosse la testa. Allungò una mano. Dapprima Painter non capì, ma poi si accorse che all’uomo mancavano le unghie delle ultime tre dita.

Gunther riabbassò il braccio e s’incamminò al seguito di Anna.

Painter chiuse le mani a pugno e le riaprì. Quel bruciore, quel formicolio, non erano dovuti al congelamento. La malattia quantica stava progredendo. Ricordò l’elenco degli effetti debilitanti riscontrati fra i soggetti degli esperimenti con la Campana: perdita delle dita delle mani, delle orecchie, delle dita dei piedi. Non molto diverso dalla lebbra.

Quanto tempo, ancora?

Mentre si dirigevano verso l’altro versante della montagna, Painter studiò Gunther. L’uomo aveva vissuto tutta la vita con una spada di Damocle sopra la testa: deperimento cronico e progressivo, seguito da follia. Painter stava andando incontro alla versione abbreviata della stessa malattia. Non poteva negare di esserne terrorizzato. Non tanto per il deperimento fisico, ma per la perdita delle facoltà mentali.

Quanto tempo gli rimaneva?

Gunther doveva aver intuito i suoi pensieri. «Non permetterò che tutto questo accada ad Anna. Farò qualsiasi cosa per impedirlo.»

In fondo erano fratello e sorella. Solo dopo averlo saputo, Painter aveva notato le elusive somiglianze nei lineamenti: la curvatura delle labbra, il mento scolpito allo stesso modo, un’identica espressione accigliata. Ma le somiglianze terminavano lì. I capelli scuri di Anna e i suoi occhi, di un profondo verde smeraldo, erano in netto contrasto coi colori sbiaditi del fratello. Soltanto Gunther era nato sotto la Campana: un figlio sacrificato, una decima versata col sangue, l’ultimo dei Sonnenkönige.

Mentre percorrevano corridoi e scendevano scale, Painter staccò il coperchio posteriore dal telefono portatile. Estrasse la batteria e fece un collegamento di fortuna tra l’amplificatore e il filo dell’antenna, dietro la batteria. Avrebbe trasmesso un solo segnale, per qualche secondo, ma probabilmente sarebbe bastato.

«Che cos’è quello?» chiese Gunther.

«L’amplificatore ha registrato i dati del chip del telefono del sabotatore, durante la chiamata. Forse riesco a usarli per trovarlo, se è qui vicino.»

Gunther grugnì, bevendosi quella frottola.

Fin lì tutto bene.

Le scale terminavano in un’ampia galleria, abbastanza larga da poterci far passare un carro armato. Il pavimento era percorso da vecchi binari d’acciaio che s’inoltravano nel cuore della montagna. L’eliporto era situato all’altra estremità. Montarono su una vettura col pianale piatto. Gunther rilasciò il freno a mano e azionò il motore elettrico spingendo un pedale.

Painter si tenne forte, mentre sfrecciavano nella galleria, illuminata da lampade intermittenti sul soffitto. «E così avete la vostra metropolitana personale.»

«Per trasportare merci», rispose Anna, con la fronte corrugata per il dolore. Durante il tragitto aveva preso due pastiglie. Analgesici?

Superarono una serie di magazzini pieni di barili, scatoloni e casse, evidentemente trasportati lì per via aerea. Dopo un minuto raggiunsero la fine della galleria. L’aria era più calda, vaporosa, e c’era un vago odore di zolfo. Sceso dalla vettura, Painter sentì nelle gambe una vibrazione profonda e sonora che risaliva dal pavimento. Ricordava di aver visto nella piantina del castello che la centrale geotermica era situata nei sotterranei di quell’area.

Loro, comunque, non sarebbero scesi, ma risaliti in superficie lungo una rampa molto ampia. Giunsero in un locale in cui si riversava la luce proveniente da due portelloni d’acciaio aperti nel soffitto. Sembrava il magazzino di un aeroporto commerciale: casse, carrelli elevatori, macchinari pesanti e, al centro, un paio di elicotteri A-Star Ecuriel, uno nero e uno bianco, entrambi somiglianti a calabroni.

Klaus, il gigantesco Sonnenkönig, li vide arrivare e marciò fino a loro. Ignorò tutti tranne Anna. «Tutto a posto.» Fece cenno a una fila di uomini e donne, lì accanto. Erano una dozzina, sotto gli occhi attenti di una falange di guardie armate.

«Non vi è sfuggito nessuno?» chiese Anna.

« Nein, eravamo pronti.»

Anna aveva piazzato quattro Sonnenkönigein ognuno dei quadranti principali del castello, pronti a isolare qualsiasi regione Painter avesse individuato col suo apparecchio. E se avesse fatto un errore? Sicuramente il movimento avrebbe messo in allarme il sabotatore, che si sarebbe eclissato. Avevano una sola possibilità.

Anna attraversò il piazzale, muovendosi con una certa rigidità. «Avete trovato…»

Inciampò. Subito Gunther l’afferrò per un braccio, aiutandola a riprendere l’equilibrio, preoccupato.

«Sto bene», gli sussurrò lei, proseguendo da sola.

«Abbiamo perquisito tutti quanti», disse Klaus, facendo del suo meglio per ignorare il passo falso di Anna. «Non abbiamo trovato telefoni o apparecchi. Stavamo per cominciare a perquisire l’eliporto.»

Anna s’incupì. Era ciò che temevano: invece di portare con sé il telefono, il sabotatore avrebbe potuto facilmente nasconderlo da qualche parte dopo la telefonata.

O forse Painter aveva sbagliato i suoi calcoli. Nel qual caso avrebbe dovuto riscattarsi.

Painter affiancò Anna e sollevò il suo strumento improvvisato. «Forse posso accelerare la ricerca del telefono.»

Lei lo guardò con sospetto, ma avevano ben poca scelta. Annuì.

Gunther non lo perdeva d’occhio.

Painter accese il telefono satellitare e digitò le nove cifre del numero che aveva memorizzato. Non successe nulla. Tutti gli occhi erano puntati su di lui.

La sua espressione si fece ancora più corrucciata e concentrata, mentre schiacciava i tasti un’altra volta.

Ancora niente.

Aveva sbagliato numero?

« Was ist los?» chiese Anna.

Painter fissò la serie di numeri sul piccolo display del telefono. Li rilesse un’altra volta e si accorse dell’errore. «Ho invertito le ultime due cifre.»

Scosse la testa e le digitò di nuovo, lentamente, concentrandosi il più possibile. Finalmente riuscì a inserire la sequenza corretta. Anna lo guardò negli occhi quando lui alzò lo sguardo. Quell’errore non era dovuto soltanto alla tensione. Lo sapeva anche lei. Digitare numeri su una tastiera era un comune metodo per verificare l’acuità mentale.

E quello era un semplice numero di telefono. Ma era importante.

Painter premette il tasto d’invio.

Dopo un secondo, un telefono squillò forte lì vicino.

Tutti gli sguardi si orientarono verso l’origine di quel trillo.

Klaus.

Il Sonnenkönigfece un passo indietro.

«Ecco il vostro sabotatore…» disse Painter.

Klaus aprì la bocca, pronto a negare, ma poi estrasse la pistola, assumendo un’espressione dura.

Gunther reagì più velocemente, la pistola MK23 alla mano.

L’arma sputò fuoco. Il proiettile rimbalzò con una scintilla sulla pistola di Klaus, che la lasciò cadere.

Gunther fece un balzo in avanti, premendo la canna fumante della sua arma sulla guancia del fratello. Ci fu uno sfrigolio di carne marchiata a fuoco. Klaus non fece una piega. Il sabotatore doveva restare in vita, per rispondere alle domande.

Gunther fece la prima. « Warum?» Perché?

Klaus lo guardò torvo, dall’occhio buono. La palpebra dell’altro era cascante, come il resto della faccia semiparalizzata, il che gli conferiva un’espressione ancora più terrificante e beffarda. Sputò per terra. «Per porre fine all’umiliante regno dei Leprakönige.»

Dal volto contorto emanava un odio a lungo compresso. Painter poteva soltanto immaginare la rabbia covata nel profondo, le derisioni subite per anni mentre il corpo dell’uomo si deteriorava. Da principe a lebbroso. Ma Painter intuiva pure che non era soltanto una vendetta. Qualcuno aveva fatto di quell’uomo una talpa.

Ma chi?

«Fratello», riprese Klaus, «non deve per forza andare avanti così: una vita da morti viventi. C’è una cura.» C’era una punta di speranza nella sua voce, che assunse un tono implorante. «Possiamo tornare a essere re tra gli uomini.»

Ecco i trenta denari: la promessa di una cura.

«Non sono tuo fratello», gli rispose Gunther, dal profondo del cuore. «E non sono mai stato un re.»

Painter capiva la differenza tra i due Sonnenkönige.Klaus aveva dieci anni di più, quindi era cresciuto da principe, per poi vedersi sottrarre tutto quanto. Gunther, invece, era nato alla fine di quella serie di esperimenti, quando la debilitazione e la follia che comportavano erano ormai una realtà accettata. Era sempre stato un lebbroso, non aveva mai conosciuto una vita diversa.

In più, c’era anche un’altra differenza fondamentale tra i due.

«Col tuo tradimento hai condannato a morte Anna», proseguì Gunther. «Soffrirai per questo, tu e chiunque ti abbia aiutato.»

«Può essere curata anche lei. Si può sistemare tutto.»

Gunther lo squadrò, con gli occhi semichiusi.

Klaus percepiva l’esitazione, la speranza dell’avversario. Non per sé, ma per la sorella. «Non deve per forza morire.»

Painter ricordò le parole di Gunther: Non permetterò che tutto questo accada ad Anna. Farò qualsiasi cosa per impedirlo.Anche se avesse dovuto tradire tutti gli altri e contro la volontà di sua sorella?

«Chi ti ha promesso questa cura?» chiese Anna, in tono aspro.

Klaus proruppe in una risata gutturale. «Uomini molto più grandi dei mocciosi che siete diventati voialtri. È giusto che siate messi da parte. Avete svolto il vostro compito, ma ora non servite più.»

Ci fu uno scoppio fragoroso tra le mani di Painter. Il telefono satellitare che aveva utilizzato per localizzare il sabotatore andò in pezzi. La batteria era esplosa, per un corto circuito causato dall’improvvisato amplificatore. Si sentì avvampare le dita e lasciò cadere i resti fumanti del telefono, guardando in alto, verso i portelloni dell’eliporto. Pregò che l’amplificatore fosse durato abbastanza.

Non fu l’unico a distrarsi. Tutti gli sguardi si erano spostati su di lui, compreso quello di Gunther.

Sfruttando quella momentanea distrazione, Klaus estrasse un coltello da caccia e attaccò l’altro Sonnenkönig.Gunther sparò, piantando un grosso proiettile nella pancia dell’aggressore. Ma, mentre cadeva, Klaus conficcò comunque la lama nella spalla di Gunther.

Ansimante, Gunther si girò e gettò a terra Klaus. Questi sbatté violentemente e finì lungo disteso. Riuscì però a rotolare su un fianco, comprimendosi il ventre col braccio buono. Il sangue sgorgava copioso dalla ferita. Klaus tossì. Altro sangue, rosso vivo: arterioso. Il proiettile esploso a casaccio da Gunther aveva colpito un punto vitale.

Anna si precipitò dal fratello per controllare la sua ferita. Lui la spinse via, tenendo la pistola puntata su Klaus. Dalla manica di Gunther colava sangue sul pavimento.

Klaus si limitò a fare una risata. Suonò come uno sfregare di sassi. «Morirete tutti! Strangolati, quando il nodo sarà stretto!»

Tossì di nuovo, in preda alle convulsioni. Era in una pozza di sangue. Con un ultimo sogghigno tremante, si accasciò al suolo, a faccia in giù. Gunther abbassò la pistola.

Esalato un ultimo respiro, il bestione rimase immobile.

Morto.

Gunther lasciò che Anna usasse uno straccio, preso da una pigna lì accanto, per fermare l’emorragia, finché non avessero potuto medicare meglio la ferita.

Painter girò attorno al cadavere di Klaus, tormentato da un pensiero. Tutti i presenti si erano radunati attorno a loro, confabulando con toni tra lo spaventato e lo speranzoso. Avevano sentito parlare di una cura.

Anna raggiunse Painter. «Dirò a uno dei nostri tecnici di esaminare il suo telefono satellitare. Forse ci potrà condurre a chi ha orchestrato il sabotaggio.»

«Non c’è abbastanza tempo», borbottò Painter, immerso nei suoi pensieri. Era come se cercasse di afferrare un filo appena fuori dalla sua portata.

Mentre camminava, ripercorse nella mente gli indizi forniti da Klaus: Possiamo tornare a essere re tra gli uomini… avete svolto il vostro compito, ma ora non servite più…

Ebbe una fitta di emicrania, mentre cercava di mettere assieme quei frammenti.

Probabilmente Klaus era stato reclutato per fare il doppio gioco per qualcuno che conduceva una ricerca parallela. Il lavoro svolto al castello era diventato superfluo e così erano stati fatti i primi passi per eliminare la concorrenza.

«Può essere che abbia detto la verità?» chiese Gunther.

Forse assieme a Klaus era morta anche la possibilità di una cura. Tuttavia loro non avrebbero ceduto.

Anna s’inginocchiò e prese un piccolo telefono dalla tasca di Klaus. «Dovremo lavorare alla svelta.»

«Può darci una mano?» chiese Gunther a Painter, indicando il telefono.

La loro unica speranza era scoprire chi aveva risposto alla chiamata.

«Se lei potesse rintracciare il destinatario della chiamata…» disse Anna, rialzandosi.

Painter scosse la testa, ma non in segno di diniego. Si premette i palmi delle mani sugli occhi. Aveva un dolore martellante alla testa, un’emicrania ormai conclamata. Ma non era nemmeno quello che gli faceva scuotere il capo.

C’era vicino… molto vicino…

Anna lo affiancò e gli toccò un gomito. «È nell’interesse di tutti noi cercare di…»

«Lo so», la interruppe lui, brusco. «Adesso stia zitta e mi lasci pensare.»

Anna obbedì.

Lo sfogo di Painter aveva fatto piombare il silenzio nel locale. Si sforzò di ripescare ciò che si nascondeva nella sua mente. Era come quando aveva invertito le cifre del numero di telefono. Le sue capacità intellettive erano come una lama sempre meno affilata.

«Il telefono satellitare… È qualcosa che c’entra col telefono satellitare…» bisbigliò, combattendo l’emicrania con tutta la sua forza di volontà. «Ma cosa?»

Anna gli parlò con un tono più dolce. «Che cosa intende?»

Finalmente ci arrivò. Come aveva fatto a essere così stupido?

Abbassò le braccia e aprì gli occhi. «Klaus sapeva che il castello era controllato elettronicamente. Allora perché ha fatto quella chiamata? Perché esporsi?»

Un gelido terrore lo attanagliò. Si voltò verso Anna. «La voce che abbiamo messo in giro, che ci fosse ancora una scorta di Xerum 525, eravamo gli unici a sapere che era falsa?»

Gli altri presenti trasalirono a quella rivelazione. Si levarono alcune proteste adirate. Quella notizia aveva seminato molte speranze, accendendo un certo ottimismo sulla possibilità di costruire una seconda Campana. Speranze ormai infrante.

Ma certamente anche qualcun altro aveva creduto a quella voce.

«Soltanto Gunther conosceva la verità», rispose Anna, confermando il peggior timore del direttore della Sigma.

Painter ripercorse mentalmente la piantina del castello. Adesso sapeva perchéKlaus aveva fatto quella telefonata e perchél’aveva fatta da lì. Il bastardo pensava di potersi nascondere in bella vista, ne era talmente sicuro che non si era nemmeno sbarazzato del telefono. Aveva scelto quel punto con un intento specifico.

«Anna, quando ha messo in giro quell’indiscrezione, dove ha detto di custodire lo Xerum 525?»

«Ho detto che era chiuso in un caveau.»

«Quale caveau?»

«Lontano dal luogo dell’esplosione, nel mio studio. Perché?»

Dalla parte opposta del castello.

«Si sono presi gioco di noi», sentenziò Painter. «Klaus ha fatto la telefonata da qui, sapendo che il castello era sotto controllo. Voleva distogliere la nostra attenzione dal caveau segreto e da quella presunta provvista di Xerum 525.»

Anna scosse la testa. Non aveva capito.

«La telefonata di Klaus era un depistaggio.Il vero obiettivo era quell’ultima, fantasiosa scorta di Xerum 525.»

Anna sgranò gli occhi.

Anche Gunther capì. «Ci dev’essere un altro sabotatore.»

«Mentre noi siamo distratti, sta andando a cercare lo Xerum 525.»

«Nel mio studio!» esclamò Anna, voltandosi verso Painter.

Lui finalmente capì che cosa lo tormentava di più, perché sentiva quella stretta al cuore e quella sensazione di nausea. La verità affiorò d’un tratto, assieme a una fitta di dolore accecante: il sabotatore avrebbe incontrato qualcuno sul suo cammino.

Lisa stava perlustrando il piano superiore della biblioteca. Grazie alla scala di ferro battuto, aveva raggiunto la traballante balconata e stava girando attorno alla stanza, tenendosi alla balaustra.

Aveva trascorso l’ultima ora raccogliendo libri e documenti sulla meccanica quantistica. Aveva trovato anche il trattato originale di Max Planck, il padre della teoria dei quanti: una teoria che definiva un mondo sbalorditivo, composto di particelle elementari, in cui l’energia poteva essere frammentata in piccoli pacchetti, detti quanti, e dove la materia elementare si comportava sia come particelle sia come onde.

Tutto ciò le faceva venire il mal di testa. Che c’entrava con l’evoluzione?

Intuiva che, se una cura c’era, dipendeva dalla risposta a quella domanda.

Allungò una mano e inclinò un libro su uno scaffale, studiandone la rilegatura e strizzando gli occhi per leggere le lettere sbiadite.

Era quello il volume giusto?

Il trambusto nei pressi della porta attirò la sua attenzione. Sapeva che l’uscita era sorvegliata. Che stava succedendo? Anna era già di ritorno? Avevano trovato il sabotatore? Lisa si diresse verso la scala. Sperava che Painter fosse con Anna. Non le piaceva restare separata da lui. In più, forse lui sarebbe riuscito a cavare qualcosa da quelle strane teorie sulla materia e sull’energia.

Raggiunta la scala, si voltò per scendere sul primo piolo.

Un grido acuto, immediatamente interrotto, la fece bloccare di colpo.

Proveniva da dietro la porta.

Reagendo d’istinto, Lisa risalì e si distese sulla balconata. Il pavimento della struttura, una grata di ferro, la riparava ben poco. Scivolò verso gli scaffali, nell’ombra, lontano dalle lampade a muro.

Rimase distesa immobile, mentre la porta si apriva e si richiudeva. Una sagoma s’intrufolò nella stanza. Era una donna, con un parka bianco come la neve. Ma non era Anna. La donna si tolse il cappuccio e abbassò la sciarpa che le copriva il viso. Aveva capelli lunghi bianchi ed era pallida come un fantasma.

Amica o nemica?

Lisa restò nascosta, in attesa di saperne di più.

Qualcosa conferiva a quella donna un’aria troppo sicura, forse il modo in cui si guardava attorno. Si girò. Un lato della sua giacca era macchiato da uno spruzzo di sangue. In una mano teneva una katana, una corta sciabola giapponese ricurva. La lama grondava sangue.

La donna si muoveva quasi danzando, girando lentamente in cerchio.

Cacciando.

Lisa non osava respirare. Pregava che l’ombra la tenesse nascosta. Le poche lampade della biblioteca illuminavano il livello inferiore, così come il fuoco del camino, che crepitava e risplendeva di poche fiamme rade. Ma la balconata era in penombra.

Lisa guardò l’intrusa fare un altro giro, fermandosi al centro della stanza, con la katana insanguinata pronta all’uso. Con aria soddisfatta, la donna dai capelli chiari come il ghiaccio si diresse decisa verso la scrivania di Anna. Ignorò la confusione che regnava su quel grande tavolo e ci girò attorno. Spostò un lembo di un arazzo appeso alla parete, esponendo una grande cassaforte di ghisa nera.

S’inginocchiò e la esaminò, soffermandosi sulla serratura a combinazione e sulla manopola.

Vedendo la donna così concentrata, Lisa si concesse di respirare. Qualsiasi furto fosse in atto, che procedesse pure, che quella donna s’impadronisse di ciò che era venuta a cercare e se ne andasse. Visto che aveva fatto fuori le guardie, forse Lisa poteva trarne vantaggio. Se solo avesse potuto raggiungere un telefono… Quell’intrusione poteva davvero rivelarsi proficua.

Un forte rumore metallico la fece sobbalzare.

A qualche metro di distanza, un pesante volume era caduto da uno scaffale, finendo aperto sulla balconata. Le pagine svolazzavano ancora per l’impatto. Lisa riconobbe il libro che aveva estratto parzialmente qualche istante prima. Se n’era dimenticata, ma la gravità aveva fatto il resto, facendolo scivolare lentamente, finché non era caduto.

Al piano inferiore, la donna era ritornata al centro della stanza. Nell’altra mano era comparsa, come dal nulla, una pistola, puntata verso l’alto.

Lisa non poteva più nascondersi.

Büren, Germania,

ore 09.18

Gray aprì la portiera della BMW. Stava per salire a bordo, quando sentì un grido alle sue spalle. Si voltò verso l’ingresso dell’ostello. Ryan Hirszfeld correva verso di loro, rannicchiato sotto un ombrello. Fra un tuono e l’altro, la pioggia sferzava il parcheggio della villa.

«Salite», ordinò Gray a Monk e Fiona, indicando la berlina.

Poi si voltò verso Ryan, che lo aveva raggiunto.

«State andando al castello… a Wewelsburg?» chiese il giovane, sollevando l’ombrello per riparare entrambi.

«Sì, perché?»

«Potete darmi un passaggio?»

«Non penso…»

Ryan lo interruppe. «Prima chiedeva informazioni su mio bisnonno, Hugo. Forse posso dirvi qualcosa di interessante. Vi costerà soltanto un passaggio.»

Gray esitò. Il giovane doveva avere origliato la loro conversazione col padre. Che cosa poteva sapere Ryan che Johann ignorasse? Eppure lo fissava con uno sguardo serio.

Gray aprì la portiera posteriore per farlo salire.

« Danke.» Ryan chiuse l’ombrello e s’infilò nell’auto, accanto a Fiona.

Gray si mise al volante. Dopo un attimo, l’auto procedeva sobbalzando sul viale.

«Ma non dovresti occuparti dell’ostello?» chiese Monk.

«Alicia mi sostituisce alla reception», rispose Ryan. «Col temporale staranno tutti attorno al camino.»

Gray studiò il giovane nello specchietto retrovisore. D’un tratto sembrava a disagio, sotto gli sguardi indagatori di Monk e Fiona. «Che cosa ci volevi dire?»

Ryan incrociò il suo sguardo nello specchietto. «Mio padre pensa che io non sappia nulla del bisnonno. Pensa che sia meglio seppellire il passato. Ma girano ancora voci su di lui e su zia Tola.»

Gray sapeva che i segreti di famiglia avevano la tendenza a riemergere, a prescindere da quanto ci si sforzasse di seppellirli. Era evidente che qualcosa aveva suscitato la curiosità di Ryan riguardo ai suoi antenati e al loro ruolo durante la guerra.

«Ti sei messo a scavare nel passato per conto tuo?»

Ryan annuì. «Da tre anni, ormai. Ma tutto ha origine dalla caduta del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.»

«Non capisco», disse Gray.

«Ricorda quando la Russia ha desecretato alcuni archivi sovietici?»

«Sì, ma a cosa ti riferisci, in particolare?»

«Be’, quando Wewelsburg fu ricostruito…»

«Aspetta un secondo», intervenne Fiona, agitandosi sul sedile. Fino a quel momento era rimasta seduta con le braccia conserte, come se fosse infastidita dall’intrusione dell’estraneo. Ma Gray l’aveva vista guardare di traverso il giovane, studiandolo. Si chiedeva se avesse ancora il portafogli. «Ricostruito? Hanno ricostruito quel posto orribile?»

Ryan annuì, mentre sulla cresta della collina appariva il castello. Gray mise la freccia e svoltò sulla Burgstrasse, la strada che conduceva alla fortezza. «Himmler l’aveva fatto saltare verso la fine della guerra. Soltanto la torre nord era rimasta intatta. Dopo la guerra è stato ricostruito. In parte museo, in parte ostello per la gioventù. Mio padre non si dà ancora pace.»

Gray capiva perfettamente il perché.

«Fu ultimato nel 1979», proseguì Ryan. «Nel corso degli anni, i direttori del museo hanno chiesto ai governi degli ex Alleati tutti i documenti relativi al castello.»

«Compresa la Russia», osservò Monk.

« Natürlich.Quando i documenti furono resi pubblici, l’attuale direttore inviò alcuni archivisti in Russia. Tre anni fa, ritornarono con camion pieni di documenti relativi alla campagna russa in quest’area. Tra i nomi di particolare interesse che erano saltati fuori, c’era anche quello del mio bisnonno, Hugo Hirszfeld.»

«Perché lui?»

«Era direttamente implicato nei rituali della società di Thule. Da queste parti era nota la sua conoscenza delle rune che decorano il castello. Intratteneva una corrispondenza persino con Karl Wiligut, l’astrologo personale di Himmler.»

Gray ripensò al simbolo a tre punte nella Bibbia, ma restò in silenzio.

«Gli archivisti ritornarono con diverse scatole di documenti su mio bisnonno. Mio padre fu informato, ma rifiutò di lasciarsi coinvolgere in qualsiasi modo.»

«Ma tu ci sei andato di nascosto», intervenne Monk.

«Volevo scoprire qualcosa di più su di lui», replicò Ryan. «Capire perché… che cosa era successo…» Scosse la testa.

Il passato tende a fare presa sulle persone e a non mollarle più.

«E che cosa hai scoperto?» chiese Gray.

«Non molto. Una scatola conteneva documenti del laboratorio di ricerca in cui lavorava mio bisnonno. Gli venne conferito il grado di Oberarbeitsleiter, capo del progetto.» Ryan lo disse con un tono tra l’imbarazzato e l’insolente. «Ma, di qualsiasi progetto si trattasse, non è stato desecretato. La maggior parte di quei documenti erano corrispondenze personali, con amici e familiari.»

«E tu li hai letti tutti?»

«Abbastanza per concludere che mio bisnonno aveva cominciato a dubitare del suo lavoro, ma che non poteva andarsene.»

«O gli avrebbero sparato», aggiunse Fiona.

Ryan scosse la testa e per un istante gli si dipinse in viso un’espressione di sgomento. «Penso che fosse più che altro il progetto in sé… Non riusciva a separarsene. Non del tutto. Era come se provasse repulsione e attrazione contemporaneamente.»

Gray intuiva che analoghi sentimenti tormentavano anche le ricerche personali di Ryan.

Monk piegò la testa da un lato e fece scrocchiare sonoramente il collo. «Che c’entra tutto questo con la Bibbia di Darwin?»

«Ho trovato un appunto indirizzato a Tola», rispose Ryan. «Parla della cassa di libri che mio bisnonno rispedì a casa. Me lo ricordo per le sue strane osservazioni in proposito.»

«Che cosa diceva?»

«La lettera è al museo. Pensavo che vi potesse interessare averne una copia.»

«Non ricordi cosa diceva?»

Ryan corrugò la fronte. «Solo qualche riga: La perfezione si trova nascosta nei miei libri, cara Tola. La verità è troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata.»

Ci fu un improvviso silenzio nell’auto.

«Morì due mesi dopo.»

Gray rifletté su quelle parole. Nascosta nei miei libri.I cinque libri che Hugo aveva spedito a casa prima di morire. L’aveva fatto per mettere al sicuro qualche segreto? Per preservare una cosa troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata?

Gray fissò Ryan nello specchietto retrovisore. «Hai raccontato a qualcuno quello che hai scoperto?»

«No, ma quel signore anziano e i suoi nipoti, quelli che erano venuti qui all’inizio dell’anno per parlare dei libri con mio padre… Loro erano già stati qui, avevano già cercato tra le carte del mio bisnonno negli archivi. Penso che abbiano letto lo stesso appunto e per questo siano venuti a fare altre indagini da mio padre.»

«Queste persone, com’erano?»

«Capelli bianchi. Alti, atletici. Una buona stirpe, come direbbe mio bisnonno.»

Gray e Monk si scambiarono un’occhiata.

Fiona si schiarì la voce e indicò il dorso della mano. «Avevano un segno, un tatuaggio, qui?»

Ryan annuì lentamente. «Penso di sì. Poco dopo il loro arrivo, mio padre mi mandò via. Come ha fatto quando siete arrivati voi, oggi. Non si parla davanti ai figli.» Il ragazzo cercò di sorridere, ma evidentemente percepiva la tensione attorno a sé. Lanciò rapide occhiate a tutti gli occupanti dell’auto. «Li conoscete?»

«Sono concorrenti», rispose Gray. «Collezionisti come noi.»

Ryan mantenne un’espressione guardinga e incredula, ma non fece altre domande.

Gray pensò nuovamente alla runa disegnata a mano sulla Bibbia. Anche gli altri quattro libri contenevano simboli criptici di quel tipo? Si ricollegava tutto alle ricerche fatte da Hugo coi nazisti? Di che cosa si trattava? Sembrava improbabile che d’un tratto quegli assassini si presentassero lì a frugare tra gli archivi, a meno che non stessero cercando qualcosa di specifico.


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