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L'ordine del sole nero
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Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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8. MEZZOSANGUE

Paderborn, Germania,

ore 06.54

«Tu resti qui», disse Gray. Era in piedi in mezzo alla cabina del Challenger, coi pugni sui fianchi, e non si muoveva.

«Stronzate», ribatté Fiona. A un passo di distanza, difendeva la sua posizione.

Monk era appoggiato al portello aperto, con le braccia conserte, divertito.

«Non ti ho ancora detto l’indirizzo», argomentò Fiona. «Puoi passare un mese intero a setacciare la città porta a porta, oppure io vengo con te e ti ci porto. A te la scelta, amico.»

Gray avvampò. Perché non le aveva estorto l’indirizzo quando era ancora debole e vulnerabile? Scosse la testa. Debole e vulnerabileerano parole che non si addicevano a Fiona.

«Allora, che hai deciso?»

«A quanto pare, avremo una compagna», disse Monk.

Gray non voleva saperne di cedere. Forse poteva spaventarla, ricordandole il rischio che aveva corso a Copenhagen. «E la tua ferita?»

«La mia ferita cosa? Sono come nuova. Quella benda liquida mi ha rattoppato per bene.»

«Può anche nuotarci», intervenne Monk. «È impermeabile.»

Gray lo fulminò con lo sguardo. «Non è questo il punto.»

«E allora qual è il punto?» lo incalzò Fiona.

Gray si voltò di nuovo verso di lei. Non voleva più essere responsabile di quella ragazzina e di certo non aveva il tempo di farle da babysitter.

«Ha paura che tu ti faccia male di nuovo», disse Monk con un’alzata di spalle.

Gray sospirò. «Fiona, dicci l’indirizzo e facciamola finita.»

«Quando saremo sull’auto», rispose lei. «Allora te lo dirò. Non ho intenzione di rimanere rinchiusa qui dentro.»

«Il tempo passa», disse Monk. «E a quanto pare rischiamo una bella doccia.»

Il cielo era blu e luminoso, ma a nord si stavano addensando le nuvole. Era in arrivo un temporale.

«E sia.» Gray fece cenno al compagno di uscire. Perlomeno avrebbe tenuto d’occhio Fiona.

Il trio scese la scaletta dell’aereo. Le formalità doganali erano già sistemate e c’era una BMW presa a noleggio che li aspettava. Monk aveva in spalla uno zaino nero, Gray ne aveva uno identico. Guardò Fiona. Ne aveva uno anche lei. Dove…

«Ce n’era uno in più», gli spiegò Monk. «Non ti preoccupare. Non ci sono pistole o granate nel suo. Almeno non credo.»

Gray scosse la testa e proseguì diretto al parcheggio. Oltre allo zaino nero, avevano anche vestiti simili: jeans neri, scarpe da ginnastica, maglioni. Alta moda da turisti. Perlomeno Fiona aveva personalizzato i suoi vestiti con qualche spilla. Una in particolare catturò la sua attenzione. Diceva: GLI SCONOSCIUTI HANNO LE CARAMELLE MIGLIORI.

Entrando nel parcheggio, Gray controllò per l’ennesima volta le sue armi. Tastò la Glock da 9mm nella fondina sotto il maglione e il manico di un pugnale al carbonio, che portava in un fodero al polso sinistro. Nello zaino aveva armamenti aggiuntivi: granate, pacchetti di esplosivo C4, munizioni extra. Non aveva intenzione di farsi trovare impreparato un’altra volta.

Finalmente raggiunsero il loro mezzo: una BMW 525i, color blu notte. Fiona si diresse decisa verso il lato del conducente.

Gray la bloccò. «Divertente.»

Monk fece il giro dall’altra parte e gridò: «Un fucile!»

Fiona si abbassò, guardandosi attorno.

Gray la tranquilizzò e la condusse alla portiera posteriore. «Stava solo prenotando il sedile davanti.»

Fiona guardò di traverso Monk. «Mezza sega.»

«Scusa. Non essere così nervosa, ragazza.»

Salirono tutti e tre sulla berlina. Gray accese il motore e guardò Fiona, alle sue spalle. «Be’? Dove si va?»

Monk aveva già pronta una cartina.

Fiona si sporse verso il sedile anteriore e con un dito tracciò un percorso sulla mappa. «Fuori città, venti chilometri a sud-ovest. Dobbiamo andare al villaggio di Büren, nella valle di Alme.»

«A quale indirizzo?»

Fiona si riappoggiò allo schienale. «Divertente», disse, facendo il verso a Gray.

Lui la guardò nello specchietto retrovisore. Fiona aveva un’espressione disgustata per l’ennesimo, goffo tentativo di estorcerle quell’informazione.

Be’, che c’era di male? Ci aveva provato.

Lei gli fece cenno di partire.

Non avendo altra scelta, Gray obbedì.

All’altra estremità del parcheggio, c’erano due persone sedute su un roadster Mercedes bianco. L’uomo abbassò il binocolo e indossò un paio di occhiali da sole italiani. Fece un cenno alla sorella gemella accanto a lui, che sussurrò qualcosa in un telefono satellitare.

Con l’altra mano teneva quella di lui, che le massaggiava il tatuaggio col pollice.

Lei gli strinse le dita.

Guardando in basso, l’uomo vide che la sorella aveva un’unghia mangiucchiata, ridotta a una scheggia frastagliata. Era un’imperfezione evidente quanto un naso rotto.

Lei notò il suo sguardo e cercò di nascondere l’unghia, imbarazzata.

Non c’era morivo di vergognarsi. Lui capiva la costernazione e la sofferenza che l’avevano indotta a farlo: avevano perso Hans, uno dei loro fratelli maggiori, la notte prima.

Ucciso dal conducente dell’automobile che era appena partita.

La rabbia gli obnubilava la vista, mentre guardava la BMW uscire dal parcheggio. Il trasmettitore satellitare che avevano piazzato gli avrebbe permesso di seguire quel veicolo.

«Capito», disse sua sorella al telefono. «Come previsto, hanno seguito la traccia del libro fin qui. Indubbiamente sono diretti alla tenuta Hirszfeld, a Büren. Lasceremo il jet sotto sorveglianza. È tutto pronto.»

Mentre ascoltava, guardò suo fratello.

«Certo», disse, rivolta sia alla persona al telefono sia al fratello. «Non falliremo. La Bibbia di Darwin sarà nostra.»

L’uomo annuì convinto. Sfilò la mano da quella della sorella, girò la chiave e accese il motore.

«Ciao, nonno», concluse lei. Mentre riponeva il telefono, allungò una mano e scostò un’unica ciocca dei capelli biondi di lui che era finita fuori posto. La riaggiustò con le dita, poi la lisciò.

Perfetto.

Sempre perfetto.

Lui le baciò la punta delle dita mentre lei ritraeva la mano.

Amore e una promessa.

Avrebbero avuto la loro vendetta.

Il lutto poteva attendere.

La Mercedes bianco polare si mise in movimento. La caccia era aperta.

Himalaya,

ore 11.08

La punta della saldatrice s’infiammò di rosso cremisi. Painter stabilizzò l’attrezzo: gli tremava la mano, ma non era la paura. Il dolore martellante dietro l’occhio destro non cessava. Aveva preso una manciata di Tylenol, oltre a due pastiglie di fenobarbital, un anticonvulsivo. Nessuno di quei farmaci poteva scongiurare la debilitazione e la follia incombenti, ma, secondo Anna, gli avrebbero consentito qualche ora di funzionalità in più.

Quanto tempo gli rimaneva? Meno di tre giorni, a essere ottimisti.

Si sforzò di reprimere quella preoccupazione. Angoscia e disperazione potevano risultare invalidanti quanto la malattia. Come diceva suo nonno, con quei suoi modi da saggio indiano Pequot, torcersi le mani serve solo a impedire di rimboccarsi le maniche.

Prendendolo in parola, Painter si concentrò sul connettore che stava saldando a un filo di messa a terra scoperto. C’erano cavi che percorrevano tutto il sotterraneo del castello, collegati alle varie antenne esterne, compresa quella parabolica per la trasmissione al satellite, nascosta da qualche parte, vicino alla sommità della montagna.

Quando ebbe finito, Painter si tirò indietro e attese che la nuova saldatura si raffreddasse. Era seduto a un banco di lavoro, con una gamma di attrezzi e componenti ben allineati, come un chirurgo. La sua area di lavoro era fiancheggiata da due laptop aperti, entrambi forniti da Gunther. L’uomo che aveva massacrato i monaci e assassinato Ang Gelu. Painter sentiva ancora montargli dentro una furia infinita ogni volta che era vicino a lui.

Come in quel momento.

Il bestione era di guardia accanto a lui e sorvegliava ogni sua mossa. Erano soli in un locale per la manutenzione. Painter prese in considerazione la possibilità di ficcargli la saldatrice in un occhio. E poi? Erano a chilometri di distanza dalla civiltà e sulla sua testa pendeva una sentenza di morte. La cooperazione era l’unico mezzo di cui disponevano per sopravvivere. A quello scopo, Lisa era rimasta con Anna, nel suo studio, continuando le indagini su una possibile cura.

Painter e Gunther seguivano un altro approccio: scoprire il sabotatore.

Secondo Gunther, la bomba che aveva distrutto la Campana era stata innescata a mano. E, poiché nessuno se n’era andato dopo l’esplosione, probabilmente il sabotatore era ancora nel castello. Catturandolo, forse sarebbero riusciti ad avere altre informazioni.

Perciò avevano messo in circolazione alcune voci, come esca.

Dovevano soltanto piazzare la trappola.

Un laptop era collegato ai sistemi di comunicazione del castello. Painter ci si era inserito utilizzando le password fornitegli da Gunther e aveva inviato una serie di pacchetti di codici compressi, che avevano lo scopo di monitorare tutte le comunicazioni in uscita dal sistema. Se il sabotatore avesse cercato di comunicare col mondo esterno, sarebbe stato scoperto, rivelando anche la sua posizione. Ma Painter non si aspettava che fosse così maldestro: quella persona era sopravvissuta operando in segreto molto a lungo, il che presupponeva una notevole astuzia e un mezzo di comunicazione indipendente dalla rete principale del castello.

Per quel motivo Painter aveva costruito qualcosa di nuovo.

Il sabotatore doveva essersi procurato un telefono satellitare portatile, per comunicare in segreto coi suoi superiori. Ma un telefono di quel tipo doveva essere utilizzato in un’area senza ostacoli frapposti tra l’antenna e il satellite in orbita geostazionaria. Purtroppo c’erano innumerevoli nicchie, finestre e botole di servizio che si prestavano allo scopo, troppe per poterle sorvegliare senza destare sospetti. Perciò ci voleva un’alternativa.

Painter controllò l’amplificatore di segnale che aveva collegato al filo di messa a terra. Era un dispositivo che aveva progettato lui stesso, alla Sigma. Prima di diventarne il direttore, le sua specialità erano la sorveglianza e la microingegneria. Giocava in casa.

L’amplificatore collegava il filo di messa a terra al secondo laptop.

«Dovrebbe essere pronto», disse Painter, mentre la sua emicrania cominciava finalmente a diminuire.

«Vediamo se funziona.»

Painter accese l’alimentazione a batteria, impostò l’ampiezza del segnale e regolò la velocità degli impulsi. Il laptop avrebbe fatto il resto, monitorando eventuali trasmissioni. Era quantomeno rudimentale e non consentiva di ascoltare il contenuto delle comunicazioni: poteva soltanto individuare la posizione del segnale di una trasmissione illecita, con un margine d’errore di trenta metri. Probabilmente sarebbe stato sufficiente.

Painter ultimò le regolazioni dell’apparecchiatura. «Tutto a posto. Adesso non ci resta che aspettare che il bastardo faccia una chiamata.»

Gunther annuì.

«Sempre che abbocchi», aggiunse Painter.

Mezz’ora prima, avevano sparso la voce che una scorta di Xerum 525 era sopravvissuta all’esplosione, chiusa in un caveau segreto rivestito di piombo. Era una speranza per tutta la popolazione del castello: se c’era ancora un po’ dell’insostituibile sostanza, forse si poteva fabbricare una nuova Campana. Anna aveva persino ordinato ai ricercatori di assemblarne una nuova con pezzi di ricambio. Se non la cura per quella malattia progressiva, la Campana offriva quantomeno un po’ di tempo in più. A tutti loro.

In ogni caso, lo scopo di quello stratagemma non era fomentare la speranza. La notizia doveva raggiungere il sabotatore, che si sarebbe convinto che il suo piano era fallito. Quindi avrebbe dovuto fare una chiamata, per chiedere istruzioni ai suoi superiori.

E, a quel punto, Painter sarebbe stato pronto. Si voltò verso Gunther. «Come ci si sente a essere un superuomo? Un Cavaliere del Re-Sole?»

Gunther scrollò le spalle. La sua parlantina non sembrava andare oltre grugniti, occhiatacce e qualche risposta monosillabica.

«Voglio dire, ti senti superiore? Più forte, più veloce, capace di scavalcare edifici con un balzo?»

Gunther si limitò a fissarlo.

Painter sospirò, provando un altro approccio per farlo parlare, per creare un qualche tipo di comunicazione. «Che cosa significa Leprakönig? Ho sentito qualcuno usare quella parola, vedendoti.»

Painter sapeva dannatamente bene che cosa significava, ma ebbe la reazione che voleva. Gunther distolse lo sguardo, ma lui notò il lampo nei suoi occhi. Il silenzio si protrasse. Painter non era sicuro che l’uomo avrebbe parlato.

«Re lebbroso», borbottò infine Gunther.

A quel punto toccava a Painter restare in silenzio. Lasciò che il peso di quelle parole gravasse sulla stanza.

Alla fine Gunther cedette. «Quando si cerca la perfezione, nessuno vuole assistere ai fallimenti. Se la follia non s’impadronisce di noi, la malattia è orribile a vedersi. Meglio essere chiusi da qualche parte, nascosti alla vista di tutti.»

«In esilio, come lebbrosi.»

Painter cercò di immaginare come ci si potesse sentire a crescere così, ultimodei Sonnenkönige, sapendo fin da giovani di avere il destino segnato. Un tempo una riverita dinastia di principi, poi una dinastia di invalidi, evitati da tutti.

«Eppure tu continui a dare una mano, qui», commentò Painter. «Sei ancora in servizio.»

«È per questo che sono nato. So qual è il mio dovere.»

Painter si chiese se era una cosa che era stata inculcata a tutti quanti in una specie di addestramento oppure trasmessa geneticamente. Ma intuiva pure che c’era di più. Che cosa, però? «Perché ti dovrebbe importare di ciò che succederà a tutti noi?»

«Credo nel lavoro che facciamo. Le mie sofferenze risparmieranno ad altri di subire lo stesso destino.»

«E la ricerca di una cura, in questo momento? Non ha nulla a che vedere col prolungamento della tua vita.»

Ci fu un lampo negli occhi di Gunther. « Ich bin nicht krank.»

«In che senso non sei malato?»

«I Sonnenkönigesono nati sotto la Campana», rispose Gunther, stizzito.

D’un tratto Painter capì. Si ricordò quanto aveva detto Anna dei superuomini del castello: erano resistenti a qualsiasi altra manipolazione tramite la Campana, in meglio o in peggio.«Tu sei immune.»

Gunther distolse lo sguardo.

Painter rifletté sulle implicazioni di quella situazione. Non era l’autoconservazione che spingeva Gunther a dare una mano.

E allora cosa?

Improvvisamente Painter ricordò il modo in cui Anna aveva guardato Gunther, a tavola. Con caloroso affetto. L’uomo non l’aveva scoraggiata. Evidentemente aveva un’altra ragione per continuare a cooperare, nonostante la mancanza di rispetto da parte degli altri.

«Tu ami Anna», pensò Painter ad alta voce.

«Certo», ribatté lui brusco. «È mia sorella.»

Rintanata nello studio di Anna, Lisa era in piedi accanto a un visore a parete. Normalmente, quel tipo di apparecchio serviva a illuminare le radiografie dei pazienti, ma Lisa ci aveva inserito due fogli di acetato che riportavano alcune righe nere. Erano mappe di cromosomi prelevate dalla documentazione sulle mutazioni causate dalla Campana, immagini del DNA fetale prima e dopo l’esposizione, ottenute mediante amniocentesi. I cromosomi trasformati dalla Campana erano cerchiati e accanto c’erano annotazioni in tedesco.

Anna le aveva tradotte e poi era andata a prendere altri libri.

Accanto al visore, Lisa scorse con un dito le mutazioni, alla ricerca di uno schema comune. Aveva esaminato diversi casi, ma sembrava che non ci fosse nessun criterio.

Senza una risposta, ritornò al tavolo da pranzo, sul quale erano ammassati libri e voluminosi fascicoli di dati scientifici: la ricostruzione di decenni di sperimentazioni su esseri umani.

Il fuoco del camino crepitava dietro di lei. Dovette trattenere l’impulso di gettare alle fiamme tutti quei documenti. Ma probabilmente non l’avrebbe fatto neanche se Anna non fosse mai tornata. Lisa era andata in Nepal per studiare gli effetti fisiologici delle altitudini elevate. Sebbene fosse un medico, aveva la vocazione della ricercatrice.

Come Anna.

No, non esattamente come Anna.

Scostò una monografia intitolata Teratogenesi nel blastoderma embrionico.La ricerca era legata ai mostruosi aborti prodotti dall’esposizione alle radiazioni della Campana. Ciò che le strisce nere sull’acetato delineavano con distacco clinico, era rivelato nei dettagli più orribili dalle fotografie del libro: embrioni privi di arti, feti ciclopici, bambini idrocefali nati morti.

No, Lisa decisamente non era come Anna.

Sentì la rabbia montarle nel petto.

Anna scese rumorosamente dalla scala di ferro che conduceva al secondo livello della biblioteca, con un’altra pila di libri sottobraccio. I tedeschi non si stavano risparmiando. E perché avrebbero dovuto? Era loro interesse scoprire una cura per la patologia quantica. Anna credeva che fosse uno sforzo vano, certa com’era che tutte le possibilità fossero già state esplorate nei decenni precedenti, ma non c’era voluto molto per persuaderla a cooperare.

Lisa aveva notato che le mani della donna presentavano un tremore appena percettibile. Anna si sfregava le mani di continuo, cercando di nasconderlo. Gli altri abitanti del castello manifestavano più apertamente la sofferenza. Fin dal mattino, nell’aria c’era una tensione palpabile. Lisa aveva assistito a qualche acceso scontro verbale e a una vera e propria zuffa. Aveva anche sentito di due suicidi avvenuti nelle ultime ore. Scomparsa la Campana e, con essa, la speranza di una cura, stava andando tutto quanto a pezzi. E se la follia avesse preso il sopravvento prima che lei e Painter potessero trovare una soluzione?

Mise da parte quel pensiero. Non avrebbe ceduto. Qualunque fosse il motivo di quella cooperazione, Lisa intendeva sfruttarlo a proprio vantaggio.

Fece un cenno ad Anna che si avvicinava. «Okay, penso di essermi fatta un’idea generale della situazione, da profana. Ma una cosa cui lei ha accennato prima mi tormenta.»

Lasciando cadere i libri sul tavolo, Anna si mise a sedere. «E cioè?»

«Ha detto che la Campana controlla l’ evoluzione.» Lisa indicò i libri e i manoscritti sul tavolo con un ampio gesto del braccio. «Ma ciò che vedo qui è soltanto una radiazione mutagena che avete collegato a un programma di eugenetica: costruire un essere umano migliore tramite la manipolazione genetica. Quando lei ha usato il termine ‘evoluzione’, è stato soltanto per eccesso di enfasi?»

Anna scosse la testa, senza offendersi. « Leicome definisce l’evoluzione, dottoressa Cummings?»

«Nel consueto senso darwiniano del termine, direi.»

«E cioè?»

Lisa si mostrò perplessa. «Un graduale processo di mutazioni biologiche, in cui un organismo unicellulare si è diffuso e si è diversificato fino a raggiungere l’attuale gamma di organismi viventi.»

«E Dio non ha un ruolo in tutto ciò?»

Lisa fu sorpresa di quella domanda. «Come vuole il creazionismo?»

Anna scrollò le spalle, continuando a fissarla. «O un disegno intelligente.»

«Non dirà sul serio? Fra un attimo tirerà fuori che l’evoluzione è soltanto una teoria.»

«Non sia sciocca. Non sono un’incompetente, che per teoriaintende ‘intuizione’ o ‘congettura’. Nulla, nella scienza, arriva a essere una teoria senza una vasta base di fatti e ipotesi verificate.»

«Perciò lei accetta la teoria dell’evoluzione di Darwin?»

«Certamente, senza il minimo dubbio. Trova conferma in tutte le discipline scientifiche.»

«Allora perché stava parlando di…»

«Una cosa non esclude necessariamente l’altra.»

Lisa inarcò un sopracciglio. «Disegno intelligente edevoluzione?»

Anna fece un cenno d’assenso. «Ma facciamo un passo indietro, così non mi fraintende. Mettiamo da parte innanzitutto i vaneggiamenti dei ‘creazionisti della terra piatta’, che mettono in dubbio persino che il mondo sia una sfera, o quelli che interpretano la Bibbia alla lettera e credono che il pianeta abbia al massimo diecimila anni. Passiamo direttamente alle argomentazioni principali dei sostenitori del disegno intelligente.»

Lisa scosse la testa: una ex nazista che faceva propaganda pseudoscientifica… Che cosa stava succedendo?

Anna si schiarì la voce. «Certo, sono la prima a sostenere che quasi tutte le argomentazioni addotte a sostegno del disegno intelligente sono fallaci: fraintendono la seconda legge della termodinamica, costruiscono modelli statistici che non sono a prova di errore, travisano le datazioni radiometriche dei minerali… Nulla di valido, ma tutto questo fumo è comunque fuorviante.»

Lisa annuì: quello era uno dei motivi principali per cui la preoccupavano le pressioni volte a introdurre, nelle lezioni di biologia delle scuole superiori, quella pseudoscienza accanto alla teoria dell’evoluzione. Era un pantano pluridisciplinare difficile da vagliare anche per un ricercatore universitario, figuriamoci per un liceale.

Anna, però, non aveva ancora concluso la sua argomentazione. «Detto ciò, esiste una questione sollevata dai sostenitori del disegno intelligente che merita di essere presa in considerazione.»

«E cioè?»

«La casualità delle mutazioni. Il puro caso non avrebbe potuto produrre così tante mutazioni vantaggiose nel tempo. Quante malformazioni alla nascita hanno prodotto cambiamenti vantaggiosi, che lei sappia?»

Lisa aveva già sentito quell’argomentazione: l’evoluzione delle specie è stata troppo rapida per essere frutto di un puro caso.Non ci cascava. «L’evoluzione non è dovuta solo al caso. La selezione naturale, o pressione ambientale, elimina le mutazioni nocive e consente soltanto agli organismi più efficienti di trasmettere i propri geni.»

«La sopravvivenza del più forte?»

«O di quelli forti a sufficienza.Le mutazioni non devono essere necessariamente perfette, purché siano abbastanza positive da procurare un vantaggio. E, nell’arco lunghissimo di centinaia di milioni di anni, questi piccoli vantaggi o mutazioni si accumulano, fino a produrre la varietà che conosciamo oggi.»

«Centinaia di milioni di anni? Certo, è un intervallo di tempo molto lungo, ma è abbastanza per l’intera gamma delle mutazioni evolutive? E che dire di quegli improvvisi slanci evolutivi, durante i quali avvennero grandi mutamenti in breve tempo?»

«Presumo che si riferisca all’esplosione cambriana, giusto?» chiese Lisa. Era uno dei capisaldi dei sostenitori del disegno intelligente. Durato quindici milioni di anni, il periodo Cambriano era relativamente breve, ma in quell’arco di tempo c’era stata una sorta di esplosione di nuove forme di vita: spugne, chiocciole, meduse e trilobiti. Sembrava che fosse avvenuta tutto d’un tratto, con un ritmo troppo rapido, secondo gli antievoluzionisti.

« Nein.C’è un’abbondanza di prove fossili a testimoniare che quell’ improvvisa comparsadi invertebrati non fu poi così improvvisa. Nel Precambriano c’erano spugne in abbondanza e metazoi simili a vermi. Anche la diversità delle forme di quel periodo può essere giustificata dalla comparsa nel codice genetico dei geni Hox.»

«I geni Hox?»

«Una serie di quattro-sei geni di controllo è comparsa nel codice genetico appena prima del periodo Cambriano. Si è scoperto che erano una sorta di interruttori di controllo per lo sviluppo embrionale; definivano l’alto e il basso, la destra e la sinistra, insomma la forma corporea di base. I moscerini della frutta, le rane, gli esseri umani hanno tutti esattamente gli stessi geni Hox. Si può ritagliare un gene Hox da un moscerino e inserirlo nel DNA di una rana e funzionerà senza problemi. Poiché questi geni sono gli interruttori di comando fondamentali per lo sviluppo embrionale, basta una loro minuscola variazione per creare forme corporee completamente nuove.»

Sebbene non sapesse dove stessero andando a parare, Lisa si sorprese delle approfondite conoscenze di Anna in quell’ambito. Erano paragonabili alle sue. Se Anna fosse stata una collega, incontrata a una conferenza, forse a Lisa sarebbe piaciuta quella discussione. In effetti, doveva continuamente ricordare a se stessa con chi stava parlando.

«Perciò l’emergere dei geni Hox prima del periodo Cambriano potrebbe spiegare quella drammatica esplosione di forme di vita diverse. Tuttavia i geni Hox nonspiegano altri momenti di evoluzione rapida, quasi intenzionale.»

«Per esempio?»

«Per esempio la farfalla punteggiata delle betulle, o Biston betularia.Conosce quella storia?»

Anna stava citando uno dei capisaldi di quella teoria. La farfalla punteggiata viveva sulle betulle e aveva le ali bianche screziate, per mimetizzarsi con la corteccia di quegli alberi ed evitare di essere mangiata dagli uccelli. Ma, quando, nella regione di Manchester, la fuliggine di una centrale a carbone cominciò a fare annerire gli alberi, le farfalle si ritrovarono vulnerabili, facili prede per gli uccelli. In poche generazioni, però, il colore predominante della popolazione di Biston betulariadivenne il nero, per mimetizzarsi sui tronchi coperti di fuliggine.

«Se le mutazioni fossero casuali», argomentò Anna, «sembra una fortuna straordinaria che il nerosia comparso proprio in quel momento. Se era un evento puramente casuale, dov’erano allora le farfalle rosse, quelle verdi, quelle viola? O quelle a due teste?»

Lisa dovette trattenersi dallo strabuzzare gli occhi. «Potrei rispondere che anche le farfalle degli altri colori sono state mangiate e che quelle a due teste si sono estinte. Ma lei fraintende l’esempio: la variazione del colore di quelle farfalle nonè stato l’effetto di una mutazione. Quella specie aveva già un gene nero. In ogni generazione nascevano alcune farfalle nere, ma venivano mangiate quasi tutte, quindi la popolazione si manteneva prevalentemente bianca. Quando però gli alberi si sono anneriti, le poche farfalle nere sono risultate avvantaggiate e sono diventate prevalenti nella popolazione della specie. Questo era il senso dell’esempio: l’ambiente puòinfluenzare una popolazione. Ma non si è trattato di un caso di mutazione. Il gene nero era già presente.»

Anna stava sorridendo.

Lisa si rese conto che la donna aveva messo alla prova le sue conoscenze. Si drizzò sulla sedia, irritata e, contemporaneamente, ancora più affascinata.

«Molto bene», disse Anna. «Allora mi permetta di citarle un evento più recente, verificatosi in un ambiente controllato, in laboratorio. Un ricercatore ha prodotto una varietà di batteri E. coli che non erano in grado di digerire il lattosio. Poi ne ha sparsa una florida popolazione su una piastra di coltura, in cui l’unica fonte di cibo era il lattosio. Che cosa sarebbe dovuto accadere, secondo la scienza?»

Lisa scrollò le spalle. «Incapaci di digerire il lattosio, i batteri sarebbero morti di fame.»

«Ed è esattamente ciò che è successo al novantotto percento di quei batteri, ma il duepercento ha continuato a prosperare. Quei batteri avevano spontaneamente mutato un gene, per digerire il lattosio. In una sola generazione. Io lo trovo sconcertante. Va contro ogni ipotesi di casualità. Con tutti i geni presenti nel DNA di un E. coli e la rarità della mutazione, perché il due percento di quella popolazione ha mutato l’unico gene necessario per sopravvivere? È un evento inspiegabile alla luce della casualità.»

Lisa doveva ammettere che era strano. «Forse c’è stata una contaminazione in laboratorio.»

«L’esperimento è stato ripetuto, con risultati analoghi.»

Lisa non era ancora convinta.

«Vedo il dubbio nei suoi occhi. Perciò andiamo a cercare altrove un esempio di come sia impossibile che le mutazioni genetiche siano casuali.»

«E cioè dove?»

«Ritorniamo all’inizio della vita, al brodo primordiale, dove il motore dell’evoluzione si è acceso per la prima volta.»

Lisa ricordò che Anna aveva già accennato in precedenza che la storia della Campana risaliva all’origine della vita. Era lì che voleva andare a parare? Lisa aprì bene le orecchie, pronta a sentire che piega avrebbe preso la discussione.

«Riportiamo indietro le lancette dell’orologio», disse Anna, «a un momento precedente alla comparsa della prima cellula. Ricordi il principio di Darwin: ciò che esiste ha necessariamente avuto origine a partire da una forma più semplice, meno complessa. Perciò che cosa c’era prima degli organismi unicellulari? Fino a che punto possiamo ridurre la vita e chiamarla ancora vita? Il DNA è vivo? E un cromosoma? E una proteina o un enzima? Qual è la linea di demarcazione tra la chimica e la vita?»

«Okay, questa è davvero una domanda intrigante», ammise Lisa.

«Allora gliene farò un’altra. In che modo la vita ha compiuto il salto da un brodo chimico primordiale alla prima cellula?»

Lisa conosceva la risposta. «L’atmosfera della Terra ai primordi era piena di idrogeno, metano e acqua. Aggiungendo qualche scarica di energia, per esempio un fulmine, quei gas possono formare semplici composti organici. Questi ultimi, cuocendo nel proverbiale brodo primordiale, hanno formato una molecola in grado di replicarsi.»

«Il che è stato provato in laboratorio», confermò Anna. «Una provetta piena di gas ha prodotto un impasto di aminoacidi, i mattoni delle proteine.»

«E così è cominciata la vita.»

«Ah, lei è impaziente, corre troppo», la punzecchiò Anna. «Per il momento abbiamo soltanto aminoacidi, mattoni. Come passiamo da qualche aminoacido a quella prima proteina in grado di replicarsi completamente?»

«Basta mescolare una quantità sufficiente di aminoacidi e alla fine si concateneranno nella combinazione giusta.»

«Per caso?»

Lisa annuì.

«È così che arriviamo alla radice del problema, dottoressa Cummings. Posso convenire con lei che l’evoluzione di Darwin ha svolto un ruolo significativo dopola formazione della prima proteina in grado di autoreplicarsi. Ma sa quanti aminoacidi devono concatenarsi per formare quella prima proteina capace di replicarsi?»

«No.»

«Un minimo di trentadue. Tanti ne ha la più piccola proteina in grado di replicarsi. Le probabilità che questa proteina si formi per caso sono astronomicamente esigue: dieci alla quarantunesima.»

Lisa scrollò le spalle di fronte a quella cifra. Nonostante la sua avversione per quella donna, cominciava a nutrire un riluttante rispetto nei suoi confronti.

«Mettiamo queste probabilità in prospettiva», proseguì Anna. «Se prendessimo tuttele proteine presenti in tuttele foreste pluviali del mondo e le dissolvessimo tuttein un brodo di aminoacidi, sarebbe comunque ampiamente improbabile che si formasse una catena di trentadue aminoacidi. In effetti, ci vorrebbe una quantità cinquemila volte superioreper formare una di quelle catene. Cinquemila foreste pluviali. Quindi, come passiamo da una poltiglia di aminoacidi a quel primo moltiplicatore, il primo pezzo di vita?»


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