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L'ordine del sole nero
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Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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Kat lanciò un’occhiata a Logan: era impallidito. Come Kat, anche lui aveva studiato i disegni della Campana originale, fatti da Anna Sporrenberg. Ne avevano davanti un esatto duplicato in oro. Entrambi avevano anche letto degli effetti deleteri provocati dalle radiazioni emesse dall’apparecchio. Follia e morte. Kat guardò fuori dalla finestra. Da quell’altezza, riusciva a intravedere il profilo della cupola del Campidoglio.

Le parole pronunciate qualche minuto prima dall’ambasciatore avevano un’eco terrificante: Cento campane… in tutto il mondo.

«È venuto un tecnico specializzato a installarla», proseguì Hourigan, assumendo un tono leggermente annoiato, mentre l’incontro si avvicinava alla conclusione. «Credo che sia qui, da qualche parte.»

La porta della sala si aprì sonoramente alle loro spalle.

Tutti e tre si voltarono.

«Ah, eccolo», disse Hourigan. La sua voce si spense quando notò il mitragliatore in mano al nuovo arrivato. L’uomo aveva i capelli color biondo platino. Sebbene fosse all’altro capo della sala, Kat notò il tatuaggio scuro sulla mano che teneva l’arma.

Cercò in fretta la fondina agganciata alla caviglia.

Senza proferir parola, l’assassino aprì il fuoco, irrorando la sala di proiettili. Schegge di vetro e di legno esplosero ovunque.

Alle spalle di Kat, sotto i proiettili che rimbalzavano, la campana dorata non smetteva di suonare.

Sudafrica,

ore 12.44

Le porte dell’ascensore si aprirono al settimo livello sotterraneo. Gray uscì, fucile alla mano, e scrutò il corridoio grigio in entrambe le direzioni. A differenza del palazzo, che aveva finiture artigianali in legno pregiato, il piano sotterraneo era illuminato da lampade al neon e caratterizzato da una sterilità inflessibile: pavimenti di linoleum bianco, pareti grigie e soffitti bassi. Su un lato del corridoio si susseguivano porte lisce d’acciaio, con serrature elettroniche scintillanti. Le altre porte sembravano più ordinarie.

Gray appoggiò il palmo della mano su una di quelle.

Il pannello vibrava. Sentì un ronzio ritmico.

Una centrale elettrica? Doveva essere enorme.

Marcia lo affiancò. «Penso che siamo scesi troppo in basso. Sembra più un’area di magazzini e impianti.»

Gray era d’accordo, ma…

Passò sull’altro lato, avvicinandosi a una delle porte d’acciaio. «Ma cosa immagazzinano?»

L’insegna sulla porta diceva: EMBRYONAAL.

«Laboratorio embrionale», tradusse Marcia.

Gray prese ancora una volta la tessera di Ischke e la infilò nel lettore magnetico. Si accese una luce verde e la serratura si sbloccò. Gray si era messo in spalla il fucile e aveva in mano la pistola.

Le lampade al neon al soffitto si accesero, sfarfallando brevemente.

La stanza era in realtà un lungo corridoio, che si estendeva almeno quaranta metri. Gray notò che l’aria era fredda, più frizzante, filtrata. Su un lato c’era una fila ininterrotta di congelatori d’acciaio inossidabile, alti dal pavimento al soffitto. I compressori ronzavano. Sull’altro lato c’erano carrelli d’acciaio, serbatoi d’azoto liquido e un grande tavolo con un microscopio, collegato a un banco per la microdissezione.

Sembrava una specie di laboratorio per ibernare cadaveri.

A una postazione di lavoro centrale c’era un computer con lo screensaver che girava sul monitor a cristalli liquidi: un simbolo argentato ruotava su uno sfondo nero.Gray l’aveva già visto sul pavimento del castello di Wewelsburg.


«Il Sole Nero… Il simbolo dell’Ordine Nero di Himmler, un gruppo di occultisti e scienziati della società di Thule, ossessionati dal mito del superuomo. Probabilmente anche Baldric ne è stato membro.» Gray intuiva che il cerchio si stava chiudendo. Dal bisnonno di Ryan a lì. Indicò il computer. «Cerchi una directory principale e veda cosa riesce a scoprire.»

Mentre Marcia si dirigeva alla postazione di lavoro, Gray raggiunse uno dei freezer e lo aprì. Ne uscì una ventata d’aria gelida. All’interno c’erano cassetti, contrassegnati e numerati. Dietro di lui, Marcia batteva sui tasti del computer. Gray aprì un cassetto. C’era una serie di piccole provette di vetro piene di un liquido giallo, ben ordinate in appositi raccoglitori.

«Embrioni congelati», spiegò Marcia.

Lui chiuse il cassetto e diede un’occhiata alla fila di enormi freezer. Se Marcia aveva ragione, ci dovevano essere migliaia di embrioni immagazzinati lì dentro.

«Il computer contiene un database con genomi e genealogie», proseguì la donna. «Sia umani sia animali, in particolare mammiferi. Guardi qui.»

Lo schermo era pieno di strane notazioni.


NUCLEOTIDE VERANDERING (DNA)

[Crocuta crocuta]

6 Nov 14.56.25 GMT

Schema V.1.16

VERANDERING CODE RANGSCHIKKEN

Loci A.0. Transversie

A.0.2. Dipyrimidine to Dithymidine ATGGTTACGCGCTCATG

(c[CT]>TT) GAATTCTCGCTCATGGA

ATTCTCGCTCGTCAACT

Loci A.3. Gedeeltelijk

A.3.3.4. Dinucleotide (transcriptie) CTAGAAATTACGCTCTTA

CGCTTCTCGCTTGTTAC

GCGCTCA

Loci B.5.

B.5.1.3. Cryptische plaatsactivering GTTACGCGCTCGCGCTCA

TGGAATTCTCGC TCATG

Loci B.7.

B.7.5.1. Pentanucleotide (g[TACAGATTC] ATGGTTACGCGCTCCGC

verminderde stabiliteit) TGGAATTCTCGCTC ATG

GAATTCTCGCTC

«Sembra una lista di mutazioni», spiegò Marcia. «Definite a livello di polinucleotidi.»

Gray indicò il nome in cima alla lista. « Crocuta crocuta, la iena maculata. Ho visto il risultato finale di quella ricerca. Baldric Waalenberg ha accennato a come stava perfezionando la specie, incorporando anche cellule staminali umane nel cervello degli animali.»

Marcia s’illuminò e, premendo un tasto, ritornò alla directory principale. «Ciò spiega il nome dell’intero database: Hersenschim.Significa ‘chimera’, un termine che si riferisce a un organismo con materiali genetici provenienti da più di una specie, che vengono innestati, come nelle piante, oppure inseriti in un embrione, tramite cellule estranee.» Continuò a digitare sulla tastiera con una mano, concentrata. «Ma a quale scopo?»

Gray diede un’occhiata all’estensione del laboratorio embrionale. Era forse diverso dalla manipolazione delle orchidee e dei bonsai che Baldric praticava nella serra? Era soltanto un altro modo di controllare la natura, di manipolarla e progettarla secondo la sua idea di perfezione.

«Strano…» mormorò Marcia.

Gray si voltò di nuovo verso di lei. «Che cosa?»

«Secondo la genealogia a riferimenti incrociati, tutti questi embrioni sono geneticamente legati ai Waalenberg.»

Non era una sorpresa. Gray aveva notato le somiglianze nella discendenza dei Waalenberg. Il patriarca cercava di perfezionare il lignaggio familiare da generazioni. Ma evidentemente non era quello l’aspetto più strano.

Marcia proseguì: «Ognuno degli embrioni dei Waalenberg, a sua volta, fa riferimento a linee di cellule staminali che poi sono collegate al Crocuta crocuta».

«Le iene?»

Marcia annuì.

«Sta dicendo che ha impiantato le cellule staminali dei suoi figli in quei mostri?» Non riuscì a nascondere lo shock. Sembrava che le atrocità e la presunzione di quell’uomo non avessero limite.

«Non finisce qui», disse Marcia.

Gray ebbe un colpo allo stomaco, sapendo che cosa stava per dire.

Marcia indicò una complicata tabella sullo schermo. «Secondo questo schema, le cellule staminali delle iene sono collegate alla generazione successiva di embrioni umani.»

«Oh, Dio…» Gray ripensò a Ischke che allungava la mano e fermava la iena inferocita. Non era soltanto il rapporto di una padrona col suo cane. Erano membri della stessa famiglia. Baldric aveva impiantato le cellule delle iene mutanti nei suoi figli, creando incroci, come con le orchidee.

«Ma c’è di peggio…» Marcia ricominciò, pallida e profondamente scossa. «I Waalenberg hanno…»

«Dobbiamo muoverci», la interruppe Gray. Aveva sentito abbastanza e dovevano proseguire le ricerche.

Marcia guardò il computer, riluttante, ma annuì e si alzò. Lasciarono il mostruoso laboratorio e proseguirono lungo il corridoio. La porta successiva diceva FOETUSSEN. Un laboratorio fetale. Gray proseguì senza fermarsi. Non aveva nessuna voglia di scoprire gli orrori contenuti lì dentro.

«Come fanno a ottenere questi risultati?» chiese Marcia. «Le mutazioni, il successo con le chimere… Devono avere un qualche sistema per controllare le manipolazioni genetiche.»

«Può darsi», borbottò lui. «Ma non è perfezionato, non ancora.»

Gray ricordò il lavoro di Hugo Hirszfeld e il codice nascosto nelle rune. Capiva perché Baldric ne fosse ossessionato: era una promessa di perfezione.

Troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata.

Certamente la mostruosità non spaventava Baldric. Anzi aveva inglobato i mostri nella sua stessa famiglia. Dopo essersi impadronito del codice di Hirszfeld, quale sarebbe stato il passo successivo? Soprattutto con la Sigma che gli soffiava sul collo… Non c’era da stupirsi che Baldric volesse disperatamente sapere di più su Painter Crowe.

Raggiunsero un’altra porta. La scritta identificativa era: XERUM 525.

Gray e Marcia si guardarono.

«Non siero…» sussurrò lui.

«Xerum», lesse Marcia, scuotendo la testa, senza capire.

Gray usò la chiave magnetica rubata. La luce verde si accese, la serratura si sbloccò e lui aprì la porta. Nella stanza si accesero le luci. L’aria aveva un odore leggermente corrosivo, con una punta di ozono. Il pavimento e le pareti erano scuri.

«Piombo», disse Marcia, toccando le pareti.

A Gray non piaceva l’idea, ma doveva scoprire qualcosa di più. Quello sembrava un sito di stoccaggio per rifiuti pericolosi. La stanza era piena di scaffali, sui quali erano impilati fusti gialli da quaranta litri, con sopra il numero 525.

Gray ripensò all’ipotesi di un agente per la guerra biologica. Oppure quei fusti contenevano qualche tipo di materiale fissile? Scorie nucleari, forse? Era per quello che il locale aveva le pareti di piombo?

Marcia non sembrava granché preoccupata. Si avvicinò agli scaffali. In ogni postazione c’era un’etichetta, che contrassegnava uno dei fusti. «Albania… Argentina…»

C’erano altri Paesi, tutti in ordine alfabetico. Ci dovevano essere almeno cento fusti.

Gray percorse rapidamente la stanza, fermandosi di quando in quando a leggere un’etichetta: Belgio… Finlandia… Grecia…

Continuò a correre e, alla fine, raggiunse il punto che cercava.

Stati Uniti.

Marcia aveva sentito di un possibile attentato a Washington. A giudicare da tutti i Paesi citati dalle etichette, non era soltanto l’America a essere minacciata. Non ancora, almeno. Gray ripensò alla preoccupazione di Baldric per Painter e la Sigma, la minaccia più immediata per i suoi piani. Per rimediare, il vecchio doveva aver cambiato il suo calendario.

Lo scaffale era vuoto.

Il fusto di Xerum 525 destinato agli Stati Uniti non c’era più.

Clinica universitaria di Georgetown,

Washington, D.C.,

ore 07.45

«Tempo d’arrivo stimato di MedSTAR?» chiese il centralinista, seduto davanti a uno schermo a sensibilità tattile, con la cuffia senza fili.

Dalla radio dell’elicottero risposero: «In viaggio, a due minuti».

«Il pronto soccorso chiede un aggiornamento.» Tutti avevano sentito della sparatoria sulla Embassy Row. Erano scattati i protocolli della Homeland Security, con chiamate e allarmi in tutta la città.

«Secondo il personale medico dell’ambasciata, due morti sul colpo. Nazionalità sudafricana, tra cui l’ambasciatore. Ma anche due americani a terra.»

«Condizioni?»

«Uno deceduto, l’altro in condizioni critiche.»

14. IL SERRAGLIO

Sudafrica,

ore 13.55

Fiona era in ascolto sulla soglia, Taser alla mano. Sentì avvicinarsi delle voci, dal pianerottolo del primo piano. Il terrore l’attanagliò. Le riserve di adrenalina che l’avevano sostenuta nelle ultime ventiquattr’ore si stavano ormai esaurendo. Le tremavano le mani, il respiro era accelerato.

Il soldato legato e imbavagliato, quello che l’aveva importunata, era disteso dietro di lei. Aveva dovuto dargli un’altra scossa quando aveva cominciato a gemere.

Le voci erano sempre più vicine al suo nascondiglio.

Dov’era finito Gray? Era via da quasi un’ora.

Due persone si avvicinarono alla porta. Riconobbe una delle voci. Era quella stronza bionda che le aveva tagliato il palmo della mano: Ischke Waalenberg. Lei e il suo compagno parlavano in olandese, ma Fiona conosceva molto bene quella lingua.

«Le mie chiavi», stava dicendo Ischke. «Devo averle perse quando sono caduta.»

«Be’, cara zuster, adesso sei a casa e sei al sicuro.»

Zuster.Sorella. Quindi il suo compagno era il fratello.

«Cambieremo i codici, per precauzione», aggiunse l’uomo.

«E nessuno ha ancora trovato i due americani o la ragazzina?»

«I confini della tenuta sono sotto stretta sorveglianza. Siamo sicuri che siano ancora qui. Li troveremo. E grootvaderha una sorpresa.»

«Che tipo di sorpresa?»

«Una specie di assicurazione: nessuno lascerà la tenuta vivo. Non dimenticare che ha prelevato campioni di DNA a tutti, quando sono arrivati.»

Ischke rise, facendo gelare il sangue nelle vene a Fiona. Poi le voci si allontanarono.

«Vieni.» La voce del fratello andava scemando, mentre scendevano le scale verso il piano terra. « Grootvaderci vuole vedere.»

Le voci si fermarono in fondo alla scalinata. Pur premendo l’orecchio sulla porta, Fiona non riuscì a distinguere neanche una parola, ma sembrava che discutessero animatamente di qualche faccenda. In ogni caso, aveva sentito abbastanza.

Nessuno lascerà la tenuta vivo.

Che cosa avevano in mente? Le echeggiava ancora in testa la risata glaciale di Ischke, cupa e soddisfatta. Qualsiasi cosa stessero tramando, sembravano certi del risultato. Ma che cosa c’entravano i campioni di DNA?

Fiona sapeva che c’era soltanto un modo per scoprirlo. Non aveva idea di quando Gray sarebbe ritornato e temeva che il tempo stringesse. Doveva scoprire qual era il pericolo per poterlo evitare.

Mise in tasca il Taser e tirò fuori lo spolverino di piuma. Per quella impresa, avrebbe dovuto ricorrere a tutta la destrezza acquisita sulla strada. Aprì la porta e scivolò fuori dalla stanza. Non si era mai sentita tanto sola e in preda a una paura così assoluta. Ripensandoci, poggiò la mano sulla manopola della porta. Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi, con una preghiera, non rivolta a Dio, ma a qualcuno che le aveva insegnato che il coraggio può assumere molte forme, compreso il sacrificio.

«Mutti…» implorò.

Le mancava la nonna adottiva, Grette Neal. I segreti del passato avevano ucciso la donna e nuovi segreti minacciavano lei e gli altri. Per avere anche la minima speranza di sopravvivere, doveva essere coraggiosa e altruista come Mutti.

Le voci al piano inferiore si allontanavano dalla scala.

Fiona camminò quel tanto che bastava per vedere le teste biondo platino dei gemelli. Ritornò a sentire le loro parole.

«Non far aspettare grootvader», disse il fratello.

«Scenderò tra un attimo. Voglio soltanto dare un’occhiata a Skuld, assicurarmi che sia tornata nella sua tana. Era piuttosto eccitata e temo che possa farsi del male da sola, per la frustrazione.»

«Si potrebbe dire la stessa cosa di te, mia dolce zuster.»

Fiona fece un altro passo. Il fratello accarezzò la sorella sulla guancia, con un’intimità che faceva rabbrividire.

Ischke si arrese a quel tocco, poi si ritrasse. «Non ci metterò molto.»

L’uomo annuì e si diresse verso l’ascensore. «Avviso io grootvader.»

Ischke prese un’altra direzione, verso il retro del palazzo.

Fiona la seguì, tenendo stretto il Taser, nella tasca. Se fosse riuscita a sorprendere quella stronza da sola, a farla parlare…

Scese i gradini di volata, poi, giunta quasi in fondo alla scala, rallentò, riprendendo un passo più controllato. Ischke stava percorrendo un corridoio centrale, che s’inoltrava nel cuore del palazzo.

Fiona la seguiva a distanza, con la testa bassa, tenendo lo spolverino di piuma tra le braccia, come una monaca avrebbe portato una Bibbia. Camminava a passi piccoli, come una qualunque domestica ritrosa. Ischke scese cinque gradini, passando davanti a un paio di sentinelle, poi prese un corridoio sulla sinistra.

Fiona raggiunse le sentinelle. Accelerò il passo, come una domestica in ritardo per qualche ignota mansione. Ma rimase comunque china, semisepolta dall’uniforme troppo larga.

Raggiunse la breve scalinata.

Le guardie la ignorarono, sfoggiando un comportamento impeccabile subito dopo il passaggio della signora. Fiona scese salterellando i cinque gradini. Una volta raggiunto il corridoio inferiore, lo trovò vuoto.

Si fermò.

Ischke era scomparsa.

Fu pervasa da una miscela di sollievo e terrore.

Forse sarebbe stato più saggio ritornare nel nascondiglio e aspettare…

Ricordò la risata glaciale di Ischke, poi sentì risuonare la voce della donna, acuta e vicina. Proveniva da una doppia porta ornamentale, in vetro e ferro, sulla destra.

Qualcosa aveva fatto arrabbiare Ischke.

Fiona si precipitò verso la porta e si mise in ascolto.

«La carne deve essere sanguinante! Fresca!» gridò Ischke. «Altrimenti ti metto là dentro con lei.»

Seguirono scuse biascicate e passi che si allontanavano di fretta.

Fiona appoggiò l’orecchio al vetro.

Un errore.

La porta si aprì di colpo, sbattendole sulla testa. Ischke si precipitò fuori, andando a cozzare contro Fiona. Imprecò, spingendola via con una gomitata.

Fiona reagì d’istinto, affidandosi alle capacità acquisite un tempo. Si districò e si chiuse a palla, appoggiandosi su un ginocchio e facendosi piccina. Non ebbe nemmeno bisogno di recitare molto.

«E guarda dove vai!» sbottò Ischke.

« Ja, maitresse», la adulò lei, chinandosi ancora di più.

«Fuori dai piedi!»

Fiona fu presa dal panico. Dove doveva andare? Ischke si sarebbe chiesta che ci facesse lì. I battenti erano ancora aperti, appoggiati al corpo della donna. Fiona si fece strada, avanzando china attraverso la soglia, per allontanarsi da Ischke.

Cercò con la mano il Taser nascosto in tasca, ma le ci volle un istante per lasciar andare ciò che aveva appena rubato dalla tasca della giacca di Ischke. Non l’aveva fatto di proposito, era stato soltanto un riflesso condizionato. Quel ritardo le costò caro. Prima che potesse liberare il Taser, Ischke imprecò e si allontanò a grandi passi. I pesanti battenti di ferro e vetro si chiusero, con un rumore metallico.

Fiona si rannicchiò, maledicendosi. E adesso? Avrebbe dovuto aspettare qualche istante prima di andarsene. Avrebbe destato troppi sospetti se si fosse fatta beccare alle costole di Ischke un’altra volta. In più, sapeva dove era diretta la donna: tornava all’ascensore. Purtroppo, Fiona non conosceva la casa abbastanza bene per raggiungere l’atrio tramite un percorso alternativo e tentare un’imboscata.

Aveva le lacrime agli occhi, per un misto di paura e frustrazione. Aveva fatto un gran casino.

Disperata, finalmente notò la sala che le stava di fronte. Era ben illuminata, irrorata dalla luce naturale del sole attraverso una cupola geodesica di vetro. Era una specie di cortile interno circolare. Dal centro del pavimento si ergevano palme giganti, con le chiome sotto la volta di vetro. Tutt’attorno, massicci colonnati sostenevano il soffitto e creavano una serie di chiostri profondi. Tre vestiboli col soffitto a volta, alti quanto il cortile centrale, si diramavano come cappelle dalla navata centrale di una chiesa, formando una croce.

Ma quello non era un luogo di culto.

La prima cosa che la colpì fu l’odore. Muschiato, fetido, come il puzzo di un ossario. Nello spazio cavernoso echeggiavano urla e ululati. La curiosità la spinse a fare un passo avanti. Tre gradini portavano alla sala principale. Non c’era nessuno del personale. L’uomo che aveva sentito correr via dopo i rimproveri di Ischke era svanito nel nulla.

Fiona esaminò la sala. In ciascuno dei chiostri a margine del gigantesco cortile c’erano gabbie imponenti, sigillate da grate di ferro e vetro, simili alla porta d’ingresso. Dietro le sbarre vide forme gigantesche, alcune raggomitolate a dormire, altre che camminavano avanti e indietro, una accovacciata e intenta a rosicchiare un pezzo di femore. Erano le mostruose iene.

Ma non era tutto.

Un gorilla era seduto imbronciato vicino all’ingresso di una delle gabbie e guardava fisso Fiona, con un’intelligenza inquietante. E c’era di peggio: una mutazione aveva privato del pelo quella bestia, dal cui corpo penzolava una pelle rugosa simile a quella di un elefante.

In un’altra gabbia, un leone camminava avanti e indietro. Aveva il pelo, ma gli cresceva a chiazze, sbiadito, e al momento era imbrattato di feci e sangue rappreso. Aveva gli occhi orlati di rosso e ansimava, mostrando i denti a sciabola.

Tutt’attorno c’erano altre forme mostruose: un’antilope zebrata con corna a spirale, un paio di sciacalli alti e scheletrici, un facocero albino corazzato come un armadillo. Uno spettacolo macabro e triste allo stesso tempo. Gli sciacalli rinchiusi nella medesima gabbia guaivano e uggiolavano, impacciati nei movimenti, storpi.

Ma la pietà non bastava a frenare il terrore suscitato dalle gigantesche iene. Fiona fissò lo sguardo su quella che stava rosicchiando il femore di qualche grosso animale, bufalo o gnu. C’era ancora un po’ di carne da staccare dall’osso. Fiona non poteva fare a meno di immaginare che sarebbe potuta essere lei al suo posto. Se Gray non l’avesse salvata…

Rabbrividì.

Serrando le massicce mandibole, la gigantesca iena addentò l’osso, che si spezzò col fragore di un colpo di fucile.

Fiona sussultò, di nuovo all’erta.

Ritornò alla porta. Aveva aspettato abbastanza. La missione era fallita, perciò sarebbe ritornata al suo nascondiglio con la coda tra le gambe.

Spinse con forza la porta.

Era chiusa a chiave.

ore 14.30

Gray fissava la fila di massicce leve d’acciaio, col cuore in gola. Gli ci era voluto un bel po’ per trovare gli interruttori principali della centralina elettrica. Percepiva l’energia che scorreva attraverso i giganteschi cavi del locale, una forza elettromagnetica che lo colpiva alla base del collo.

Aveva già sprecato troppo tempo.

Dopo aver scoperto che mancava uno dei fusti di Xerum 525, quello destinato agli Stati Uniti, sentiva l’ansia dell’urgenza. Aveva abbandonato ogni tentativo di perlustrare il resto del sotterraneo. La cosa più importante era mettere in allerta Washington.

Marcia aveva riferito di aver visto una radio d’emergenza a onde corte nella zona di sicurezza, quando era stata prelevata dalla sua cella. Sapeva chi chiamare: una sua collega, la dottoressa Paula Kane, che avrebbe potuto trasmettere l’allarme. Tuttavia entrambi sapevano che, con tutta probabilità, cercare di impadronirsi della radio sarebbe stato una missione suicida. Ma che altro potevano fare?

Almeno Fiona era nascosta, al sicuro.

«Che aspetta?» chiese Marcia, che stava alle sue spalle, reggendo una torcia. Non aveva più il braccio legato al collo e indossava un camice da laboratorio, preso da uno degli armadietti. Al buio, poteva essere scambiata per una delle ricercatrici del laboratorio.

Gray sollevò una mano verso la prima leva.

Avevano già individuato le scale di emergenza, che portavano verso il palazzo. Ma, per uscire e raggiungere la zona di sicurezza, avevano bisogno di un diversivo.

La soluzione l’avevano trovata qualche istante prima. Appoggiato a una delle porte nel corridoio, Gray aveva notato la vibrazione e il ronzio dell’impianto elettrico che alimentava quel livello. Se fossero riusciti a far saltare la centralina principale, creando altro caos, forse accecando i loro carcerieri per un po’, avrebbero avuto una possibilità in più di arrivare a quella radio.

«Pronta?» chiese Gray.

Marcia accese la torcia. Lo guardò negli occhi, fece un respiro profondo e annuì. «Procediamo.»

«Buio», disse Gray, tirando la prima leva.

Poi un’altra, e un’altra ancora.

ore 14.35

Fiona vide le luci sfarfallare e spegnersi.

Era in piedi in mezzo al cortile, accanto a una piccola fontana. Qualche istante prima, era scivolata via dalla porta chiusa e aveva attraversato furtivamente il cortile in cerca di un’altra uscita. Doveva essercene un’altra per forzasi bloccò di colpo.

Nella sala calò un silenzio irreale, come se gli animali avessero percepito un cambiamento fondamentale, la scomparsa del ronzio subsonico perpetuo dell’elettricità. O forse intuivano semplicemente che ciò dava loro un nuovo potere. Una porta cigolò alle spalle di Fiona. Lei si voltò lentamente. Una delle gabbie di vetro e ferro in cui era chiusa una iena si era aperta. Il blackout aveva smagnetizzato le serrature. La bestia strisciò fuori dalla gabbia, grondando sangue dal muso. Era quella che stava rosicchiando l’osso. Emise un ringhio cupo.

Fiona sentì una risata sguaiata proveniente da qualche punto alle sue spalle. I predatori del serraglio si erano scambiati un messaggio silenzioso. Altre porte si aprirono cigolando sui cardini di ferro.

La ragazza rimase immobile accanto alla fontana. Anche la pompa idraulica si era fermata, mettendo a tacere l’acqua, come se temesse di attirare l’attenzione su di sé.

Da qualche parte, in una delle cappelle laterali, echeggiò un urlo acuto. Umano. Fiona immaginò che fosse l’inserviente rimproverato da Ischke. A quanto pareva, le bestie che gli erano state affidate avrebbero avuto la loro carne fresca. Sentì dei passi avvicinarsi, poi un nuovo urlo di dolore, mescolato a ululati, guaiti e latrati.

Fiona si tappò le orecchie dopo quell’ultimo urlo, seguito dal suono delle creature che si nutrivano.

Era concentrata interamente sulla prima belva che era fuggita.

La iena col muso insanguinato si stava avvicinando. Fiona riconobbe la creatura dalle screziature appena accennate sul fianco, macchie di bianco su bianco. Era la stessa della giungla.

La preferita di Ischke.

Skuld.

Prima quello zuccherino chiuso in gabbia le era stato negato.

Stavolta nessuno l’avrebbe disturbata.

ore 14.40

«Aiuto… bitte!» Gunther si precipitò nella capanna, seguito dal maggiore Brooks.

Lisa si alzò, sollevando lo stetoscopio dal petto di Painter. Stava tenendo sotto controllo un soffio sistolico. Nell’arco di una sola mezza giornata, il picco era passato da precoce a ritardato, il che suggeriva una rapida degenerazione della stenosi della valvola aortica. Quella che prima era una modesta angina si era ormai trasformata in sincopi e mancamenti, ogni volta che l’uomo si sforzava troppo. Lisa non aveva mai visto una degenerazione così rapida. Sospettava una calcificazione della valvola cardiaca. Quegli strani depositi mineralizzati avevano cominciato a comparire in tutto il corpo di Painter, anche negli umori degli occhi.

Disteso supino, il direttore della Sigma si sollevò sui gomiti, trasalendo.

«Che succede?» chiese a Gunther.

Gli rispose il maggiore Brooks, col suo pesante accento strascicato del Sud. «È sua sorella, signore. Ha una specie di attacco… Convulsioni.»

Lisa prese il suo kit medico. Painter cercò di alzarsi, ma al secondo tentativo dovette essere assistito da Lisa. «Resta qui», lo ammonì lei.

«Ce la faccio», replicò lui, palesemente irritato.

Lisa non aveva tempo di discutere e gli lasciò andare il braccio, poi si precipitò da Gunther. «Andiamo.»

Brooks aspettò, incerto se seguirli oppure se aiutare Painter. Questi lo allontanò con un cenno e si mise a zoppicare dietro di loro.

Lisa corse fuori dalla capanna e si diresse verso quella vicina. Fu investita dal caldo, come se fosse entrata in un forno. L’aria era immobile, incandescente, impossibile da respirare. Il sole era accecante. Ma, dopo un attimo, Lisa si stava già chinando per entrare nella più fresca oscurità dell’altra capanna.

Anna era distesa su una stuoia d’erba, appoggiata per metà su un fianco, il corpo inarcato, i muscoli contratti. Lisa corse da lei. Le aveva già collocato un catetere intravenoso nell’avambraccio. Anche Painter ne aveva uno. Così era più facile somministrare a entrambi farmaci e flebo.

Lisa si appoggiò su un ginocchio e le somministrò una dose già misurata di diazepam. Nel giro di qualche secondo, Anna si rilassò, ricadendo a terra. Sbatté le palpebre e aprì gli occhi, riprendendo coscienza, stordita, ma vigile.

Arrivò Painter, seguito da Monk. «Come sta?»

«Secondo te?» chiese Lisa, esasperata.

Gunther aiutò la sorella a mettersi seduta.

Aveva il viso cinereo, coperto da un velo di sudore. Painter era destinato a fare la stessa fine nel giro di un’ora. Sebbene fossero stati esposti in ugual misura alle radiazioni, la maggiore stazza e il maggior vigore fisico di Painter lo sostenevano un po’ meglio. Ma a entrambi non rimaneva che qualche ora di vita.

Lisa guardò lo spiraglio di luce che entrava nella capanna da una finestra a fessura. Il crepuscolo era troppo lontano.

Monk interruppe quel silenzio gravoso. «Ho parlato con Khamisi. Dice che si sono appena spente tutte le luci in quel dannato palazzo.» Accennò un sorriso, come se dubitasse che eventuali buone notizie fossero ben accette. «Immagino che sia opera di Gray.»

Painter aggrottò le sopracciglia. Era l’unica espressione di cui sembrava capace da qualche tempo. «Questo non lo sappiamo.»

«E non sappiamo neanche il contrario.» Monk si passò una mano sulla testa rasata. «Signore, penso che dobbiamo considerare la possibilità di anticipare l’intervento. Khamisi dice…»

«Khamisi non comanda questa operazione», lo interruppe Painter, tossendo forte.

Monk guardò Lisa. I due avevano parlato in privato venti minuti prima. Era uno dei motivi per cui l’agente aveva chiamato Khamisi. Bisognava verificare alcune opportunità.

Monk fece un cenno col capo.

Lisa tirò fuori dalla tasca una seconda siringa e affiancò Painter. «Lascia che ti sciacqui il catetere. C’è rimasto del sangue.»

Painter sollevò il braccio tremante.

Lisa gli sostenne il polso e iniettò la dose. Monk si portò accanto a Painter e lo afferrò, mentre gli cedevano le gambe.

«Che…» La testa di Painter ciondolò all’indietro.

Monk lo sostenne con una spalla sotto l’ascella. «È per il suo bene, signore.»

Painter guardò di traverso Lisa e allungò l’altro braccio verso di lei. Se fosse per colpirla o per esprimere lo shock perché lei l’aveva tradito probabilmente non lo sapeva nemmeno lui. Il sedativo gli fece perdere conoscenza.

Il maggiore Brooks rimase a guardare, con la bocca spalancata per lo stupore.

Monk alzò le spalle, rivolgendosi al militare dell’Air Force: «Mai visto un ammutinamento prima d’ora?»

Brooks si riprese. «Posso dire solo una cosa, signore: era ora!»


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