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L'ordine del sole nero
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Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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12. UKUFA

Richards Bay, Sudafrica,

ore 06.19

Lisa si accorse che a Painter tremavano le gambe, mentre saliva i gradini d’ingresso alla sede locale della British Telecom International. C’erano andati per incontrare un agente britannico, che li avrebbe aiutati dal punto di vista logistico in un eventuale attacco alla tenuta dei Waalenberg. Erano arrivati dopo un breve viaggio in taxi dall’aeroporto di Richards Bay, importante centro portuale lungo la costa sudafricana, a un’ora di automobile dalla tenuta dei Waalenberg.

Painter si aggrappò alla balaustra, lasciando un’impronta umida. Lisa lo tenne per un braccio e lo aiutò a salire l’ultimo gradino.

«Ce la faccio da me», disse lui, con tono seccato.

Lei non reagì a quell’espressione di rabbia, sapeva che era dovuta alla frustrazione. In più, Painter era in preda a dolori atroci e aveva continuato a ingoiare pastiglie di codeina come se fossero M M’s.

Lisa si era illusa che durante il viaggio in aereo Painter potesse recuperare in parte le forze, ma la mezza giornata di volo non aveva fatto altro che peggiorare la sua debilitazione, o involuzione, a dare retta ad Anna.

La donna tedesca e suo fratello erano rimasti all’aeroporto, sotto sorveglianza. Non che fosse davvero necessario. Anna aveva trascorso l’ultima ora del viaggio a vomitare nel bagno del jet. L’ultima volta che li avevano visti, la donna era distesa sul divano tra le braccia di Gunther, con un panno bagnato sulla fronte. Aveva l’occhio sinistro iniettato di sangue e un brutto livido sull’altro. Lisa le aveva dato un antiemetico per la nausea e le aveva fatto un’iniezione di morfina. Non l’aveva detto a nessuno, ma prevedeva che Anna e Painter avessero davanti al massimo un altro giorno, prima che svanisse ogni speranza di cura.

Il maggiore Brooks, che era il solo a scortarli, aprì loro la porta, tenendo sempre d’occhio la strada, ma c’era ben poco movimento a quell’ora del mattino.

Painter entrò, con movimenti rigidi e impacciati, sforzandosi di nascondere l’andatura claudicante. Lisa lo seguì. Dopo qualche minuto, furono accompagnati a una sala conferenze, passando per un grande labirinto grigio di cubicoli e uffici. La sala era vuota. Dalle finestre si vedeva la laguna di Richards Bay. A nord c’era un porto industriale, pieno di gru e navi mercantili. A sud, separata da una diga marittima, si estendeva una parte della laguna originaria, diventata una riserva naturale, che ospitava coccodrilli, squali, ippopotami, pellicani, cormorani e gli onnipresenti fenicotteri.

Lo specchio d’acqua si stava infiammando dei colori dell’alba.

Mentre aspettavano, furono serviti tè e scone, le classiche focaccine inglesi. Painter si era già messo a sedere, e Lisa fece altrettanto. Il maggiore Brooks rimase in piedi, non lontano dalla porta.

Painter lesse una domanda nell’espressione di Lisa. «Sto bene.»

«No, non stai bene», ribatté lei sottovoce.

Per qualche motivo, quella stanza vuota la intimidiva. Lui le sorrise, con uno scintillio negli occhi. Nonostante la degenerazione del suo organismo, era ancora in sé. Si era accorta che biascicava leggermente, ma poteva essere semplicemente l’effetto dei farmaci. Sarebbe rimasto lucido fino all’ultimo?

Con un gesto quasi automatico, la mano di lei cercò la sua. Lisa non voleva che se ne andasse. Si sorprese dell’intensità schiacciante di quell’emozione. Lo conosceva appena. Voleva sapere tutto di lui: qual era il suo cibo preferito, che cosa lo faceva sbellicare dalle risate, come ballava, che cosa le avrebbe sussurrato all’orecchio dandole la buonanotte. Non voleva che svanisse tutto quanto. Gli strinse forte la mano, come se la sua sola volontà bastasse a trattenerlo.

In quel momento, la porta della sala si aprì di nuovo. Finalmente era arrivato l’agente britannico.

Lisa si voltò a guardare e rimase sorpresa. Si aspettava una specie di clone di James Bond, una spia in piena regola, con tanto di abito Armani. Invece era una donna di mezza età. Era vestita con una tenuta da safari kaki stropicciata e aveva in mano un cappello spiegazzato. Il viso era leggermente impolverato di terra rossa, tranne che attorno agli occhi: probabilmente aveva indossato un paio d’occhiali da sole fino a poco prima. Ne risultava un’espressione allarmata, che però era in contrasto con le spalle cascanti e stanche e una certa tristezza nello sguardo…

«Sono la dottoressa Paula Kane», si presentò, salutando con un cenno del capo il maggiore Brooks e poi raggiungendo loro due al tavolo. «Non abbiamo molto tempo.»

Painter si era alzato in piedi per guardare la schiera di fotografie satellitari sparpagliate sul tavolo. «Quando sono state scattate?»

«Ieri sera, al crepuscolo», rispose Paula.

La donna aveva già spiegato quale fosse il suo ruolo. Dopo il dottorato in biologia, era stata reclutata dall’intelligence britannica e dislocata in Sudafrica. Lei e una collega gestivano una serie di progetti di ricerca, ma allo stesso tempo monitoravano in segreto la tenuta dei Waalenberg. Spiavano quella famiglia da circa un decennio, finché, un paio di giorni prima, non era avvenuta una tragedia. La sua collega era stata uccisa in circostanze poco chiare. Assalita da alcune leonesse, secondo la versione ufficiale. Ma lei non ne era per nulla convinta.

«Abbiamo fatto una ripresa agli infrarossi dopo mezzanotte», proseguì Paula, «ma c’è stato un malfunzionamento e abbiamo perso l’immagine.»

Painter fissava le foto, esterrefatto dall’enorme estensione della tenuta: oltre cinquantamila ettari. Si distingueva una piccola pista d’atterraggio, che apriva un varco nella giungla. Un paesaggio di altopiani boscosi, vaste savane e giungla fitta era cosparso di piccoli fabbricati. Al centro della parte più densa della foresta, si ergeva un castello di legno e pietra: la residenza dei Waalenberg.

«Non abbiamo una vista migliore dell’area attorno al palazzo?»

Paula scosse la testa. «È coperta da una densa vegetazione afromontana, una giungla secolare che ormai ha pochi equivalenti in Sudafrica. I Waalenberg hanno scelto questa posizione per la loro tenuta sia perché era isolata sia per accaparrarsi questa enorme foresta, formata da alberi alti quaranta metri, con chiome fitte e stratificate a diverse altezze. All’ombra di quelle fronde c’è una biodiversità maggiore che nella giungla congolese o in qualsiasi foresta pluviale.»

«Ed è una copertura perfetta», commentò Painter.

«Ciò che succede là sotto lo sanno soltanto i Waalenberg. Ma noi sappiamo che le tecnologie di cui pullula il palazzo sono soltanto la punta di un iceberg: sotto la tenuta c’è un vasto complesso sotterraneo.»

«A quale profondità?» chiese Painter, scambiando una breve occhiata con Lisa. Se facevano esperimenti con la Campana, sicuramente l’avevano sepolta nelle viscere della terra.

«Non lo sappiamo con certezza. Ma i Waalenberg hanno fatto fortuna con le miniere d’oro.»

«A Witwatersrand.»

«Esatto. Vedo che si è documentato. Le conoscenze in campo minerario sono tornate utili per costruire un complesso sotterraneo sotto il palazzo. Sappiamo che l’ingegnere minerario Bertrand Culbert venne consultato per la costruzione delle fondamentadell’edificio, ma morì poco tempo dopo.»

«Vediamo se indovino: in circostanze misteriose.»

«Calpestato da un bufalo. Ma la sua non è stata né la prima né l’ultima morte associata ai Waalenberg.» Al ricordo della sua compagna, lo sguardo le si riempì di dolore. «Abbondano le voci di misteriose scomparse nell’area.»

«Eppure nessuno ha ancora emesso un mandato per perquisire la tenuta.»

«Deve capire quanto sono fragili le istituzioni sudafricane. I regimi cambiano, ma quello che ha sempre dominato, qui, è l’oro. I Waalenberg sono intoccabili. L’oro li protegge meglio di qualsiasi fossato o esercito privato.»

«E voi?» chiese Painter. «Che interessi ha l’MI5, qui?»

«I nostri interessi hanno una storia molto lunga, temo. L’intelligence britannica tiene d’occhio i Waalenberg già dalla fine della seconda guerra mondiale.»

Painter si rimise a sedere, stanco. Aveva difficoltà a mettere a fuoco da un occhio. Se lo sfregò, poi, consapevole dell’attenzione di Lisa, si rivolse di nuovo a Paula. Non le aveva ancora rivelato di aver scoperto il simbolo nazista nascosto al centro dello stemma dei Waalenberg, ma evidentemente l’MI5 conosceva già il collegamento.

«Sapevamo che i Waalenberg erano importanti sostenitori della Ahnenerbe Forschungss-und Lehrgemeinschaft, la società per la ricerca e la diffusione del patrimonio storico nazista. Ne ha mai sentito parlare?»

Painter scosse la testa, il che gli procurò una fitta di dolore. Ultimamente l’emicrania si era diffusa al collo e all’intera colonna vertebrale. Sopportò la sofferenza a denti stretti.

«La società per il patrimonio storico era un gruppo di ricerca guidato da Heinrich Himmler, che studiava le radici della razza ariana. È stato anche responsabile di alcune delle più efferate atrocità commesse nei campi di concentramento e in altre strutture segrete. Praticamente erano scienziati pazzi e armati.»

Painter trasalì, ma non era più una questione di dolore fisico. Aveva sentito descrivere la Sigma in termini analoghi. Scienziati armati.Era quello il loro vero nemico? Una versione nazista della Sigma?

«Che interesse avevano i Waalenberg in quel tipo di ricerca?» chiese Lisa.

«Non ne siamo del tutto sicuri, ma c’erano molti simpatizzanti nazisti in Sudafrica durante la guerra. Sappiamo che l’attuale patriarca, Baldric Waalenberg, s’interessava anche di eugenetica e che ha partecipato a conferenze scientifiche in Germania e Austria prima che scoppiassero le ostilità. Dopo la guerra, però, si è ritirato dalla scena, portando con sé l’intera famiglia.»

«È andato a leccarsi le ferite?» chiese Painter.

«Non è quello che pensiamo noi. Dopo la guerra, le forze alleate hanno setacciato la campagna tedesca, alla ricerca delle tecnologie segrete dei nazisti.» Paula scrollò le spalle. «C’erano anche forze britanniche.»

Painter annuì. Pure Anna aveva citato quei saccheggi.

«Ma i nazisti erano stati bravi a far sparire gran parte delle loro tecnologie, facendo terra bruciata: hanno giustiziato scienziati, bombardato impianti e strutture. I nostri sono arrivati in uno di quei siti in Baviera qualche minuto troppo tardi. Hanno trovato uno scienziato in un fosso, con una pallottola nel cranio, ma ancora vivo. Prima di morire ha rivelato qualche indizio utile. I nazisti stavano facendo ricerche su una nuova fonte di energia, scoperta tramite esperimenti quantistici, e avevano fatto importanti progressi: avevano un combustibile di straordinaria potenza.»

Painter e Lisa si scambiarono uno sguardo, ricordando la conversazione fatta con Anna sull’energia del punto zero.

«Qualsiasi cosa avessero scoperto, quella tecnologia è stata trafugata tramite i percorsi segreti creati dai nazisti. Si sa ben poco, tranne il nome della sostanza in questione e il luogo in cui se ne sono perse le tracce.»

«Alla tenuta dei Waalenberg?» tirò a indovinare Lisa.

Paula annuì.

«E il nome della sostanza?» chiese Painter, anche se già conosceva la risposta, avendo messo assieme gli elementi in suo possesso. «Si chiamava Xerum 525?»

Paula gli lanciò un’occhiata penetrante, aggrottando le sopracciglia. «Come fa a saperlo?»

«Il combustibile della Campana», mormorò Lisa, sorpresa.

Tutto tornava. Era il momento di parlare apertamente con la dottoressa Paula Kane.

Painter si alzò. «C’è qualcuno che lei deve conoscere.»

La reazione di Anna non fu meno intensa. «Perciò la formula segreta dello Xerum 525 non è andata perduta? Unglaublich!»

Si erano riuniti in un hangar dell’aeroporto di Richards Bay, mentre due Isuzu Trooper venivano caricati di armi e attrezzature.

Lisa controllava il suo kit medico, mentre ascoltava la discussione in corso tra Painter, Anna e Paula. Gunther era accanto a lei e guardava accigliato la sorella. Anna sembrava più stabile, dopo aver preso le medicine che Lisa le aveva dato. Ma per quanto tempo?

«Mentre la Campana veniva portata a nord da suo nonno, i segreti dello Xerum 525 devono essere stati trasferiti a sud», spiegò Painter ad Anna. «Così sono state divise le due parti dell’esperimento. A un certo punto, i Waalenberg devono essere venuti a sapere che la Campana non era stata distrutta. In quanto finanziatore della società per il patrimonio storico, Baldric Waalenberg doveva essere a conoscenza del Granitschloß.»

Paula era dello stesso parere. «La società era il gruppo che appoggiava le spedizioni di Himmler sull’Himalaya.»

«E, una volta che l’ebbe scoperto, per Baldric dev’essere stato facile infiltrare spie al Granitschloß.»

Anna era impallidita, ma non a causa della malattia. «Il bastardo ci ha usato! Per tutto questo tempo!»

Painter annuì. Baldric Waalenberg aveva orchestrato tutto quanto, manovrando le cose a distanza. Aveva lasciato che gli scienziati del Granitschloß, esperti della Campana, proseguissero le loro ricerche, ma allo stesso tempo le sue spie facevano filtrare le informazioni in Africa.

«In seguito, Baldric deve aver costruito la sua Campana», disse Painter, «sperimentando in segreto, producendo i suoi Sonnenkönige, affinandoli tramite le tecniche avanzate scoperte dai vostri scienziati. Era un’impostazione perfetta. Senza un’altra fonte di Xerum 525, il Granitschloßera vulnerabile, controllato da Baldric Waalenberg a vostra insaputa. In qualsiasi momento, poteva togliervi la terra sotto i piedi.»

«Ed è proprio quello che ha fatto», sbottò Anna.

«Ma perché?» chiese Paula. «Questa manovra segreta funzionava bene.»

Painter scrollò le spalle. «Forse perché il gruppo di Anna stava allontanandosi sempre più dall’ideale nazista di supremazia ariana.»

Anna si premette un palmo sulla fronte, come se così potesse proteggersi da ciò che stava scoprendo. «E alcuni nostri scienziati… davano a intendere di voler… uscire allo scoperto, unirsi alla comunità scientifica e divulgare le nostre ricerche.»

«Non penso che questo sia l’unico», replicò Painter. «C’è in ballo qualcosa di più grosso. Qualcosa che, d’un tratto, ha reso il Granitschloßobsoleto.»

«Credo che lei abbia ragione», convenne Paula. «Negli ultimi quattro mesi c’è stato un improvviso aumento delle attività alla tenuta. Qualcosa li ha messi in agitazione.»

«Devono aver fatto qualche importante progresso da soli», disse Anna, con un’espressione preoccupata.

Gunther intervenne, con la voce rauca, come se avesse un macigno in gola. « Genug!» Ne aveva avuto abbastanza e per la frustrazione faceva fatica a parlare inglese. «Il bastardo ha Campana… ha Xerum… noi troviamo, usiamo.» Fece un gesto alla sorella. «Basta parlare!»

Lisa si trovò pienamente d’accordo col bestione. «Dobbiamo trovare un modo per entrare.» E presto, aggiunse tra sé.

«Ci vorrebbe un esercito per assaltare la tenuta.» Painter si voltò verso Paula. «Possiamo aspettarci un aiuto dal governo sudafricano?»

«È escluso. I Waalenberg hanno corrotto troppe persone. Dovremo trovare un modo per infiltrarci in segreto.»

«Le foto satellitari non sono di grande aiuto», commentò Painter.

«Allora useremo tecnologie meno avanzate», replicò Paula, conducendoli alle Isuzu Trooper che li aspettavano. «Ho già qualcuno pronto sul campo.»

ore 06.28

Khamisi era disteso a terra. Sebbene fosse arrivata l’alba, i primi raggi del sole non facevano che gettare ombre ancora più profonde sul terreno della giungla. Indossava una mimetica e aveva in spalla la doppietta 465 Nitro Holland Holland Royal. In mano portava una tradizionale lancia corta zulù, una specie di zagaglia.

Dietro di lui c’erano altri due esploratori della tribù: Tau, il nipote dell’anziano che aveva salvato Khamisi dall’aggressione, e il suo migliore amico, Njongo. Anche loro portavano armi da fuoco e lance. Il loro abbigliamento era più tradizionale: fasce di pelliccia di lontra. Inoltre, avevano la pelle impiastricciata di vernice.

I tre avevano trascorso la notte setacciando la foresta attorno al palazzo, in cerca di una via che evitasse i sentieri sospesi tra le fronde. Avevano usato le piste degli animali selvatici, che s’inoltravano nel folto del sottobosco, e si erano spostati assieme a una piccola mandria di impala, nascondendosi nella loro ombra. Khamisi si era fermato in diversi punti per piazzare qualche sorpresaaccanto ai cavi che, camuffati da piante rampicanti, collegavano al suolo i sentieri sospesi.

Una volta fatto il proprio dovere, si erano incamminati verso un punto in cui un ruscello scorreva sotto la recinzione della tenuta.

Un attimo prima, Khamisi aveva sentito quell’urlo selvaggio.

Uuh-iiii-uuuuu.

Il guardacaccia era rimasto pietrificato. Il ricordo di quel richiamo gli era rimasto impresso nelle ossa.

Ukufa.

Paula Kane aveva ragione. Secondo lei, le creature provenivano dalla tenuta dei Waalenberg. Non sapeva se fossero fuggite oppure se fossero lì apposta per aggredire Khamisi e la dottoressa Fairfield. In un caso o nell’altro, erano in libertà, a caccia.

Ma di chi?

Il richiamo proveniva da lontano, alla loro sinistra.

Non erano loro le prede. Quelle creature erano cacciatrici troppo abili, non avrebbero rivelato la loro presenza così presto. Qualcos’altro le aveva attirate, stuzzicando la loro sete di sangue.

Khamisi sentì un urlo in tedesco, un grido d’aiuto, tra i singhiozzi. Era più vicino.

Ancora terrorizzato dal richiamo bestiale, il guardacaccia avrebbe voluto scappare lontano, veloce. Era una reazione primordiale.

Alle sue spalle, Tua lo incitava a fare proprio quello, borbottando in zulù.

Khamisi, invece, si diresse verso il punto da cui proveniva il grido d’aiuto. Aveva già lasciato Marcia in preda a quelle creature. Ricordava il suo terrore, quando aveva aspettato l’alba immerso fino al collo nell’abbeveratoio. Non poteva ignorare quelle urla.

Khamisi rotolò sino a Tau e gli passò le mappe che aveva disegnato. «Torna all’accampamento e porta queste alla dottoressa Kane.»

«Fratello… no… vieni via.» Tau aveva gli occhi sgranati per il terrore. Suo nonno gli aveva raccontato dell’ ukufa.Khamisi doveva riconoscere il coraggio di Tau e del suo amico: nessun altro si era offerto volontario per entrare nella tenuta. La superstizione era imperante.

Una volta di fronte alla realtà, Tau non aveva nessuna intenzione di rimanere e Khamisi non poteva biasimarlo. Ricordava il suo terrore, quando era con Marcia. Invece di resistere, era fuggito, era corso via, lasciando che la dottoressa fosse uccisa.

«Andate», ordinò Khamisi, indicando la recinzione con un cenno del capo. Le mappe dovevano essere consegnate.

I due giovani esitarono per un istante, poi si mossero, stando bassi, e scomparvero nella giungla. Khamisi non sentiva nemmeno i loro passi.

Calò un silenzio spaventoso, pesante e denso come la foresta stessa. Khamisi s’incamminò nella direzione da cui erano venute le urla, umane e non.

Dopo un minuto, proruppe un altro ululato, accompagnato da un volo di uccelli allarmati. Terminò in una serie di schiamazzi, simili a una risata stridula. Khamisi si fermò a riflettere, colpito da qualcosa di familiare in quell’ultimo, inquietante verso. Prima che potesse pensarci oltre, un singhiozzo sommesso lo fece trasalire. Khamisi usò la canna della doppietta per aprirsi un varco tra le fronde. Davanti a lui si apriva una piccola radura, dove un albero era caduto di recente, sgombrando una parte della foresta. Dallo spiraglio che si era aperto tra le chiome degli alberi, penetrava un raggio di sole, che faceva sembrare ancora più oscuro il resto della giungla.

All’altra estremità della radura, un movimento attirò la sua attenzione. Un ragazzo si stava sforzando di arrampicarsi da un ramo basso a uno più alto, ma non riusciva a trovare una buona presa con la mano destra. Anche da quella distanza, Khamisi vedeva la scia di sangue che colava lungo il braccio del ragazzo, inzuppandogli la manica, mentre tentava invano di aggrapparsi. D’un tratto, il giovane cadde in ginocchio, avvinghiandosi al tronco e cercando di nascondersi.

Poi anche il motivo dell’improvviso terrore del ragazzo divenne visibile.

Khamisi si paralizzò quando la creatura entrò furtivamente nella radura, sotto l’albero. A dispetto dei suoi movimenti silenziosi, era un essere imponente, più grande di un leone adulto, ma non era un leone. Il suo pelo irsuto era albino, gli occhi di un rosso iperriflettente. Le spalle erano alte e massicce, la parte terminale della schiena era più bassa. Il collo muscoloso sosteneva una testa enorme, col muso allungato e con un paio di grandi orecchie da pipistrello che si girarono verso l’albero. Sollevando la testa, l’animale annusò l’aria, attirato dal sangue. Le labbra si ritirarono, scoprendo fauci spaventose, con denti aguzzi. Ululò nuovamente e ancora una volta concluse il richiamo con una serie di agghiaccianti risate. Poi cominciò ad arrampicarsi.

Khamisi sapeva che cosa aveva di fronte.

Ukufa.

Morte.

Ma, per quanto avesse un aspetto mostruoso, Khamisi ne conosceva il vero nome.

ore 06.30

«Specie Crocuta crocuta», spiegò Baldric Waalenberg, avvicinandosi allo schermo del computer. Aveva notato che il suo prigioniero guardava la creatura nel riquadro accanto alle immagini di Fiona nella gabbia.

Gray studiò quella bestia massiccia come un orso, che, immobile davanti alla telecamera, ringhiava con la bocca aperta, scoprendo gengive bianche e zanne ingiallite. Doveva pesare centocinquanta chili. Stava sorvegliando i resti macerati di un’antilope.

«La iena maculata è il secondo più grande carnivoro dell’Africa», proseguì Baldric. «È capace di abbattere un maschio di gnu da sola.»

Gray era perplesso. La creatura sul monitor non era una normale iena. Era tre o quattro volte più grossa del solito, poi c’era il manto sbiadito… Una specie di combinazione di gigantismo e albinismo: una mostruosa mutazione.

«Cosa le avete fatto?» chiese, incapace di nascondere il disgusto nella sua voce. Voleva anche prendere tempo, facendo parlare il vecchio. Scambiò uno sguardo con Monk, poi tornò a fissare Baldric.

«Abbiamo reso quella creatura migliore, più forte. Non è vero, Isaak?»

« Ja, grootvader.»

«I graffiti preistorici di alcune caverne in Europa mostrano la grande antenata della iena moderna, la iena gigante. Noi abbiamo trovato un modo per riportare la Crocutaall’antica gloria.» Baldric parlava con lo stesso tono scientifico e spassionato di quando aveva descritto i suoi tentativi di selezionare orchidee nere. «Abbiamo persino migliorato l’intelligenza della specie, incorporando cellule staminali umane nella corteccia cerebrale, con risultati affascinanti.»

Gray aveva letto di esperimenti analoghi fatti coi topi. A Stanford, gli scienziati avevano generato alcuni topi con l’uno percento di cervello umano. Che diavolo stava succedendo?

Baldric si avvicinò alla lavagna coi cinque simboli runici. Li picchiettò con la bacchetta. «Abbiamo una serie di Supercomputer Cray XT3 che lavorano al codice di Hugo. Quando l’avremo risolto, saremo in grado di fare la stessa cosa con gli esseri umani, per avviare la prossima evoluzione dell’umanità. La specie umana risorgerà in Africa, mettendo fine al pantano della mescolanza razziale grazie a una nuova purezza, che aspetta soltanto di sganciarsi dal nostro codice genetico corrotto.»

Gray sentì echeggiare in quelle parole la filosofia nazista dell’ Übermensch, il mito del superuomo. Il vecchio doveva essere pazzo. Ma notò anche la lucidità del suo sguardo. E sullo schermo c’erano le prove dei primi mostruosi successi dei suoi progetti.

Gray si voltò verso Isaak, il quale aveva premuto un tasto, facendo scomparire la iena mutante. D’un tratto capì il collegamento: l’albinismo della iena, Isaak e sua sorella gemella, gli altri assassini dai capelli biondo platino… Baldric non aveva fatto esperimenti soltanto con le orchidee e le iene.

«Ora ritorniamo alla questione di Painter Crowe», disse il vecchio, indicando lo schermo con un ampio gesto della mano. «Credo che abbia capito ciò che attende la giovane meisjenella gabbia se lei non risponderà sinceramente alle nostre domande. Basta coi giochetti.»

Gray fissava lo schermo e la ragazzina in gabbia. Non poteva lasciare che succedesse qualcosa a Fiona. Doveva quantomeno guadagnare tempo per lei. La ragazza era stata trascinata in tutta quella faccenda per via della sua goffaggine durante le indagini a Copenhagen: si sentiva responsabile. E in più quella ragazzina gli piaceva, la rispettava, anche quando faceva la rompiscatole.

Gray sapeva che cosa doveva fare. Si voltò verso Baldric. «Che cosa vuole sapere?»

«A differenza di lei, Painter Crowe si è dimostrato un avversario più capace del previsto. E sfuggito alla nostra imboscata ed è scomparso nel nulla. Lei ci aiuterà a scoprire dov’è finito.»

«Come?»

«Contattando il comando della Sigma. Abbiamo una linea codificata, impossibile da rintracciare. Lei interromperà il silenzio e scoprirà fino a che punto la Sigma conosce il progetto Sole Nero e dove si è nascosto Painter Crowe. Ma se solo tenta qualche trucco…» Baldric indicò lo schermo con un cenno del capo.

Gray capì il senso dell’aspra lezione che gli era stata impartita: volevano che capisse appieno che cosa c’era in gioco, stroncando qualsiasi tentativo di sotterfugio. Salvare Fiona o tradire la Sigma?

La decisione fu momentaneamente accantonata, quando una delle guardie ritornò con un’altra delle richieste di Gray.

«La mia mano!» esclamò Monk. Con le braccia ancora legate dietro la schiena, cominciò a dibattersi.

Baldric fece cenno alla guardia di proseguire. «Dai la protesi a mio nipote.»

Isaak intervenne, in olandese. «Il laboratorio ha tolto eventuali armi nascoste?»

« Ja, signore. È pulita.»

Isaak la esaminò comunque. Era una meraviglia tecnologica della DARPA, con un controllo diretto dei nervi periferici incorporato nei contatti al titanio, all’altezza del polso. Era dotata di meccanica avanzata e attuatori che consentivano movimenti e input sensoriali precisi.

Monk guardò con insistenza Gray, il quale notò che, con le dita della mano sinistra, l’amico aveva appena finito di digitare un codice sui contatti del moncherino del polso destro. Gray annuì e gli si avvicinò.

La protesi elettronica aveva un’altra caratteristica: la tecnologia wireless. Dal braccio di Monk partì un segnale radio diretto alla protesi. La protesi artificiale rispose contraendosi tra le mani di Isaak. Le dita si chiusero a pugno, tranne il medio, che restò sollevato.

«Vaffanculo», mormorò Monk.

Gray lo prese per un braccio e lo spinse verso la porta che conduceva all’interno del palazzo.

L’esplosione non fu molto forte: era soltanto una granata accecante, un po’ più brillante e rumorosa del solito. La carica era incorporata direttamente nell’involucro plastico esterno della mano, impossibile da individuare. Pur non essendo una grossa carica, fu una distrazione sufficiente. Le guardie proruppero in grida di sorpresa e di dolore.

Gray e Monk fecero irruzione nel palazzo, girarono un angolo e continuarono a correre sul pavimento in parquet lucido. Subito scattarono gli allarmi, assordanti. Dovevano trovare una via d’uscita al più presto.

Gray notò una scalinata che saliva a un livello superiore e guidò Monk in quella direzione.

«Dove stiamo andando?»

«Su…» rispose Gray, salendo due gradini alla volta. Probabilmente le guardie si aspettavano che cercassero di fuggire dalla prima porta o finestra disponibile, ma lui conosceva un’altra via d’uscita. Cercò di visualizzare la pianta del palazzo. Si era guardato attorno con attenzione, quando le guardie li avevano scortati fino alla serra. Si concentrò, confidando nel proprio senso dell’orientamento. «Da questa parte.»

Trascinò Monk da un pianerottolo a un altro corridoio. Erano al sesto piano.

«Dove…» fece per chiedere di nuovo Monk.

«In quota», rispose Gray, indicando la fine del corridoio, dove li aspettava una porta. «Al ponte sospeso tra gli alberi.»

Ma non sarebbe stato così facile. Come se qualcuno avesse origliato i loro piani, una saracinesca metallica interna cominciò a scendere davanti all’uscita. Una chiusura automatica.

«Presto!» gridò Gray.

La saracinesca era già chiusa per tre quarti. Gray accelerò, lasciando indietro Monk, poi prese al volo una sedia e la lanciò in avanti. La sedia atterrò sul parquet e cominciò a scivolare sulla superficie levigata. Gray la seguiva a breve distanza. La sedia andò a sbattere contro la porta e la discesa della saracinesca fu interrotta. Ci fu uno stridore di ingranaggi. Sopra la porta si accese una luce rossa. Gray era sicuro che da qualche parte nel palazzo, alla postazione della sicurezza, si era accesa una spia d’allarme.

Quando raggiunsero la porta, le gambe della sedia cominciavano a incrinarsi e scheggiarsi, schiacciate dal peso della saracinesca.

Monk arrivò ansimando, con le braccia ancora legate dietro la schiena.

Gray si chinò e, infilandosi sotto la sedia, cercò di raggiungere la maniglia della porta. Alla fine riuscì ad afferrare il pomo e lo girò.

La porta era chiusa a chiave.

«Dannazione!»

La sedia continuava a incrinarsi. Dietro di loro si sentiva l’eco degli scarponi che battevano pesantemente sui gradini delle scale.

Gray si voltò. «Tienimi!»

Doveva aprire la porta a calci. Appoggiato schiena contro schiena all’amico, raccolse le gambe al petto, pronto a colpire. Poi la porta gli si aprì semplicemente davanti, mostrando un paio di gambe avvolte da pantaloni mimetici kaki. Uno degli uomini di sentinella ai ponti doveva aver notato il guasto ed era andato a indagare. Gray puntò agli stinchi della guardia e scalciò.

Colto di sorpresa, l’uomo perse l’equilibrio e sbatté fragorosamente la testa contro la saracinesca, cadendo pesantemente sull’assito. Gray si tuffò fuori e sferrò un altro colpo col tallone. La sentinella si afflosciò.

Monk rotolò fuori, seguendo l’amico, ma non prima di aver dato un calcio alla sedia, liberando la saracinesca, che proseguì la sua discesa e si chiuse rumorosamente.

Gray alleggerì la guardia delle sue armi. Usò un coltello per slegare Monk e gli passò una pistola semiautomatica HK Mark 23, tenendo per sé il fucile.

Armi alla mano, fuggirono lungo il ponte sospeso. Nel punto in cui s’inoltrava nella giungla, c’era il primo bivio. Per il momento entrambe le direzioni erano sgombre.


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