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L'ordine del sole nero
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Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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Ma cosa?

Monk era ancora voltato indietro. Si girò e si risistemò sul sedile. Parlò a bassa voce. «Hai notato che abbiamo compagnia?»

Gray si limitò ad annuire.

A mezzo chilometro di distanza, risalendo lentamente i tornanti dietro di loro, un’auto li seguiva sotto la pioggia. La stessa che aveva già visto parcheggiata all’ostello. Una Mercedes bianca. Forse erano soltanto altri turisti che facevano un’escursione al castello.

Già, proprio.

«Forse non dovresti stargli così vicino, Isaak.»

«Ci hanno già visto, Ischke.» L’uomo indicò con un cenno del capo la BMW mezzo chilometro più avanti, oltre il parabrezza sferzato dalla pioggia. «Fai caso a come prende le curve: è più controllato, non le taglia come prima. Si è accorto di noi.»

«Ed è una cosa buona metterli in allarme?» Isaak piegò la testa verso la sorella. «La caccia è sempre migliore quando la preda è spaventata.»

«Non penso che Hans sarebbe d’accordo.» Lui le toccò il dorso della mano con un dito, segno che condivideva la sua tristezza e le chiedeva scusa. Sapeva quanto potesse essere sensibile. «Non ci sono altre strade per scendere dalla collina. Al castello tutto è pronto. Non dobbiamo fare altro che spingerli nella trappola. Se si voltano a guardare noi, è meno probabile che vedano ciò che hanno davanti.»

Lei inspirò a fondo, segno che aveva capito e che condivideva il piano.

«È ora di chiudere tutte queste faccende in sospeso. Poi potremo tornare a casa.»

«A casa…» gli fece eco lei, con un sospiro di contentezza.

«Abbiamo quasi finito. Non dobbiamo mai perdere di vista l’obiettivo, Ischke. Il sacrificio di Hans non sarà vano, il sangue che ha versato preannuncia la venuta di una nuova alba, di un mondo migliore.»

«Come dice il nonno.»

«E tu sai che è vero.» Piegò la testa verso di lei. Le labbra della donna si assottigliarono, in un sorriso stanco. «Attenta al sangue, Ischke.»

Sua sorella guardò la lunga lama d’acciaio del pugnale. Lo stava asciugando distrattamente con una pelle di camoscio bianca. Una goccia color cremisi aveva rischiato di cadere sui suoi pantaloni immacolati.

Una questione era chiusa. Ce n’erano ancora alcune da sistemare.

«Grazie, Isaak.»

Himalaya,

ore 13.22

Lisa fissava la pistola.

« Wer ist dort? Zeigen Sie sich!» gridò la donna bionda, rivolgendosi a lei.

Pur non parlando tedesco, Lisa capì il senso della frase. Lentamente, si fece vedere, con le mani alzate. «Non parlo tedesco.»

La donna la guardò con una concentrazione tale che a Lisa sembrò di sentirsi attraversare da un raggio laser. «Sei una degli americani… Scendi, lentamente.»

Senza nessun riparo, Lisa non aveva scelta. Raggiunse la scala, si voltò e cominciò a scendere. A ogni piolo si aspettava di sentire esplodere un colpo di pistola. Le s’irrigidirono le spalle. Ma arrivò a terra sana e salva.

Si voltò, tenendo sempre le braccia ben in vista.

L’altra avanzò verso di lei. Lisa indietreggiò, intuendo che il motivo per cui la donna non le aveva ancora sparato era perché voleva evitare di far sentire l’esplosione del colpo. Con la spada aveva eliminato le guardie senza fare rumore, a parte un unico, breve grido.

Aveva ancora la katana insanguinata nell’altra mano.

Forse Lisa sarebbe stata più al sicuro in cima alla balconata, costringendo la donna a spararle, come al tiro al bersaglio. Forse i colpi d’arma da fuoco avrebbero attirato l’attenzione di qualcuno. Era stata stupida ad avvicinarsi così tanto all’intrusa e alla sua spada. Ma il panico aveva offuscato le sue capacità di giudizio. Era difficile dire di no a qualcuno che ti puntava una pistola.

«Lo Xerum 525 è nella cassaforte?» chiese la donna.

Lisa ponderò la risposta per un istante. Dire la verità o mentire? Non le sembrò di avere molta scelta. «L’ha preso Anna», rispose, indicando vagamente la porta.

«Dove?»

Ricordò la lezione di Painter, dopo che erano stati catturati: essere necessari, essere utili. «Non conosco il castello abbastanza bene, ma so come arrivarci. Posso accompagnarla io.» Doveva essere più convincente. E cosa c’era di meglio che contrattare, come se la sua menzogna avesse un grande valore? «Ce la porterò soltanto se mi promette di aiutarmi a uscire di qui.»

Il nemico del mio nemico è mio amico.

Quella donna ci sarebbe cascata? Era di una bellezza sbalorditiva: figura slanciata, pelle perfetta, labbra generose, ma negli occhi blu glaciali brillavano freddo calcolo e intelligenza.

A Lisa faceva una paura assurda. Aveva un che di soprannaturale.

«Allora mi mostrerà la strada», disse la donna, rinfoderando la pistola, ma con la katana sempre in mano.

Lisa avrebbe preferito che facesse il contrario.

La spada indicò la porta.

Lisa doveva andare per prima. Si avvicinò alla porta, mantenendo una certa distanza. Forse avrebbe potuto tentare la fuga nei corridoi. Era la sua unica speranza. Doveva aspettare il momento buono: una distrazione, un’esitazione, e poi correre come il vento.

Uno spostamento d’aria, un fremito delle fiamme nel camino furono il suo unico avvertimento. Lisa si voltò e la donna era già lì, a un passo di distanza. L’aveva raggiunta da dietro, silenziosa e furtiva. Con una velocità impossibile. Si scambiarono uno sguardo. Fu un attimo. Prima che la spada si abbattesse su di lei, Lisa capì che la donna non le aveva creduto neanche per un istante.

Era stata soltanto una trappola per farle abbassare la guardia.

Sarebbe stato il suo ultimo errore.

Il mondo si fermò, catturato dal lampo di fine argento giapponese che puntava dritto al cuore di Lisa.

Wewelsburg, Germania

ore 09.18

Gray parcheggiò la BMW accanto a un pullman turistico blu, che così nascondeva la berlina dalla strada. L’arco da cui si accedeva al cortile del castello era esattamente lì di fronte.

«Rimanete in auto», ordinò Gray agli altri. Poi si voltò. «Anche tu, signorina.»

Fiona fece un gesto non proprio gentile, ma rimase seduta con la cintura allacciata.

«Monk, mettiti al volante e tieni il motore acceso.»

«Ricevuto.»

Ryan lo fissò con gli occhi sgranati. « Was ist los

«Non succede un bel niente», rispose Monk. «Ma tieni la testa bassa, non si sa mai.»

Quando aprì la portiera, Gray fu investito da un rovescio di pioggia battente, che suonava come una raffica di mitra contro il fianco del pullman. Un tuono rumoreggiò in lontananza.

«Ryan, posso prendere in prestito il tuo ombrello?»

Il giovane annuì e glielo passò.

Gray corse dall’altra parte del pullman e si accostò alla portiera posteriore. Sperava di sembrare un accompagnatore turistico. Si faceva scudo con l’ombrello, mentre guardava la strada.

Dalla penombra comparvero i fari di un’auto che percorreva l’ultimo tornante. Dopo un attimo sbucò la Mercedes, che raggiunse il parcheggio e, senza rallentare, passò oltre. Gray guardò le luci posteriori allontanarsi nella pioggia, mentre si dirigevano verso il piccolo villaggio di Wewelsburg, abbarbicato a fianco del castello. Infine l’auto scomparve dietro una curva.

Gray aspettò cinque minuti, poi girò attorno al pullman e diede il via libera a Monk, che spense il motore. Ormai convinto che la Mercedes non sarebbe ritornata, Gray fece cenno agli altri di uscire.

«Siamo un tantino paranoici, eh?» commentò Fiona, mentre gli passava accanto, diretta verso l’arco.

«Non è paranoia se qualcuno ti sta addosso sul serio», replicò Monk. Poi chiese a Gray: «Ci stanno davvero addosso?»

Gray fissava il cielo tumultuoso. Non gli piacevano le coincidenze, ma non poteva fermarsi soltanto perché era spaventato. «Non perdere di vista Fiona e Ryan. Parliamo con questo direttore, ci facciamo dare una copia della lettera del vecchio Hugo alla figlia e ce ne andiamo fuori dalle scatole.»

Monk guardò la gigantesca massa di torri e torrette. La pioggia si riversava copiosa sulla pietra grigia e colava dalle grondaie verdi. Soltanto alcune delle finestre ai piani inferiori erano illuminate di segni di vita. Il resto del castello era scuro e opprimente.

«Tanto per mettere le cose in chiaro: se vedo un fottuto pipistrello nero, io taglio la corda.»

Himalaya,

ore 13.31

Lisa fissava la spada abbattersi contro il suo petto. Successe tutto in un istante. Il tempo rallentò. Dunque era così che sarebbe morta.

Poi un tintinnio di vetri infranse il silenzio, seguito dal colpo smorzato di un’arma da fuoco, che sembrò incredibilmente lontano. Dalla gola dell’assassina sgorgò un getto di sangue, mentre la testa si ribaltava all’indietro.

Tuttavia il colpo sferrato dalla donna completò il suo arco. La spada colpì Lisa, lacerò la pelle e si scontrò con lo sterno. Ma non c’era forza: dita ormai inerti rilasciarono l’elsa della katana.

Lisa arretrò incespicando, liberata dall’incantesimo.

La lama giapponese fece una piroetta e finì sul pavimento, producendo il suono di una campana perfettamente accordata. Il corpo dell’assassina la seguì a breve distanza, con un pesante tonfo.

Lisa era incredula, tramortita, insensibile.

Ancora il rumore di vetri infranti.

Poi parole, che la raggiunsero come sott’acqua.

«Stai bene? Lisa…»

Alzò lo sguardo verso l’altro lato della biblioteca. L’unica finestra, smerigliata e colorata, era stata frantumata dal calcio di un fucile. Nell’apertura, incorniciato da schegge di vetro, comparve un volto.

Painter.

Alle sue spalle imperversava una tormenta, un turbine di neve e ghiaccio sciolto. Qualcosa di grosso, pesante e scuro scese dal cielo: un elicottero, dal quale pendevano una corda e un’imbracatura.

Tremando, Lisa cadde in ginocchio.

«Saremo subito da te», le promise lui.

Cinque minuti dopo, Painter e Anna erano accanto al corpo dell’assassina. Lisa era seduta accanto al fuoco. Si era tolta il maglione e aveva aperto la camicetta, scoprendo il reggiseno e un taglio poco più in basso. Assistita da Gunther, Lisa aveva già pulito la ferita e stava applicando una serie di bende per sigillare lo squarcio, lungo qualche centimetro. Era stata fortunata. Il ferretto del reggiseno aveva impedito alla lama di penetrare più a fondo, salvandole la vita.

«Niente documenti d’identità», disse Anna, voltandosi verso Painter e guardandolo male. «Ci serviva viva.»

Lui non aveva scuse. «Ho mirato alla spalla.» Scosse la testa, frustrato. Un debilitante attacco di vertigini l’aveva paralizzato dopo la discesa con l’imbracatura. Ma non avevano neanche un istante da perdere, erano arrivati appena in tempo dall’altro versante della montagna. Non ce l’avrebbero mai fatta attraversando il castello a piedi. L’elicottero era la loro unica speranza: scavalcare la spalla della montagna e calare qualcuno con un’imbracatura.

Anna non era una buona tiratrice e Gunther stava pilotando l’elicottero. Rimaneva soltanto Painter.

Perciò, sebbene avesse le vertigini e ci vedesse doppio, l’americano aveva mirato il meglio possibile attraverso la finestra. Aveva dovuto agire rapidamente, accorgendosi che la donna stava per uccidere Lisa. Perciò aveva premuto il grilletto.

Anche se forse avrebbero perso qualsiasi possibilità di scoprire il vero burattinaio che manipolava i sabotatori, Painter non si pentì della sua scelta. Aveva visto l’orrore nel viso di Lisa. Al diavolo le vertigini: aveva sparato. La testa gli pulsava ancora dal dolore.

Emerse una nuova paura. E se avesse colpito Lisa? Quanto gli rimaneva prima di diventare una palla al piede anziché una risorsa? Scacciò quel pensiero.

Smettila di torcerti le mani e rimboccati le maniche.

«Segni particolari?» chiese Painter.

«Soltanto questo.» Anna voltò il polso della donna, mostrando il dorso della mano. «Lo riconosce?»

Un tatuaggio nero segnava la pelle bianca e perfetta. Quattro asole intrecciate. «Si direbbe un simbolo celtico, ma non mi dice nulla.»

«Nemmeno a me», disse Anna, lasciando cadere la mano del cadavere.

Painter notò qualcos’altro e si avvicinò, inginocchiandosi. Voltò di nuovo la mano dell’assassina, che era ancora calda. Mancava l’unghia del mignolo, al suo posto c’era una cicatrice. Una piccola, ma significativa imperfezione.

Anna prese la mano e sfregò il letto dell’unghia. «Asciutto…»

«Significa ciò che penso io?» domandò Painter.

Anna guardò la faccia della donna. «Per esserne certa, dovrei fare una scansione della retina per cercare tracce di emorragie attorno al nervo ottico.»

Painter non aveva bisogno di altre prove. Aveva visto con quale velocità l’assassina aveva attraversato la stanza. «È una Sonnenkönige.»

Lisa e Gunther li raggiunsero.

«Non una dei nostri», replicò Anna. «È troppo giovane, troppo perfetta. Chiunque l’abbia creata ha usato le nostre tecniche più recenti, quelle che abbiamo affinato negli ultimi decenni, grazie agli studi in vitro. Qualcuno è passato alle applicazioni sui soggetti umani.»

«È possibile che qualcuno li abbia creati qui, a vostra insaputa?»

Anna scosse la testa. «Ci vogliono quantità enormi di energia per attivare la Campana, ce ne saremmo accorti.»

«Allora può significare una sola cosa.»

«È stata creata da qualche altra parte.» Anna si alzò. «Qualcun altro ha una Campana funzionante.»

Painter rimase dov’era, continuando a esaminare l’unghia e il tatuaggio. «E quel qualcuno ha intenzione di farvi chiudere.»

Calò il silenzio nella stanza.

In quella quiete, Painter sentì un bipappena udibile. Proveniva dalla donna. Si rese conto di averlo già sentito diverse volte, ma in mezzo a tutto quel trambusto e a tutte quelle speculazioni non ci aveva fatto caso.

Sollevò la manica del parka dell’assassina. Al polso portava un orologio digitale con un cinturino di pelle largo cinque centimetri. Painter studiò il quadrante rosso. Una lancetta olografica segnava i secondi e sul display c’era una scritta luminescente: 01:32.

A ogni giro della lancetta veniva sottratto un secondo.

Rimaneva poco più di un minuto.

Painter slacciò l’orologio e controllò l’interno del cinturino. C’erano due contatti d’argento: monitoravano il battito cardiaco. E da qualche parte, all’interno dell’orologio, doveva esserci una microtrasmittente.

«Che sta facendo?» chiese Anna.

«L’avete perquisita per vedere se aveva esplosivi?»

«È pulita», rispose Anna. «Perché?»

«Quando il cuore ha smesso di battere, deve essere stato inviato un impulso radio.» Diede un’occhiata all’orologio che aveva in mano. «Questo è soltanto un timer.»

Lo mostrò agli altri.

01:05

«Klaus e questa donna avevano pieno accesso alle vostre strutture e sicuramente il tempo necessario per mettere a punto un sistema infallibile.» Painter sollevò l’orologio. «Qualcosa mi dice che non dovremmo trovarci qui quando arriverà a zero.»

La lancetta dei secondi continuava a girare e si sentì un tenue bipquando il conto alla rovescia scese sotto il minuto.

0:59

«Dobbiamo andarcene. Adesso!»

10. LA CAMELOT NERA

Wewelsburg, Germania,

ore 09.32

«In origine le SS erano le guardie del corpo personali di Hitler», spiegò la guida in francese, accompagnando un gruppo di turisti nel cuore del museo di Wewelsburg. «In effetti, il termine SS deriva dalla parola tedesca Schutzstaffel, che significa ‘distaccamento di guardie’. Solo in seguito divenne l’Ordine Nero di Himmler.»

Gray si fece da parte per lasciar passare il gruppo. Mentre aspettava il direttore del museo, aveva origliato a sufficienza per farsi un’idea della storia del castello: di come Himmler lo aveva affittato per un solo Reichsmark, spendendo poi un quarto di miliardo per ricostruirlo e trasformarlo nella sua personale Camelot. Un prezzo minimo rispetto al costo in termini di vite umane e sofferenza.

Gray era accanto a una vetrina contenente un’uniforme del campo di concentramento di Niederhagen. Fuori ci fu un rombo di tuono, che fece tremare le antiche finestre.

Mentre il gruppo di turisti si allontanava, la voce della guida si confuse alle chiacchiere dei pochi altri visitatori, tutti in cerca di un riparo dal temporale.

Monk era accanto a Fiona. Ryan era andato a chiamare il direttore. Monk si chinò per esaminare uno degli abominevoli Totenkopf Ringin mostra, gli anelli d’argento conferiti agli ufficiali delle SS. Vi erano incisi un teschio con le ossa incrociate e rune.

Nella piccola sala erano esposti anche altri oggetti: modellini, fotografie con scene di vita quotidiana, accessori delle SS, oltre a una piccola e strana teiera appartenuta a Himmler, decorata con una runa a forma di sole.

«Ecco il direttore.» Monk indicò con un cenno del capo un signore tarchiato, accompagnato da Ryan.

L’uomo dimostrava quasi sessant’anni, aveva i capelli brizzolati e portava un abito nero stropicciato. Mentre si avvicinava, si tolse un paio di occhiali da vista e allungò l’altra mano verso Gray. «Dottor Dieter Ulmstrom, direttore dello Historisches Museum des Hochstifts Paderborn. Willkommen.» L’espressione tormentata dell’uomo contraddiceva quel benvenuto. «Il nostro giovane Ryan mi ha spiegato che siete venuti a fare ricerche su alcune rune trovate in un libro antico. Davvero affascinante.»

Ancora una volta, sembrava più seccato che affascinato.

«Non la tratterremo a lungo», disse Gray. «Ci chiedevamo se ci potesse aiutare a identificare una particolare runa e il suo significato.»

«Certamente. Se c’è una cosa che il direttore del museo di Wewelsburg deve conoscere a menadito è la scienza delle rune.»

Gray fece cenno a Fiona di passargli la Bibbia di Darwin. Aprendo la copertina posteriore, Gray porse il libro all’uomo. Il dottor Ulmstrom si rimise gli occhiali e studiò la runa apposta a mano da Hugo Hirszfeld sulla terza di copertina.


«Posso esaminare il libro?»

Dopo una breve esitazione, Gray acconsentì.

Il direttore sfogliò rapidamente le pagine, soffermandosi su alcuni degli scarabocchi. «Una Bibbia… che strano…»

«Il simbolo in fondo», lo incalzò Gray.

«Naturalmente. È la Menschrune.»

« Mensch», disse Gray. «Come ‘umanità’ in tedesco.»

« Ja.Noti la forma: una figura stilizzata senza testa.» Il direttore sfogliò le pagine all’indietro. «Il bisnonno di Ryan sembrava davvero fissato sui simboli associati al Padre di tutte le cose.»

«Che cosa intende?»

Ulmstrom indicò uno degli scarabocchi sulle pagine interne della Bibbia.


«Questa è la runa corrispondente alla K, detta anche cenin lingua anglosassone. È una runa antica che rappresentava l’uomo in modo rudimentale, con due sole braccia alzate. E qua c’è l’immagine speculare della stessa runa.» Sfogliò alcune pagine e indicò un altro simbolo.


«I due simboli sono come due facce della stessa medaglia. Yin e yang, maschio e femmina, luce e oscurità.»

Gray ricordava le sue conversazioni con Ang Gelu, il monaco buddista, il quale sottolineava che tutte le società sembravano ossessionate da quel dualismo. Quei pensieri stuzzicarono la sua preoccupazione per Painter Crowe. Non c’erano ancora notizie dal Nepal.

Monk rimise in carreggiata la conversazione. «Cosa c’entrano queste rune con quel tìzio, il Padre delle cose?»

«Sono tutti e tre collegati, simbolicamente. Molti ritengono che la grande runa, la Menschrune, rappresenti il dio Thor, portatore di vita e di uno stato più elevato dell’essere, ciò che tutti noi aspiriamo a divenire.»

«E queste due rune precedenti, le rune K, formano le due metà della Menschrune», osservò Gray.

«Eh?» grugnì Monk.

«Così», disse Fiona, che aveva capito. Con un dito tracciò un disegno nella polvere, sul ripiano di una vetrina. «Metti assieme le rune con due braccia per formare la Menschrune, come in un puzzle.»


« Sehr gut», disse il direttore, indicando con un dito le prime due rune. «Queste rappresentano l’uomo comune, incompleto, che si unisce per formare il Padre di tutte le cose, un essere supremo.» Ulmstrom restituì la Bibbia a Gray e scosse la testa. «Sembra proprio che queste rune fossero diventate un’ossessione per il bisnonno di Ryan.»

Gray fissava il simbolo sulla terza di copertina. «Ryan, il tuo bisnonno era un biologo, giusto?»

Il ragazzo sembrava nervoso e spaventato da tutto ciò. «Sì, come zia Tola.»

Gray sapeva che i nazisti erano sempre stati affascinati dal mito del superuomo, il Padre di tutte le cose dal quale presumevano che discendesse la razza ariana. Tutti quegli scarabocchi erano forse soltanto la dichiarazione della fede di Hugo in quel dogma nazista? Gray credeva di no. Ricordava come Ryan aveva descritto gli appunti del bisnonno, la crescente disillusione dello scienziato e poi il biglietto scritto alla figlia, l’accenno a un segreto, una verità troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata.

Da un biologo a un’altra biologa.

Gray intuiva che tutto era collegato: le rune, il Padre di tutte le cose, una ricerca abbandonata da tempo… Qualunque fosse il segreto, sembrava che qualcuno fosse disposto a uccidere per proteggerlo.

Ulmstrom continuò: «La Menschrunerivestiva particolare interesse anche per i nazisti, che la ribattezzarono Lebensrune».

«La runa della vita?» chiese Gray, tornando a concentrarsi sul presente.

«Esatto. La usarono persino per rappresentare il programma Lebensborn.»

«E che cos’è?» chiese Monk.

Fu Gray a rispondergli. «Un programma nazista per la riproduzione: vivai per generare bambini biondi e con gli occhi azzurri.»

Il direttore annuì. «Ma, come per il dualismo della runa K, anche la Lebensruneha la sua immagine speculare.» Fece cenno a Gray di rovesciare la Bibbia, capovolgendo il simbolo. «Alla rovescia, la Lebensrunediventa il suo contrario: la Totenrune.»

Monk guardò perplesso Gray, che tradusse: «La runa della morte».

Himalaya,

ore 13.31

La morte si avvicinava, secondo dopo secondo.

0:55

Painter si alzò con in mano il timer da polso dell’assassina. «Non c’è tempo per andarsene a piedi. Non usciremmo mai dall’area dell’esplosione.»

«E quindi?» chiese Anna.

«L’elicottero», disse Painter, indicando la finestra. L’A-Star che avevano usato per arrivare lì era ancora fermo fuori dal castello, col motore acceso.

«Devo avvertire gli altri», affermò Anna, dirigendosi al telefono.

« Keine Zeit», abbaiò Gunther, fermandola. L’uomo prese il suo fucile d’assalto, un Bullpup A-91 russo. Con l’altra mano tirò fuori una cartuccia a granata dalla cintura e la caricò nel lanciarazzi da 40mm del fucile. « Hier!» Si diresse a grandi passi alla massiccia scrivania di Anna. « Schnell!»

Col braccio disteso, puntò il fucile verso la finestra sprangata della stanza.

Painter prese Lisa per mano e corse a ripararsi. Anna li seguì. Gunther fece fuoco e dall’arma esplose un getto di gas.

Si gettarono tutti dietro la scrivania.

Gunther prese sua sorella per la vita e la fece rotolare sotto di sé. La granata scoppiò con una detonazione assordante. L’onda d’urto spostò la scrivania di almeno trenta centimetri, mentre la parte anteriore fu tempestata di frammenti di pietra e vetro. I quattro furono sommersi dalla polvere e dal fumo.

Non sprecarono tempo. L’esplosione aveva aperto un varco nella parete della biblioteca. Brandelli incendiati di libri erano sparsi sul pavimento e fuori, nel cortile.

Corsero verso l’uscita.

L’elicottero era posato oltre l’aggetto di roccia, ad almeno quaranta metri.

Painter aveva ancora in mano il timer. Non lo guardò finché non raggiunsero l’elicottero. Gunther ci era arrivato per primo e aveva aperto il portellone posteriore. Painter aiutò Anna e Lisa, poi saltò su.

Gunther era già sul seggiolino del pilota, con le cinture allacciate. Painter diede un’occhiata al timer. Non che servisse a qualcosa: o ce la facevano oppure no.

Fissò il numero. Aveva un dolore martellante alla testa e fitte lancinanti agli occhi. Riusciva a malapena a leggere le cifre sul display.

00:09

Non c’era più tempo.

I rotori cominciarono a girare… lentamente, troppo lentamente. Painter diede un’occhiata dal finestrino. L’elicottero era abbarbicato in cima a un pendio innevato, un promontorio appena creato dall’ultima tormenta notturna. Il cielo era striato di nuvole e una nebbia ghiacciata avvolgeva le cime e le valli.

Sul sedile anteriore, Gunther imprecò sottovoce. Il velivolo si rifiutava di salire nell’aria rarefatta: bisognava spingere i rotori al massimo.

00:03

Non ce l’avrebbero mai fatta.

Painter prese la mano di Lisa e la strinse forte. Poi, d’un tratto, il mondo si sollevò e ripiombò giù fragorosamente. Un sordo rimbombo risuonò in lontananza. Trattennero tutti il fiato, pronti a essere sbalzati dalla montagna. Ma non successe nient’altro. Forse non sarebbe stato così terribile, dopotutto.

Poi il promontorio su cui erano appoggiati si staccò. L’A-Star precipitò col muso all’ingiù. I rotori giravano inutilmente. L’intero pendio nevoso si staccò in un blocco unico, scivolando via, come se la montagna se lo stesse scrollando di dosso.

Erano diretti verso il margine del precipizio. La neve scorreva come un torrente impetuoso.

La terra sussultò nuovamente: un’altra esplosione…

L’elicottero s’impennò, ma continuava a rifiutarsi di prendere quota.

Gunther lottava coi comandi, stritolando l’acceleratore.

La parete di roccia correva verso di loro. La massa di neve in movimento era rumorosa come le cascate del Niagara, più forte del rombo dell’elicottero.

Lisa si schiacciò contro Painter, stringendogli la mano così forte da farsi venire le nocche bianche. Accanto a lei, Anna era seduta dritta come un fuso, con un’espressione vacua e lo sguardo fisso.

Gunther piombò in un silenzio mortale, mentre venivano trascinati oltre l’orlo del precipizio.

Si rovesciarono di lato, con la neve che cadeva sotto e dietro di loro. Mentre precipitava veloce, il velivolo si dimenava nervosamente, s’imbardava avanti e indietro. Costoni di roccia spuntavano in tutte le direzioni.

Nessuno proferì parola. I rotori urlavano al loro posto.

Poi, improvvisamente, l’elicottero cominciò a prendere quota. Senza grossi strattoni, come un ascensore che si ferma al piano, l’A-Star si stabilizzò e, piano piano, cominciò a risalire.

Davanti a loro, il resto della valanga rotolava giù dallo strapiombo.

L’elicottero si alzò abbastanza da consentire un esame dei danni subiti dal castello. Da tutte le finestre sulla facciata usciva fumo. Le porte erano saltate via. Oltre la spalla della montagna, una densa colonna nera si sollevava in cielo, proveniente dalla piattaforma di atterraggio.

Anna si accasciò, coi palmi delle mani sul finestrino. «Quasi centocinquanta tra uomini e donne.»

«Magari alcuni sono scappati», osservò Lisa, apatica, impassibile.

Non videro nessun movimento.

Soltanto fumo.

Anna indicò il castello. « Wir sollten suchen…»

Ma non ci sarebbe stato nessun salvataggio.

Mai.

Un lampo bianco proruppe da tutte le finestre. Oltre la cresta ci fu un’alba artificiale, silenziosa, come un fulmine senza tuono che s’impresse sulla retina, oscurando completamente la vista.

Accecato, Painter sentì che l’elicottero s’impennava, mentre Gunther tirava violentemente il collettivo. Sopraggiunse un rombo e un assordante stridere di rocce. Non era soltanto una valanga, sembrava un movimento tettonico.

Sospeso in aria, l’elicottero vibrava come una mosca in un miscelatore.

La vista ritornò dolorosamente.

Painter si schiacciò contro il finestrino e guardò giù. «Mio Dio…»

La visuale era in gran parte bloccata dalla polvere, che non poteva però nascondere la portata della devastazione. Un intero versante della cresta si era affossato. La spalla di granito che sporgeva sopra il castello era crollata, come se tutto ciò che c’era sotto di essa, il castello e una buona porzione della montagna, fosse semplicemente svanito.

« Unmöglich!» borbottò Anna, esterrefatta.

«Cosa?»

«Questa distruzione… Dev’essere una bomba ZPE.»

Painter aspettò che proseguisse.

Lei fece un altro respiro tremante, poi spiegò: «Zero Point Energy. Le formule di Einstein portarono alla prima bomba nucleare, attingendo alle energie di alcuni atomi di uranio. Ma ciò non è niente in confronto al potenziale nascosto nelle teorie dei quanti di Planck. Bombe di quel genere attingerebbero alle energie generate durante il big bang».

Nell’abitacolo piombò il silenzio.

Anna scosse la testa. «Gli esperimenti condotti col combustibile della Campana, lo Xerum 525, suggerivano un possibile utilizzo dell’energia del punto zero come arma. Ma noi non abbiamo mai perseguito seriamente quella strada.»

«Qualcun altro sì, però», replicò Painter, ripensando alla donna dai capelli di ghiaccio.

Anna si voltò verso di lui, col volto scolpito dall’orrore e dall’indignazione. «Dobbiamo fermarli.»

«Ma chi? Chi sono?»

«Penso che stiamo per scoprirlo», intervenne Lisa, indicando qualcosa fuori dal finestrino. Oltre la cima della montagna era comparso un trio di elicotteri bianchi, che si mimetizzavano con le vette ghiacciate. Si distanziarono tra loro e puntarono l’A-Star.

Painter sapeva perfettamente che quella era una formazione d’attacco.

Wewelsburg, Germania,

ore 09.32

«La torre nord è da questa parte», disse il dottor Ulmstrom.

Il direttore del museo condusse Gray, Monk e Fiona oltre la porta sul retro del salone principale. Ryan si era allontanato un istante prima assieme a una donna snella con un abito di tweed, un’archivista del museo. Erano andati a fotocopiare la lettera di Hugo Hirszfeld e qualsiasi altra cosa che avesse a che fare con le ricerche del suo bisnonno.

Gray intuiva che era sul punto di avere qualche risposta, ma necessitava di altre informazioni. A quello scopo, aveva acconsentito al tour privato del castello di Himmler proposto dal direttore. Era in quel luogo che Hugo aveva avviato il suo legame coi nazisti. Gray intuiva che per fare un passo avanti doveva raccogliere tutte le informazioni possibili sul contesto storico e culturale: e chi, meglio del curatore del museo, poteva fornirgliele?

«Per capire davvero i nazisti», esordì Ulmstrom, facendo strada, «bisogna smettere di considerarli un partito politico. Si definivano Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il partito dei lavoratori nazionalsocialisti tedeschi, ma in realtà erano un culto.»

«Un culto?» chiese Gray.

«Ne avevano tutte le caratteristiche. Un leader spirituale che non poteva essere messo in discussione, discepoli vestiti allo stesso modo, rituali e giuramenti di sangue svolti in segreto e, cosa più importante, la creazione di un potente totem da adorare: la Hakenkreuz, la croce spezzata, detta anche svastica. Un simbolo che doveva soppiantare il crocifisso e la stella di David.»

«Hari krishna strafatti di steroidi», borbottò Monk.


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