Текст книги "L'ordine del sole nero"
Автор книги: James Rollins
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Триллеры
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3. UKUFA
Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,
Zululand, Sudafrica,
ore 10.20
A novemila chilometri di distanza da Copenhagen, dall’altra parte del mondo, una Jeep scoperta avanzava faticosamente su un terreno accidentato, in un’area selvaggia del Sudafrica, dove non c’erano strade.
Il caldo opprimente attanagliava già la savana e creava miraggi scintillanti. Nello specchietto retrovisore, le pianure cuocevano brillanti sotto il sole, interrotte da macchie di arbusti spinosi e cespugli isolati di salice rosso. Più avanti sorgeva una collinetta bassa, costellata di fitte acacie nodose e scheletrici alberi di monzo.
«È questo il posto, dottoressa?» chiese Khamisi Taylor, sterzando per superare il letto di un ruscello asciutto, mentre la Jeep sollevava una nuvola di polvere che sembrava una coda di gallo. Diede un’occhiata alla donna seduta accanto a lui.
La dottoressa Marcia Fairfield stava quasi in piedi al posto del passeggero, una mano stretta al bordo del parabrezza per tenersi in equilibrio. Indicò con l’altra mano. «Andiamo verso ovest, c’è un avvallamento profondo.»
Khamisi scalò le marce e scartò a destra. In quanto guardacaccia in servizio alla riserva di Hluhluwe-Umfolozi, doveva seguire il protocollo. Il bracconaggio era un reato grave, ma anche una realtà. Soprattutto nelle aree più remote del parco.
Anche la sua gente, anche i membri della tribù zulù, a volte seguivano le pratiche tradizionali. Gli toccava multare pure i vecchi amici di suo nonno. Gli anziani gli avevano dato un soprannome, un termine zulù che si traduceva più o meno come «Fat Boy». Lo dicevano senza deriderlo apertamente, ma Khamisi sapeva che sotto sotto c’era comunque una vena di disprezzo. Non lo stimavano granché, perché aveva accettato un lavoro da uomo bianco e si arricchiva alle spalle degli altri. In più era ancora una specie di estraneo da quelle parti. Il padre lo aveva portato in Australia a dodici anni, dopo la morte della madre. Aveva trascorso gran parte della sua vita nei pressi della città di Darwin, sulla costa settentrionale dell’Australia, e aveva anche fatto due anni di università nel Queensland. Era appena ritornato, a ventotto anni, dopo essersi assicurato un posto di lavoro come guardacaccia, sia grazie alla sua istruzione sia grazie ai suoi legami con le tribù locali.
Arricchirsi alle spalle degli altri.
«Non puoi andare più forte?» incalzò la sua passeggera.
La dottoressa Marcia Fairfield era un’anziana biologa di Cambridge, molto rispettata, membro del progetto originale Operation Rhino, spesso definita la Jane Goodall dei rinoceronti. A Khamisi piaceva lavorare con lei. Forse era solo perché non era pretenziosa, a cominciare dalla giacca da safari, di un kaki sbiadito, fino ai capelli grigio-argento, raccolti in una semplice coda di cavallo.
O forse era la sua passione, come in quel momento.
«Se la femmina è morta partorendo, il piccolo potrebbe essere ancora vivo. Ma per quanto ancora?» Batté un pugno sul bordo del parabrezza. «Non possiamo perdere entrambi.»
Khamisi comprendeva perfettamente la sua irritazione. Dal 1970 la popolazione di rinoceronti neri era diminuita del novantasei percento in Africa. La riserva di Hluhluwe-Umfolozi cercava di porvi rimedio, come aveva fatto per i rinoceronti bianchi. Era lo sforzo di conservazione principale del parco.
Ogni rinoceronte nero era importante.
«L’abbiamo trovata con l’elicottero solo perché ha un rilevatore impiantato nel corpo», proseguì la dottoressa Fairfield. «Ma se ha già partorito non ci sarà modo di trovare il piccolo.»
«Non pensa che resterà vicino alla madre?» chiese Khamisi. Era stato testimone di un episodio simile. Due anni prima, due cuccioli di leone erano stati ritrovati rannicchiati contro la pancia fredda della madre, abbattuta da un bracconiere sportivo.
«Sai qual è il destino degli orfani. I predatori saranno attratti dalla carcassa. Se il piccolo è ancora nei paraggi, insanguinato com’è dopo il parto…»
Khamisi annuì. Pigiò l’acceleratore, facendo sobbalzare la Jeep, su per il pendio roccioso. Sbandava di coda sulla ghiaia, ma lui andò avanti.
Superata la collina, il terreno si apriva in profonde gole solcate da ruscelli sottili. La vegetazione s’infoltiva: sicomori, trichilia emetica e xanthocercis. Era una delle poche aree umide del parco, anche una delle più remote, ben distante dalle solite piste dei cacciatori e dalle strade turistiche. Esclusivamente chi aveva un permesso poteva attraversare quella zona, sottostando a severe limitazioni: soltanto nelle ore diurne e senza poter pernottare. Il territorio si estendeva sino al confine occidentale del parco.
Khamisi scrutò l’orizzonte, mentre faceva scendere piano la Jeep dal pendio. A un chilometro e mezzo di distanza, il terreno era attraversato da un tratto di recinzione nera, alta tre metri, che divideva il parco da un’adiacente riserva privata. Spesso tali riserve condividevano i confini con un parco, offrendo ai turisti più ricchi un’esperienza più esclusiva. Ma quella non era una riserva privata normale.
Il parco di Hluhluwe-Umfolozi era stato fondato nel 1895 ed era la più antica riserva di tutta l’Africa. Quella confinante era la più antica riserva privata. Non solo, era ancora più antica del parco e apparteneva a una celebre dinastia del Sudafrica, il clan dei Waalenberg, una delle famiglie boere originarie, le cui prime generazioni risalivano al XVII secolo. La loro riserva era grande come un quarto del parco. Si diceva che pullulasse di animali selvatici. Non soltanto «i cinque grandi» – elefante, rinoceronte, leopardo, leone e bufalo cafro —, ma anche predatori e prede di ogni specie: coccodrillo del Nilo, ippopotamo, ghepardo, iena, gnu, sciacallo, giraffa, zebra, antilope d’acqua, cudù, impala, antilope reedbuck, facocero, babbuino. Si diceva che la riserva Waalenberg avesse inconsapevolmente dato protezione a un branco del raro okapi, ben prima che quel parente della giraffa fosse scoperto, nel 1901.
Ma c’erano sempre voci e storie legate alla riserva Waalenberg. Il parco era accessibile soltanto in elicottero o con un piccolo aeroplano. Le strade che un tempo vi conducevano erano state ormai riconquistate dalla natura. Gli unici visitatori, peraltro occasionali, erano importanti dignitari di ogni parte del mondo. Si diceva che Teddy Roosevelt vi fosse andato a caccia e persino che avesse modellato il sistema dei parchi nazionali degli Stati Uniti sulla riserva Waalenberg.
Khamisi avrebbe dato un occhio per trascorrervi una giornata. Ma quell’onore era riservato al capo guardacaccia di Hluhluwe. Un giro nella proprietà dei Waalenberg era uno dei vantaggi che si acquisivano rivestendo quell’incarico; e comunque richiedeva la firma di una dichiarazione di segretezza. Khamisi sperava di raggiungere quella vetta, un giorno.
Però non si faceva troppe illusioni.
Non con la sua pelle nera.
La sua origine zulù e la sua istruzione lo avevano aiutato a ottenere quel lavoro, ma anche dopo l’apartheid c’erano comunque dei limiti. Le tradizioni sono dure a morire, sia per i neri sia per i bianchi. Tuttavia, la sua posizione apriva un varco. Una delle tristi eredità dell’apartheid era che un’intera generazione di bambini della tribù era cresciuta con istruzione scarsa o nulla, subendo gli anni delle sanzioni, della segregazione e dei disordini. Una generazione perduta. Perciò lui faceva tutto ciò che era in suo potere: aprire qualche porta e tenerla aperta per chi sarebbe venuto dopo di lui.
Che lo chiamassero pure Fat Boy, se serviva a qualcosa.
Nel frattempo…
«Ecco!» gridò la dottoressa Fairfield, facendo trasalire Khamisi e riportando la sua attenzione al tormentoso viaggio in fuoristrada. «Gira a sinistra, attorno a quel baobab, ai piedi della collina.»
Khamisi vide il gigantesco albero preistorico. Grandi fiori bianchi ricadevano tristi dalle estremità dei suoi rami. Alla sua sinistra, il terreno scompariva alla vista, digradando in una sorta di anfiteatro naturale. Khamisi vide il luccichio di uno specchio d’acqua, verso il fondo.
Un abbeveratoio.
Sorgenti di quel tipo costellavano il parco, alcune naturali, alcune artificiali. Erano i luoghi migliori per intravedere qualche animale selvatico e anche i più pericolosi da attraversare a piedi.
Khamisi fermò il fuoristrada accanto all’albero. «Da qui in poi dovremo camminare.»
La dottoressa Fairfield annuì. Entrambi presero i fucili. Sebbene fossero ambientalisti, erano anche ben consapevoli degli onnipresenti pericoli del veldt.
Scendendo dall’auto, Khamisi si mise in spalla la sua doppietta di grosso calibro, una Nitro Holland Holland Royal 465, che poteva fermare la carica di un elefante. Nella boscaglia fitta, la preferiva a qualsiasi fucile a otturatore.
S’incamminarono giù per il pendio costellato di arbusti spinosi. Davanti a loro, le chiome delle piante più alte li proteggevano dal sole, ma creavano anche ombre profonde. Mentre avanzava, Khamisi notò il pesante silenzio. Niente canto di uccelli, niente chiacchiericcio di scimmie. Soltanto il ronzio degli insetti. Quel silenzio lo faceva rabbrividire.
Accanto a lui, la dottoressa Fairfield controllava un rilevatore GPS portatile. Indicò un punto.
Khamisi si diresse da quella parte, evitando la pozza fangosa. Mentre incedeva cauto tra alcune canne, veniva guidato dal crescente fetore di carne putrescente. Non gli ci volle molto per immergersi in un folto di cespugli molto fitto e scoprirne la fonte.
Quella femmina di rinoceronte nero doveva pesare sui milletrecento chili, chilo più chilo meno. Un esemplare di taglia mostruosa.
«Buon Dio», esclamò la dottoressa Fairfield, premendosi un fazzoletto sul naso e sulla bocca. «Quando Roberto mi ha indicato i resti dall’elicottero…»
«È sempre peggio quando si è sul campo», commentò Khamisi.
Avanzò fino alla carcassa gonfia. Era riversa sul fianco sinistro. Al loro avvicinarsi, si sollevò una nuvola nera di mosche. L’addome era stato squarciato, gli intestini fuoriuscivano, gonfi di gas. Sembrava impossibile che tutta quella roba avesse mai trovato posto nell’addome. Altri organi erano distesi a terra. Una scia di sangue segnava il percorso di qualche leccornia, trascinata nel folto dei cespugli circostanti.
Le mosche si posarono nuovamente.
Khamisi scavalcò un pezzo di fegato rosicchiato. La zampa posteriore sembrava quasi strappata all’altezza dell’anca. Per fare una cosa del genere ci sarebbero volute mascelle poderose: anche un leone adulto avrebbe fatto una gran fatica.
Khamisi girò attorno al cadavere, fermandosi nei pressi della testa.
Una delle orecchie ispide del rinoceronte era stata strappata con un morso e la gola squarciata selvaggiamente. Gli occhi neri senza vita lo fissavano, troppo grandi, congelati dal terrore. Anche le labbra erano segnate di nero, per il terrore o per l’agonia. Ne sporgeva una grossa lingua, in una pozza di sangue. Ma nulla di tutto ciò era davvero importante.
Sapeva che cosa doveva verificare.
Sopra le narici chiazzate di schiuma c’era un lungo corno ricurvo, prominente e perfetto.
«Non è stato un bracconiere», osservò Khamisi.
In quel caso il corno sarebbe stato portato via. Era il motivo principale per cui le popolazioni di rinoceronti erano ancora in rapido declino. La polvere di corno di rinoceronte si vendeva sui mercati asiatici come presunta cura per la disfunzione erettile, un Viagra omeopatico. Bastava un solo corno per guadagnarsi una somma cospicua.
Khamisi si rialzò.
La dottoressa Fairfield si accovacciò all’altra estremità del cadavere. Aveva indossato i guanti di gomma, appoggiando il fucile al corpo dell’animale. «Non sembra che abbia partorito.»
«Niente cucciolo orfano, quindi.»
La biologa girò attorno alla carcassa, fermandosi di nuovo nei pressi dell’addome. Si chinò e, senza provare il benché minimo ribrezzo, sollevò un lembo della pancia squartata e infilò dentro una mano.
Lui si voltò dall’altra parte.
«Perché la carcassa non è stata ripulita dai mangiatori di carogne?» chiese la dottoressa Fairfield mentre lavorava.
«È un sacco di carne», mormorò Khamisi. Girò attorno alla bestia. Continuava a sentire la pressione del silenzio, che spremeva il calore su di loro.
La donna proseguì il suo esame. «Non penso che sia questo il motivo. Il corpo è qui da ieri sera ed è vicino a una pozza d’acqua. Come minimo gli sciacalli avrebbero dovuto ripulire l’addome.»
Khamisi diede un’altra occhiata alla carcassa. Fissò la zampa posteriore strappata, la gola squarciata. Ad abbattere quel rinoceronte era stato qualcosa di grosso e veloce.
Sentì un formicolio risalirgli fino alla nuca.
Dov’erano i mangiatori di carogne? Prima che potesse riflettere su quel mistero, la dottoressa Fairfield disse: «Il piccolo è sparito».
«Cosa?» Si girò verso di lei. «Credevo che avesse detto che non aveva partorito.»
La dottoressa Fairfield si alzò, sfilandosi i guanti e recuperando il fucile. Quindi si allontanò cauta dalla carcassa, con lo sguardo fisso a terra. Khamisi notò che stava seguendo la scia di sangue di qualcosa che era stato trascinato via dall’addome, per essere mangiato in privato.
La seguì.
Ai margini della boscaglia, la dottoressa usò l’estremità del fucile per farsi strada fra i rami bassi, che rivelarono ciò che era stato trascinato via.
Il piccolo di rinoceronte.
Il corpicino ossuto era stato ridotto a brandelli, come se fosse stato oggetto di una lotta.
«Penso che fosse ancora vivo quando l’hanno squartato», disse la dottoressa Fairfield, indicando uno spruzzo di sangue. «Povera creatura…»
Khamisi fece un passo indietro, ricordando la domanda precedente della biologa. Perché nessun mangiatore di carogne aveva sviscerato i resti? Avvoltoi, sciacalli, iene, persino leoni. La dottoressa Fairfield aveva ragione. Tutta quella carne non sarebbe stata lasciata a mosche e larve.
Non aveva senso. A meno che…
Il cuore di Khamisi si mise a battere forte.
A meno che il predatore non fosse ancora lì.
Khamisi sollevò il fucile. Nel fitto della boscaglia, notò ancora una volta il pesante silenzio. Era come se anche la foresta fosse intimidita dalla creatura misteriosa che aveva ucciso il rinoceronte.
Si ritrovò ad assaggiare l’aria, ascoltando, guardandosi attorno con la massima attenzione, completamente immobile. Attorno a lui, sembrava che le ombre diventassero più scure.
Essendo cresciuto in Sudafrica, Khamisi conosceva bene le superstizioni, le storie sussurrate sui mostri che infestavano la giungla: il ndalawo, un mangiauomini ululante della foresta ugandese; il mbilinto, un ippopotamo grande quanto un elefante delle zone umide del Congo; il mngwa, una creatura furtiva e pelosa dei boschi costieri di palme da cocco.
Ma a volte persino i miti prendevano vita in Africa. Come il nsui-fisi.Era un mostro mangiauomini a strisce, della Rhodesia, a lungo considerato una leggenda dai coloni bianchi… finché, decenni dopo, non si scoprì che era una nuova forma di ghepardo, classificata tassonomicamente come Acinonyx rex.
Mentre Khamisi studiava la giungla, si ricordò di un altro mostro leggendario, noto in tutta l’Africa. Era conosciuto con molti nomi: dubu, lumbwa, kerit, getet.La sola menzione del suo nome suscitava crisi di panico tra i nativi. Grande quanto un gorilla, era un vero e proprio demonio per rapidità, astuzia e ferocia. Nell’arco dei secoli, cacciatori neri e bianchi avevano affermato di averlo intravisto. Tutti i bambini imparavano a riconoscerne il caratteristico ululato. Quella regione di Zululand non era un’eccezione.
« Ukufa…» borbottò Khamisi.
«Hai detto qualcosa?» chiese la dottoressa Fairfield, ancora chinata accanto al piccolo morto.
Era il nome zulù del mostro, un nome sussurrato attorno al fuoco degli accampamenti e alle capanne dei kraal.
Ukufa.
Morte.
Sapeva perché in quel momento gli era venuta in mente una bestia del genere. Cinque mesi prima, un anziano della tribù aveva affermato di aver visto un ukufain quei paraggi. Per metà bestia, per metà fantasma, con occhi di fuoco!aveva inveito l’uomo, con una certezza mortale. Soltanto i coetanei di quell’anziano dalla pelle coriacea lo avevano ascoltato. Gli altri, come Khamisi, avevano finto di prendersi gioco di lui.
Ma laggiù, tra le ombre oscure…
«È meglio che ce ne andiamo», disse Khamisi.
«Ma non sappiamo ancora che cosa l’ha uccisa.»
«Non un bracconiere.» Khamisi non doveva o non voleva sapere nient’altro. Indicò la Jeep col fucile. Avrebbe avvisato il capo guardacaccia via radio e la questione sarebbe stata chiusa, risolta. L’attacco di un predatore, non un caso di bracconaggio. Avrebbero lasciato la carcassa ai mangiatori di carogne. Il ciclo della vita.
La dottoressa Fairfield si alzò con riluttanza.
Alla loro destra, un richiamo prolungato squarciò la giungla ombrosa: uuh-iiii-uuuuu, intercalato da un urlo stridulo e bestiale.
Khamisi si mise a tremare sul posto. Riconobbe l’urlo, non tanto con la testa, ma col midollo spinale. Recava in sé l’eco dei falò di mezzanotte, di storie di terrore e sangue, e di qualcosa di ancora più primordiale, di un tempo prima della parola, quando la vita era solo istinto.
Ukufa.
Morte.
Mentre l’urlo scemava, il silenzio ripiombò pesantemente su di loro.
Khamisi misurò mentalmente la distanza che li separava dalla Jeep. Dovevano battere in ritirata, ma non in preda al panico. Fuggendo impauriti non avrebbero fatto altro che stuzzicare la sete di sangue del predatore.
Nella giungla risuonò un altro urlo ringhiante.
Poi un altro.
E un altro ancora.
Tutti da direzioni diverse. Nell’improvviso silenzio che seguì, Khamisi sapeva che avevano soltanto una possibilità.
«Via!»
Copenhagen, Danimarca,
ore 09.31
Gray era disteso prono sulle tegole del tetto, a testa in giù, nel punto in cui non era riuscito ad afferrare Fiona. L’immagine della ragazza che ruzzolava oltre il bordo fumante del tetto gli si era impressa nella mente. Il cuore gli martellava nel petto.
Sentiva le sirene avvicinarsi dall’altro lato e svanire quando raggiungevano l’edificio in fiamme. Dietro di lui, una nuova lingua di fuoco esplose dalla finestra dell’abbaino, accompagnata da una vampata di calore e fumo. Nonostante l’angoscia, doveva muoversi.
Si costrinse ad appoggiarsi sui gomiti, poi sulle mani, sollevandosi. Accanto a lui, il fuoco si concesse un attimo di respiro, ritirandosi. Nella quiete momentanea sentì voci provenienti dal basso, urgenti, furtive. Ma anche più vicino… un gemito sommesso. Appena oltre il bordo del tetto.
Fiona?
Gray si distese nuovamente sulla pancia e, con una scivolata controllata, scese verso il bordo del tetto. Il fumo risaliva dalle finestre frantumate appena sotto. Sfruttò quella cappa scura per nascondersi. Arrivato alla grondaia, guardò giù.
Direttamente sotto di lui c’era un balcone in ferro battuto. Anzi no, non era un balcone, era il pianerottolo di una scala. Le scale esterne di cui parlava Fiona.
Distesa sul pianerottolo c’era la ragazza.
Con un secondo lamento impastato, Fiona rotolò su un fianco e cominciò a sollevarsi, aggrappandosi alla ringhiera.
Anche qualcun altro notò i suoi movimenti.
Giù nel cortile, Gray individuò due sagome. Una era in piedi in mezzo al lastricato, imbracciava un fucile e stava cercando la giusta linea di tiro. Una nuvola di fumo nero proruppe dalla portafinestra infranta dell’appartamento, nascondendo Fiona alla sua vista. Il cecchino aspettò che la ragazza sollevasse la testa sopra la balaustra.
«Stai giù!» sibilò Gray.
Lei alzò lo sguardo, un rivolo di sangue rosso brillante su un sopracciglio.
Il secondo sicario si muoveva in cerchio, brandendo una pistola con entrambe le mani. Mirava alle scale, deciso a bloccare qualsiasi tentativo di fuga.
Gray fece segno a Fiona di rimanere accovacciata, poi rotolò lungo il bordo del tetto finché non fu sopra il secondo sicario. Le spirali di fumo continuavano a nasconderlo e l’assassino era concentrato soprattutto sulle scale. Giunto in posizione, Gray rimase in attesa. Teneva stretta nella mano destra una pesante tegola, una di quelle che Fiona aveva smosso durante il suo ruzzolone.
Aveva soltanto una possibilità.
Di sotto, l’uomo piazzò un piede sul primo gradino della scala, tenendo sempre la pistola puntata.
Gray si sporse oltre il bordo, col braccio alzato.
Emise un fischio acuto.
Il sicario guardò su, puntando un’altra volta l’arma mentre si appoggiava su un ginocchio. Dannatamente veloce…
Ma la gravità era più veloce di lui.
Gray mollò la tegola, che roteò in aria come un’ascia e colpì il sicario in volto. Dal naso dell’uomo sprizzò un fiotto di sangue. Stramazzò al suolo. La testa batté sul lastricato, rimbalzò, poi rimase immobile.
Gray rotolò di nuovo, ritornando verso Fiona.
Il cecchino gridò.
Gray mantenne lo sguardo fisso su di lui. Sperava che mettendo fuori gioco il suo compagno l’avrebbe indotto a fuggire, ma non era stato così fortunato. Il cecchino corse dall’altro lato del cortile, trovando riparo accanto a un bidone dell’immondizia, che gli lasciava comunque libera la linea di tiro. La sua postazione era prossima al retrobottega in fiamme e sfruttava il vantaggio del fumo che scaturiva da una delle finestre vicine.
Gray raggiunse Fiona. Le fece cenno di stare giù. Tentare di tirare su la ragazza avrebbe significato la morte di entrambi. Sarebbero stati vulnerabili per troppo tempo.
Rimaneva una sola opzione.
Afferrando la grondaia con una mano, Gray fece un balzo e si girò su se stesso. Atterrò sul pianerottolo con un fragore di acciaio, poi si acquattò.
Sopra la sua testa un mattone andò in frantumi.
Un colpo di fucile.
Gray estrasse il pugnale dal fodero che portava alla caviglia.
Fiona lo vide. «Che cosa facciamo?»
« Turesti qui», le ordinò lui. Allungò una mano verso la balaustra. Dalla sua aveva soltanto la sorpresa: niente giubbetto antiproiettile né armi, a parte il pugnale. «Corri quando te lo dico io. Vai giù dritta per le scale, poi scavalca il muro di cinta del vicino. Trova il primo poliziotto o vigile del fuoco. Pensi di farcela?»
Fiona incrociò il suo sguardo. Sembrava che stesse per mettersi a discutere, ma serrò le labbra e annuì.
Brava ragazza.
Gray si bilanciò il pugnale nella mano. Ancora una volta, una sola possibilità. Facendo un respiro profondo, saltò su, fece perno sulla balaustra e la scavalcò con un volteggio. Mentre cadeva verso il lastricato, fece due cose allo stesso tempo.
«Corri!» gridò, e lanciò il pugnale verso il nascondiglio del cecchino. Non sperava di ucciderlo, soltanto di distrarlo a sufficienza per poterlo avvicinare. Un fucile era ingombrante negli scontri ravvicinati.
Atterrando, notò due cose.
Una buona e una cattiva.
Sentì echeggiare i passi di Fiona sulla scala di metallo.
Stava fuggendo.
Bene.
Allo stesso tempo, Gray guardò il suo pugnale volare nell’aria fumosa, colpire il bidone della spazzatura e rimbalzare a terra. Non ci era andato neanche vicino.
Male.
Il cecchino si alzò dalla sua postazione, per nulla turbato, puntando il fucile direttamente al petto di Gray.
«No!» urlò Fiona, mentre arrivava in fondo alle scale.
Il cecchino non sorrise nemmeno quando premette il grilletto.
Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,
Zululand, Sudafrica
«Via!» ripeté Khamisi.
La dottoressa Fairfield non ebbe bisogno di ulteriori incitamenti. Fuggirono verso la Jeep che li aspettava. Raggiunto l’abbeveratoio, Khamisi fece cenno alla dottoressa di passare avanti. Lei si fece largo a spallate tra le alte canne, ma non prima di incrociare il suo sguardo, in silenzio. Aveva il terrore negli occhi, proprio come lui.
Di qualunque cosa si trattasse, quelle creature urlanti nella foresta davano l’impressione di essere enormi e stuzzicate dalla recente uccisione. Khamisi si voltò a dare un’occhiata alla carcassa macerata del rinoceronte. Mostri o no, non aveva bisogno di altre informazioni su ciò che poteva nascondersi in quel labirinto fatto di fitte foreste, esili ruscelli e gole ombreggiate.
Girando nuovamente su se stesso, Khamisi seguì la biologa. Guardava spesso indietro, con le orecchie tese a captare qualsiasi suono di inseguimento. Ci fu un tonfo nell’acqua del vicino stagno. Khamisi lo ignorò, era qualcosa di piccolo. Troppo piccolo. Il suo cervello scartava i dettagli estranei, vagliando i suoni tra il ronzio degli insetti e il crepitio delle canne. Era concentrato sui veri segnali di pericolo. Suo padre gli aveva insegnato a cacciare quando aveva soltanto sei anni, inculcandogli i segni da cercare nell’inseguire le prede.
Questa volta, però, la preda era lui.
Un frullio di ali in panico gli fece aprire gli occhi e le orecchie.
Un movimento appena percettibile. Sulla sinistra, in lontananza.
Nel cielo.
Un’averla che si era alzata in volo.
Qualcosa l’aveva spaventata. Qualcosa che stava arrivando.
Khamisi raggiunse la dottoressa al limitare delle canne. «Presto.»
La Fairfield allungò il collo, facendo oscillare il fucile. Era in affanno, pallida. Khamisi seguì il suo sguardo. La Jeep era più su, ai piedi della collina, parcheggiata all’ombra del baobab, ai margini della profonda conca. Il pendio sembrava più ripido e più lungo di quando lo avevano percorso in discesa.
«Non si fermi», la incalzò lui.
Dando un’occhiata indietro, Khamisi vide una femmina di saltarupe, dal manto bruno fulvo, saltare fuori dalla foresta e risalire a grandi balzi il pendio opposto, sollevando una nuvola di polvere. Dopo un attimo era scomparsa.
Dovevano seguire il suo esempio.
La dottoressa Fairfield riprese a risalire il pendio. Khamisi la seguiva, camminando lateralmente, con la doppietta puntata verso la foresta alle loro spalle.
«Non hanno ucciso per mangiare», disse ansimando la dottoressa, davanti a lui.
Khamisi studiava l’oscuro garbuglio della foresta. Perché era certo che la Fairfield avesse ragione?
«Non è la fame che li ha istigati», proseguì la biologa, come se si sforzasse di placare il panico tramite la riflessione. «Non hanno mangiato quasi niente. È come se avessero ucciso per piacere, come un gatto domestico che caccia un topo.»
Khamisi era entrato in contatto con molti predatori. Quella situazione non rientrava nelle modalità del mondo naturale. Dopo un pasto, i leoni raramente rappresentavano una minaccia. Solitamente se ne stavano sdraiati indolenti, si poteva persino avvicinarli, a una certa distanza. Un predatore sazio non avrebbe squartato una femmina di rinoceronte, strappandole il piccolo dalla pancia, per puro divertimento.
La dottoressa Fairfield proseguiva la sua litania, come se il pericolo imminente fosse un rebus da risolvere: «Nel mondo degli animali domestici, il gatto ben nutrito caccia di più, avendo il tempo e l’energia per quel tipo di gioco».
Gioco?
Khamisi rabbrividì. «L’importante è che lei continui a camminare», disse, non volendo sentire altro.
La dottoressa Fairfield annuì, ma le sue parole rimasero impresse nella mente di Khamisi. Che tipo di predatore poteva uccidere per puro divertimento?
Una risposta ovvia c’era: l’uomo.
Ma quella non era opera di un essere umano.
Ancora una volta, un movimento catturò lo sguardo di Khamisi. Solo per un attimo, una sagoma diafana comparve dietro la cortina della foresta oscura. La vide con la coda dell’occhio, ma sparì come una nuvola di vapore, quando lui si concentrò su quel punto.
Gli sovvennero le parole del vecchio zulù raggrinzito: Per metà bestia, per metà fantasma…
Nonostante il caldo, si sentì raggelare. Accelerò il passo, quasi spingendo l’anziana biologa su per il pendio. Il terreno di sabbia e scisto era ingannevole: poco compatto, sfuggiva sotto i piedi. Ma erano quasi arrivati in cima. La Jeep era a soli trenta metri di distanza.
Poi la dottoressa scivolò. Sbatté un ginocchio e cadde addosso a Khamisi. Lui incespicò all’indietro, perse l’appoggio e cadde pesantemente a terra. L’inclinazione del pendio e lo slancio lo fecero capitombolare. Ruzzolò per metà della scarpata, finché non riuscì a frenare la caduta coi talloni e col calcio del fucile.
La dottoressa Fairfield era ancora seduta nel punto in cui era finita a terra, gli occhi spalancati per il terrore, lo sguardo fisso su un punto, più in basso.
Non guardava lui, ma la foresta.
Khamisi si voltò, poggiandosi sulle ginocchia. Un dolore lancinante gli martoriava la caviglia, distorta o forse rotta. Cercò e non vide nulla, ma sollevò comunque il fucile. «Vada!» Aveva lasciato le chiavi nel quadro. «Vada!»
Sentì la dottoressa Fairfield alzarsi, tra lo sgretolio dello scisto.
Dal limitare della foresta emerse un altro ululato, una risata stridula inumana.
Khamisi puntò il fucile alla cieca e premette il grilletto. Il tuono del fucile squarciò la valle. Dietro di lui, la dottoressa Fairfield gridò, allarmata. Khamisi sperò che il rumore avesse spaventato anche quelle creature sconosciute che stavano in agguato.
«Vada alla Jeep! Non mi aspetti!» Si alzò, senza pesare sulla caviglia infortunata. Teneva pronto il fucile. Il silenzio era calato nuovamente sulla foresta.
Sentì la dottoressa Fairfield in cima al pendio: «Khamisi…»
«Prenda la Jeep!» Si arrischiò a dare un’occhiata alle sue spalle.
Giunta sul crinale, la dottoressa Fairfield puntò verso il fuoristrada.
Sopra di lei, un movimento tra i rami del baobab attirò l’attenzione di Khamisi, una lieve oscillazione di qualche grappolo di fiori bianchi. Non c’era vento. «Presto! Non…»
Dietro di lui si scatenò un urlo selvaggio, che soffocò il resto del suo avvertimento. La dottoressa Fairfield fece mezzo passo verso di lui.
No…
Saltò giù dalle ombre profonde dell’albero gigante. Era una massa chiara informe. Cadde sulla biologa ed entrambi scomparvero alla sua vista. Sentì l’urlo agghiacciante della donna, troncato sul nascere.
Ritornò il silenzio.
Khamisi guardò la foresta ancora una volta.
La morte sopra e sotto di lui.
Aveva una sola possibilità.
Ignorando il dolore alla caviglia, si mise a correre giù per il pendio.
Lasciò che la gravità prendesse il sopravvento. Più che uno scatto era una caduta libera. Corse ai piedi della collina, con le gambe che faticavano a tenerlo in piedi. Arrivato in fondo, puntò la doppietta verso la foresta ed esplose un secondo colpo.
Non s’illudeva di riuscire ad allontanare i predatori. Cercava soltanto di procurarsi una frazione supplementare di vita. Inoltre, il rinculo del fucile lo aiutò a mantenere l’equilibrio, mentre arrivava in fondo alla discesa. Continuò a correre, con la caviglia in fiamme e il cuore che batteva all’impazzata.