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L'ordine del sole nero
  • Текст добавлен: 21 октября 2016, 20:09

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Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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Vide, o forse intuì soltanto, qualcosa di grosso che si muoveva, proprio al limitare della foresta. Un’ombra leggermente più pallida.

Per metà bestia, per metà fantasma…

Pur senza averlo visto, sapeva qual era la verità.

Ukufa.

Morte.

Non oggi, pregò, non oggi…

Cadde fragorosamente tra le canne e si tuffò a capofitto nell’abbeveratoio.

Copenhagen, Danimarca,

ore 09.31

Fiona sottolineò con un urlo il colpo di fucile del cecchino.

Gray girò su se stesso, sperando di non essere colpito a morte. Mentre si voltava, tra i resti della finestra fumante del negozio vide emergere fragorosamente una grossa massa informe.

Il cecchino doveva aver visto quello stesso movimento una frazione di secondo prima di Gray, abbastanza da alterare di un soffio la sua mira.

Gray sentì il proiettile incandescente passargli sotto il braccio sinistro. Continuò a correre e piroettare, cercando di uscire dalla zona di tiro ravvicinato.

Dalla finestra, la sagoma gigantesca balzò in cima al bidone della spazzatura e ruzzolò sul cecchino.

«Bertal!» gridò Fiona.

Il San Bernardo, col lungo pelo fradicio, serrò le mascelle attorno all’avambraccio del cecchino. L’attacco improvviso e inatteso colse impreparato l’uomo, che cadde dietro il bidone della spazzatura. Il suo fucile si abbatté fragorosamente sul lastricato.

Gray si precipitò ad agguantarlo.

A breve distanza, si udì un guaito. Prima che Gray potesse reagire, il sicario saltò fuori. Sospeso a mezz’aria, piantò il tacco dello scarpone nella spalla di Gray, abbattendolo sul lastricato e inchiodandolo a terra.

Gray tentò uno scatto di lato, puntando il fucile che aveva afferrato, ma l’uomo si muoveva come una gazzella. Il suo impermeabile nero svolazzò mentre scavalcava agilmente un muretto di pietra e si metteva al sicuro.

Gray sentì i suoi passi allontanarsi nel vicolo. «Bastardo…»

Fiona corse da lui. Aveva in mano una pistola. «L’altro uomo… penso che sia morto», disse, indicando un punto alle sue spalle.

Gray si mise in spalla il fucile e le tolse di mano la pistola.

Lei non fece resistenza, assorbita da un’altra preoccupazione. «Bertal…»

Il cane venne fuori barcollando, debole, con un fianco gravemente segnato dal fuoco.

Gray diede una rapida occhiata alla bottega in fiamme. Come aveva fatto quell’animale a sopravvivere? Gli ritornò in mente l’ultima volta che aveva visto il cane, incosciente, steso dalle prime bombe incendiarie che avevano distrutto la parete posteriore.

Fiona abbracciò la bestia fradicia. Il cane doveva essere finito sotto uno Sprinkler. Sollevò il muso del San Bernardo e lo guardò, naso contro naso. «Bravo il mio cagnone.»

Gray era d’accordo. Era in debito con Bertal. «Tutti i caffè Starbucks che vuoi, amico», gli promise sottovoce.

Le zampe di Bertal tremavano. Si accovacciò, poi si accasciò sul lastricato. L’adrenalina che aveva sostenuto la povera bestia fino a quel momento cominciava a venir meno.

Da sinistra, in lontananza, giungevano frasi concitate, pronunciate a voce alta, in danese. Un getto d’acqua si levò alto. Alcuni vigili del fuoco si stavano dirigendo verso il retro del negozio.

Gray non poteva più rimanere. «Devo andare.»

Fiona si alzò. Guardò alternativamente Gray e il cane.

«Resta con Bertal», disse lui, facendo un passo indietro. «Portalo da un veterinario.»

Lo sguardo di Fiona si fece severo. «E tu te ne vai così…»

«Mi spiace.» Era una risposta inadeguata, dopo quegli orrori: l’assassinio della nonna, l’incendio della bottega, la fuga all’ultimo respiro. Ma non sapeva cosa dire e non aveva tempo per fornire altre spiegazioni.

Si voltò e si diresse verso il muro di cinta posteriore.

«Già, vai pure. Vaffanculo!» gli gridò dietro Fiona.

Gray scavalcò la recinzione.

«Aspetta!»

L’uomo si precipitò nel vicolo. Non voleva abbandonare la ragazza, ma non aveva scelta. Era meglio per lei. Nella cerchia dei soccorritori sarebbe stata protetta. Il luogo in cui era diretto Gray non era adatto a una quindicenne. Ma si sentiva ancora avvampare. Nel profondo, non poteva negare una motivazione più egoistica: era semplicemente contento di essersi sbarazzato di lei, di quella responsabilità.

Non importava più, ormai era fatta.

Avanzò rapidamente lungo il vicolo. Infilò la pistola nella cinta dei pantaloni ed espulse tutte le cartucce dal fucile, poi lo nascose dietro una catasta di legna. Dava troppo nell’occhio per portarselo dietro.

Mentre camminava, si rimise il maglione. Doveva lasciare l’albergo e cambiare identità. Ci sarebbero state indagini su quei decessi. Era il momento di far morire il personaggio del dottor Sawyer.

Ma prima doveva portare a termine un altro incarico.

Da una tasca posteriore estrasse il cellulare e premette il tasto rapido per collegarsi al comando centrale. Dopo qualche istante era in linea con Logan Gregory, il capo della sua missione operativa.

«Abbiamo un problema», esordì Gray.

«Cosa c’è che non va?»

«Qualunque cosa stia succedendo, è una faccenda più grossa di quanto pensassimo. Abbastanza grossa da commettere qualche omicidio.» Gray fece rapporto sulla mattinata. Seguì un lungo intervallo di silenzio.

Alla fine Logan parlò, la tensione evidente nella voce. «Allora è meglio che annulliamo questa missione, finché lei non avrà più risorse sul posto.»

«Se aspetto i rinforzi sarà troppo tardi. L’asta inizia fra poche ore.»

«La sua copertura è saltata, comandante Pierce.»

«Non ne sono sicuro. Per quanto ne sanno i partecipanti all’asta, io sono un acquirente americano che fa troppe domande. Non azzarderanno nulla in pubblico. Ci sarà un sacco di gente e le misure di sicurezza sono rigorose. Posso ancora passare al vaglio la sede e forse accertare qualche indizio su chi o cosa c’è davvero dietro tutto questo. Poi scomparirò, resterò in disparte finché non avrò rinforzi.» Anche Gray voleva mettere le mani su quella Bibbia, se non altro per esaminarla.

«Non penso che sia un’idea saggia. Il potenziale rischio è superiore al potenziale guadagno. Soprattutto se agirà da solo.»

Gray s’infervorò. «Quei bastardi tentano di friggermi il culo, e adesso lei vuole che io mi metta seduto?»

«Comandante…»

Gray stritolò il telefono. Evidentemente Logan aveva passato troppo tempo tra le scartoffie. Per una missione di ricerca era un capo adeguato, ma ormai quello non era più un semplice incarico di raccolta dati. Si stava trasformando in una operazione da Sigma Force in piena regola. E, in tal caso, Gray voleva avere alle spalle qualcuno capace di vera leadership. «Credo che dovremmo coinvolgere il direttore Crowe.»

Seguì un’altra lunga pausa. Forse aveva sbagliato a dirlo. Non voleva scavalcare Logan, ma a volte bisognava semplicemente sapere quando era il momento di farsi da parte.

«Temo che sia impossibile al momento, comandante Pierce.»

«Perché?»

«Il direttore Crowe attualmente è in Nepal e non abbiamo sue notizie.»

Gray aggrottò le sopracciglia. «In Nepal? E che ci è andato a fare?»

«Comandante, ce l’ha mandato lei.»

«Cosa?»

All’improvviso Gray ricordò.

La chiamata era arrivata una settimana prima. Da un vecchio amico.

La mente di Gray ripiombò nel passato, ai suoi primi giorni alla Sigma. Come tutti gli altri agenti, Gray aveva alle spalle un periodo nelle Forze Speciali. Era entrato nell’esercito a diciotto anni e nei Ranger a ventuno. Ma, dopo essere finito davanti alla corte marziale per aver colpito un superiore, Gray era stato reclutato dalla Sigma, appena uscito da Leavenworth. Tuttavia era rimasto sospettoso. Aveva colpito quel superiore per buoni motivi. L’incompetenza di quell’uomo aveva causato vittime superflue in Bosnia. Dei bambini erano morti. Ma la rabbia di Gray aveva radici più profonde. Un rapporto problematico con l’autorità, che si poteva ricondurre a suo padre. E, anche se la questione non era ancora risolta completamente, c’era voluto un uomo saggio per mostrare la via a Gray.

Quell’uomo era Ang Gelu.

«Sta dicendo che il direttore Crowe è in Nepal per via del mio amico, il monaco buddista?»

«Crowe sa quanto è importante per lei quell’uomo.»

Gray smise di camminare e si fermò nell’ombra. Aveva trascorso quattro mesi a studiare con quel monaco in Nepal, parallelamente all’addestramento per la Sigma. In effetti, era proprio grazie ad Ang Gelu che Gray aveva sviluppato il suo curriculum unico alla Sigma. Gli avevano fatto fare un doppio corso di laurea accelerato in biologia e fisica, ma Ang Gelu aveva potenziato ulteriormente gli studi di Gray, istruendolo su come cercare l’equilibrio tra tutte le cose. L’armonia degli opposti. Lo yin e lo yang del taoismo. L’uno e lo zero.

Quella consapevolezza lo aveva aiutato ad affrontare i demoni del passato. Crescendo, si era sempre trovato fra estremi opposti. Sebbene sua madre avesse insegnato in una scuola cattolica, infondendo una profonda spiritualità alla vita di Gray, era anche una biologa affermata, una fervente seguace della ragione. Riponeva nel metodo scientifico una fede pari a quella religiosa.

E poi c’era il padre. Un gallese che viveva in Texas, un operaio del settore petrolifero, rimasto invalido durante la mezza età e costretto ad assumere il ruolo di casalingo. Di conseguenza, la sua vita era dominata da un eccessivo atteggiamento compensatorio e dalla rabbia.

Tale padre, tale figlio.

Finché Ang Gelu non aveva mostrato a Gray un’altra strada. Un percorso tra gli opposti. Non era un cammino breve. Si estendeva ugualmente nel passato e nel futuro. Gli dava ancora del filo da torcere.

Ma Ang Gelu lo aveva aiutato a fare i primi passi e Gray era in debito con lui. Perciò, quando una settimana prima l’aveva chiamato per chiedergli aiuto, Gray non aveva voluto ignorare la sua richiesta. Ang Gelu aveva riferito di strane scomparse e malesseri anomali in una certa regione nei pressi del confine con la Cina.

Il monaco non sapeva a chi rivolgersi. Il governo del Nepal era troppo concentrato sui ribelli maoisti ma Ang Gelu sapeva che Gray era coinvolto in una nebulosa catena di comando di operazioni sotto copertura. Perciò si era rivolto a lui per chiedere aiuto. Essendo già assegnato alla missione in Danimarca, però, Gray aveva passato la questione a Painter Crowe. Scaricabarile…

«Mi aspettavo che Painter mandasse un agente di grado inferiore», balbettò Gray, incredulo. «C’era certamente qualcun altro…»

«La situazione era noiosa da queste parti», lo interruppe Logan.

Gray trattenne un grugnito. Sapeva che cosa intendeva Logan. Era proprio la tregua delle minacce globali che l’aveva condotto in Danimarca. «Perciò ci è andato lui?»

«Conosce il direttore. Vuole sempre sporcarsi le mani.» Logan sospirò, esasperato. «E adesso c’è un problema. Una tempesta ha impedito le comunicazioni per qualche giorno, ma anche dopo che è finita non abbiamo avuto aggiornamenti. Invece abbiamo sentito voci tramite vari canali. Le stesse storie riferite dal suo amico. Malattie, epidemie, morte, anche possibili attacchi di ribelli nella regione. Solo che c’è un’escalation.»

Fu allora che Gray capì il motivo della tensione nella voce di Logan. Sembrava che non fosse soltanto la sua missione che stava andando gambe all’aria.

Piove sempre sul bagnato.

«Posso mandarle Monk», proseguì Logan. «Lui e il capitano Bryant stanno venendo qui. Monk potrà raggiungerla sul campo entro dieci ore. Fino ad allora rimanga defilato.»

«Ma l’asta sarà finita…»

«Comandante Pierce, ha ricevuto i suoi ordini.»

La risposta di Gray fu concitata, ancora una volta la voce tradiva la tensione: «Signore, ho già piazzato le microcamere ai punti di afflusso e deflusso attorno alla casa d’aste. Sarebbe uno spreco ignorarle».

«D’accordo. Sorvegli le immagini da una postazione sicura e registri tutto quanto. Ma non faccia nient’altro. Siamo intesi, comandante?»

Gray fremeva, ma Logan aveva per le mani un sacco di guai. Tutto per un favore fatto a lui. Perciò c’era poco che potesse obiettare. «Molto bene, signore.»

«Faccia rapporto dopo l’asta.»

«Sissignore.»

La linea fu interrotta.

Gray si addentrò nei vicoli di Copenhagen, attento a tutto ciò che gli stava attorno. Ma la preoccupazione lo attanagliava. Per Painter, per Ang Gelu…

Che diavolo stava succedendo in Nepal?

4. LUCI SPETTRALI

Himalaya,

ore 11.18

«Ed è sicura che Ang Gelu sia stato ucciso?» chiese Painter, voltandosi di sfuggita.

Per risposta ebbe un cenno di assenso.

Lisa Cummings aveva finito il racconto di come era stata prelevata dalla squadra di alpinisti sull’Everest, per indagare su una malattia al monastero. Aveva riferito brevemente gli orrori che si erano succeduti: la follia, le esplosioni, il cecchino.

Painter passò in rassegna la sua storia, mentre entrambi si addentravano nei sotterranei del monastero. L’angusto labirinto di pietra non era adatto a una persona della sua statura. Doveva avanzare chino e comunque non poteva fare a meno di sfiorare con la testa i fasci di rami di ginepro appesi a essiccare. I rametti aromatici venivano utilizzati per fare bastoncini cerimoniali d’incenso, per un tempio che ormai era ridotto a un unico grande bastone d’incenso, che bruciava esalando il suo fumo nel cielo di mezzogiorno.

Disarmati, i due si erano rifugiati nel seminterrato per sfuggire alle fiamme. Painter si era fermato soltanto il tempo necessario per prendere un pesante poncho e un paio di scarponi imbottiti di pelo da un guardaroba. Con quegli indumenti sembrava quasi un vero indiano Pequot, anche se era solo mezzosangue. Non ricordava affatto dove fossero stati portati i suoi vestiti e i suoi bagagli.

Tre giorni interi erano scomparsi dalla sua vita e con loro se n’erano andati anche cinque chili.

Indossando il mantello aveva notato le costole prominenti. Anche le spalle sembravano più ossute. Non aveva scampato del tutto la malattia. Ma perlomeno continuava a recuperare le forze.

Non poteva farne a meno. Soprattutto con un sicario ancora in libertà.

Mentre si rifugiavano nel seminterrato, Painter aveva sentito qualche colpo di arma da fuoco. Un cecchino stava uccidendo chiunque fuggisse dal monastero in fiamme. La dottoressa Cummings aveva descritto l’aggressore. Un uomo solo. Sicuramente ce n’erano degli altri. Erano ribelli maoisti? Non aveva senso. A che cosa poteva servire quel massacro?

Con una penna luminosa in mano, Painter faceva strada seguito dalla dottoressa Cummings. Painter sapeva solo che era una dottoressa americana e che faceva parte di una squadra che stava scalando l’Everest. La studiava con occhiate fugaci, cercando di farsi un’idea di lei. Aveva gambe lunghe e un fisico atletico, i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, le guance rosate e screpolate dal vento. In più, era terrorizzata. Gli stava vicino, trasalendo a ogni scoppio smorzato che li raggiungeva dalla tempesta di fuoco sovrastante. Tuttavia non si fermava, non piangeva, non si lamentava. Sembrava che riuscisse a differire lo shock grazie alla sola forza di volontà.

Ma per quanto ancora? Le tremarono le dita mentre scostava dal viso un mazzolino di citronella appeso a essiccare.

Proseguirono. Più si addentravano nel seminterrato, più l’aria traboccava delle fragranze di quei ramoscelli: rosmarino, artemisia, rododendro montano, khenpa. Tutti pronti per diventare bastoncini d’incenso.

Lama Khemsar, il capo del monastero, aveva insegnato a Painter gli usi delle centinaia di erbe: per la purificazione, per favorire le energie divine, per disperdere i pensieri non costruttivi, ma anche per curare l’asma e i semplici raffreddori. In quel momento, però, Painter cercava di ricordare soltanto come raggiungere l’uscita posteriore del seminterrato, che collegava tutti gli edifici del monastero. Durante le copiose nevicate invernali, i monaci usavano gli scantinati per spostarsi sottoterra da una struttura all’altra, compreso il granaio ai margini dell’insediamento. Era ben distante dalle fiamme e non era in vista.

Se solo fossero riusciti ad arrivarci… per poi scappare fino al villaggio sottostante.

Doveva contattare il comando della Sigma.

Nella sua mente turbinavano le varie possibilità.

Poi anche il corridoio si mise a girare.

Painter appoggiò una mano sulla parete, per restare in equilibrio. Aveva le vertigini.

«Tutto bene?» chiese la dottoressa, affiancandolo.

Lui fece un paio di respiri profondi prima di rispondere. Da quando si era svegliato, era tormentato da attacchi di disorientamento. Ma stavano diventando meno frequenti: o forse se ne illudeva soltanto?

«Che cosa è successo davvero lassù?» chiese la dottoressa. Gli sottrasse la penna luminosa, che in realtà faceva parte del suo kit medico, e gliela puntò negli occhi.

«Non… non ne sono sicuro… ma dobbiamo andare avanti.» Painter cercò di allontanarsi dalla parete con una spinta, ma lei gli premette una mano sul petto, continuando a esaminargli gli occhi.

«Lei mostra un evidente nistagmo.»

«Cosa?»

Lisa gli passò una borraccia di acqua fresca e gli fece cenno di sedersi su una balla di fieno. Lui non fece obiezioni. La balla era dura come il cemento.

«I suoi occhi mostrano segni di nistagmo orizzontale, uno spasmo orizzontale delle pupille. Ha preso un colpo in testa?»

«Non penso. È grave?»

«Difficile a dirsi. Può essere il risultato di un danno all’occhio o al cervello. Un ictus, la sclerosi multipla o un trauma cranico. Date le vertigini, direi che ha subito un trauma all’apparato vestibolare. Forse nell’orecchio interno, forse al sistema nervoso centrale. Molto probabilmente non è permanente.» L’ultima frase fu borbottata con un tono alquanto sconcertante.

«Che cosa intende per ‘molto probabilmente’, dottoressa Cummings?»

«Mi chiami Lisa», replicò lei, come se cercasse di distrarlo.

«Va bene, Lisa. Allora, potrebbe essere permanente?»

«Ci vorranno altri esami. Magari potrebbe cominciare raccontandomi come è successo tutto questo.»

Lui bevve una sorsata d’acqua. Magari avesse potuto raccontarglielo… Cercò di ricordare, ma gli venne un dolore lancinante dietro gli occhi. Gli ultimi giorni erano una macchia informe. «Ero in uno dei villaggi circostanti. Improvvisamente, durante la notte sono apparse strane luci sulle montagne. Ma io me li sono persi, i fuochi d’artificio. Quando mi sono svegliato erano già sparite. La mattina seguente, però, tutti gli abitanti del villaggio lamentavano mal di testa e nausea, me compreso. Ho chiesto a uno degli anziani. Ha detto che le luci apparivano di quando in quando già da diverse generazioni. Luci spettrali, attribuite a spiriti maligni delle montagne.»

«Spiriti maligni?»

«Ha indicato il punto in cui erano state viste le luci, in una regione remota delle montagne, un’area di profonde gole e cascate di ghiaccio che si estende sino al confine con la Cina, difficile da attraversare. Il monastero è su una spalla della montagna che sovrasta quella terra di nessuno.»

«Perciò il monastero era più vicino a quelle luci?»

Painter annuì. «Le pecore sono morte tutte entro ventiquattro ore. Alcune sono rimaste stecchite sul posto, altre hanno sbattuto la testa a non finire contro i massi. Io sono ritornato il giorno dopo, in preda a dolori e conati di vomito. Lama Khemsar mi ha dato del tè. È l’ultima cosa che ricordo.» Bevve un altro sorso dalla borraccia e sospirò. «Era tre giorni fa. Poi mi sono svegliato chiuso a chiave in una stanza. Ho dovuto abbattere la porta per uscire.»

«È stato fortunato», disse la donna, prendendo la borraccia.

«Perché?»

Lei incrociò le braccia, come a schermarsi, proteggersi. «Fortunato a essere lontano dal monastero. Sembra che la prossimità alle luci sia correlata alla gravità dei sintomi.» Distolse lo sguardo, volgendo gli occhi al soffitto, come se cercasse di vedere attraverso le pareti. «Forse era una forma di radiazioni. Non ha detto che il confine con la Cina non è distante? Forse era un esperimento nucleare di qualche tipo.»

Painter si era fatto la stessa domanda qualche giorno prima.

«Perché scuote la testa?» chiese Lisa.

Painter non se n’era nemmeno reso conto. Si portò una mano alla fronte.

Lisa aggrottò le sopracciglia. «Non mi ha ancora detto che cosa ci fa lei qui, signor Crowe.»

«Chiamami Painter», disse con un sorriso beffardo. Non ottenne un grande effetto. Si chiedeva quanto altro dire. In quelle circostanze, essere onesto gli sembrò la cosa più prudente. O almeno essere onesto entro certi limiti. «Lavoro per il governo, una divisione che si chiama DARPA. Ci occupiamo…»

Lisa lo interruppe con un cenno delle dita, tenendo sempre le braccia conserte. «Conosco la DARPA, la divisione di ricerca e sviluppo dell’esercito americano. Tempo fa mi ha dato una borsa di studio per condurre una ricerca. Di che cosa vi interessate, da queste parti?»

«Be’, sembra che tu non sia l’unica a essere stata reclutata da Ang Gelu. Ha contattato la nostra organizzazione una settimana fa, per indagare su voci di strane malattie da queste parti. Avevo giusto cominciato a studiare la situazione, determinare quali esperti convocare sul posto – medici, geologi, militari —, quando sono arrivate le tempeste. Non mi aspettavo di restare isolato per così tanto tempo.»

«Sei riuscito a escludere qualche possibilità?»

«Dopo i primi colloqui, ero preoccupato che forse i ribelli maoisti della zona fossero entrati in possesso di qualche scoria nucleare e avessero preparato una bomba sporca. Un po’ come quello che ipotizzavi tu sui cinesi. Perciò ho fatto qualche rilevamento di radioattività, mentre aspettavo che finissero le tempeste. Non ho riscontrato nulla di insolito.»

Lisa lo fissava, come se stesse studiando uno strano coleottero. «Se riuscissimo a raggiungere un laboratorio, forse potremmo avere qualche risposta.»

Quindi non lo considerava proprio un coleottero, ma piuttosto una cavia. Perlomeno stava risalendo la scala evolutiva.

«Prima dobbiamo sopravvivere», disse Painter, ricordandole qual era la realtà del momento.

Lei guardò il soffitto del seminterrato. Non sentivano colpi d’arma da fuoco da qualche tempo. «Forse pensano che siano tutti morti. Se restiamo qui sotto…»

Painter scostò la balla di fieno e si alzò. «Dalla tua descrizione, l’attacco è stato metodico, pianificato. Sicuramente conoscono questi tunnel e alla fine verranno a cercare anche qui. Possiamo soltanto sperare che aspettino che l’incendio si plachi.»

Lisa annuì. «Allora andiamo avanti.»

«E ci togliamo dai guai. Possiamo farcela», la rassicurò lui. Poggiò una mano sulla parete per mantenere l’equilibrio. «Possiamo farcela», ripeté, rivolto a se stesso più che a lei.

Si rimisero in cammino.

Dopo qualche passo, Painter si sentì più sicuro.

Bene.

L’uscita non poteva essere molto lontana.

Come a confermare quell’ipotesi, una brezza gelida sibilò lungo il corridoio, facendo oscillare i mazzetti di erbe con un suono secco. Painter sentì l’aria fredda sul viso. Si bloccò all’istante. L’istinto del cacciatore prese il sopravvento. Per metà era l’addestramento nelle Forze Speciali, per metà ce l’aveva nel sangue. Allungò una mano dietro di sé, prese Lisa per un braccio e le fece cenno di restare in silenzio.

Spense la penna luminosa.

Davanti a loro qualcosa di pesante atterrò sul pavimento e un’eco si diffuse nel corridoio. Scarponi. Una porta sbattuta. La brezza cessò.

Non erano più soli.

Il killer si chinò nell’angusto seminterrato. Sapeva che c’era qualcun altro là sotto. Quanti? Si mise in spalla il fucile ed estrasse una pistola Heckler Koch MK23. Aveva già tolto il primo paio di guanti, rimanendo con quelli che gli lasciavano le dita scoperte. Rimase fermo ad ascoltare.

Un debolissimo strascichio di piedi.

Battevano in ritirata.

Almeno due persone, o forse tre.

Alzò una mano per chiudere la botola che conduceva al granaio sovrastante. La brezza gelida cessò, con un ultimo sibilo, mentre l’oscurità si richiudeva sopra di lui. Si calò sugli occhi un paio di occhiali per visione notturna e accese una lampada ultravioletta che portava legata a una spalla. Il corridoio cominciò a brillare di sfumature verde argenteo.

Lì accanto, su uno scaffale, erano accatastati scatolame e file di vasetti di miele, sigillati con la ceralacca. Li superò muovendosi lentamente, in silenzio. Non c’era fretta. Le uniche altre uscite portavano a una catastrofe di fuoco e fiamme. Aveva già sparato ai monaci che avevano ancora abbastanza senno in quelle teste marce per sfuggire alle fiamme.

Uccisi per misericordia, tutti quanti.

Come lui sapeva fin troppo bene.

La Campana era stata suonata troppo forte.

Era stato un incidente, uno dei tanti accaduti negli ultimi tempi.

Nel mese precedente aveva percepito l’agitazione tra gli altri inquilini del Granitschloß.Ancora prima dell’incidente. Qualcosa aveva messo in subbuglio il castello, un’agitazione che aveva percepito anche dai luoghi remoti in cui si trovava la sua appartata dimora. L’aveva ignorata. Non era un problema suo.

Poi c’era stato l’incidente, ed era diventato un problema suo.

Rimediare al loro errore.

Era suo dovere, essendo uno degli ultimi Sonnenkönigesopravvissuti. A tanto era arrivato il declino dei Cavalieri del Sole, sia in termini numerici sia in termini di status: evitati come la peste, anacronistici, un motivo d’imbarazzo. Ben presto sarebbero scomparsi anche gli ultimi.

Che importava?

Ma perlomeno l’incarico di quel giorno era quasi portato a termine. Sarebbe potuto ritornare alla sua tana dopo aver ripulito quello scantinato. La tragedia al monastero sarebbe stata attribuita ai ribelli maoisti. Chi, se non i maoisti senza Dio, avrebbe attaccato un monastero senza nessuna importanza strategica?

Per garantire il successo dell’inganno, anche le sue munizioni corrispondevano a quelle usate dai ribelli. Persino la pistola.

Con l’arma alla mano, procedette accanto a una fila di barili di quercia aperti: grano, segale, farina, anche mele disidratate. Avanzava con circospezione, sospettando eventuali imboscate. I monaci potevano anche essere mentalmente disturbati, ma i matti a volte si rivelavano astuti quando erano in trappola.

Più avanti, il corridoio faceva una piega a sinistra. Si acquattò contro la parete destra, fermandosi ad ascoltare, alla ricerca del minimo fruscio. Sollevò gli occhiali per la visione notturna.

Buio pesto.

Si rimise le lenti sugli occhi e il corridoio gli si dipinse davanti a tinte verdi. Se c’era qualcuno in agguato, l’avrebbe visto ben prima di essere notato a sua volta. Non avevano scampo. Gli sarebbero dovuti passare davanti per raggiungere l’unica via d’uscita sicura.

Girò l’angolo, con passo furtivo.

C’era una balla di paglia di traverso nel corridoio, come se fosse stata scostata in tutta fretta. Scrutò il tratto di corridoio davanti a sé. Altri barili. Dalle travi del soffitto pendevano mazzi di ramoscelli appesi a essiccare.

Nessun movimento. Nessun suono.

Scavalcò con una gamba la balla che ostruiva il passaggio e poggiò il piede dalla parte opposta.

Un fragile rametto di ginepro si spezzò sotto il tacco dello scarpone. Guardò giù. Il pavimento era cosparso di rami.

Una trappola.

«Ora!»

Alzò lo sguardo, mentre il mondo davanti a lui esplodeva di una luce stroboscopica. Amplificate dalla sensibilità delle lenti, le supernove gli fulminarono il cervello, accecandolo.

Era il flash di una macchina fotografica.

Sparò d’istinto.

Le detonazioni erano assordanti nell’angusto seminterrato.

Dovevano essere rimasti sdraiati ad ascoltare al buio, in attesa che calpestasse il rametto crepitante, rivelando la sua vicinanza, per tendergli un’imboscata. Fece un passo indietro, incespicando sulla balla di fieno.

Mentre cadeva, esplose un altro colpo verso l’alto.

Un errore.

Approfittandone, qualcuno gli piombò addosso, colpendolo alle gambe e facendolo cadere oltre la balla di fieno. Sbatté di schiena sul pavimento di pietra. Qualcosa gli s’infilzò nella carne della coscia. Diede una ginocchiata, guadagnandosi un grugnito dall’aggressore che stava sopra di lui.

«Vai!» gridò l’aggressore, inchiodandogli a terra il braccio che teneva la pistola. «Scappa!»

L’uomo parlava inglese. Non era un monaco.

Una seconda sagoma scavalcò entrambi; ne vide l’ombra, mentre cominciava a recuperare la vista. Sentì i passi diretti verso la botola del granaio.

« Scheiße», imprecò.

Si sollevò, sbarazzandosi dell’uomo sopra di lui come se fosse una bambola di pezza. I Sonnenkönigenon erano come gli altri uomini. Il suo aggressore sbatté contro la parete, rimbalzò e tentò di raggiungere l’altro fuggitivo. Ma la vista dell’assassino ritornò rapidamente. Vide la luce allontanarsi verso la botola. Furioso, agguantò la caviglia del suo aggressore e lo trascinò verso di sé.

L’uomo scalciò con l’altro piede, colpendolo sul gomito.

Ringhiando, affondò il pollice su un nervo sensibile dietro il tendine di Achille. L’uomo urlò. Sapeva quanto poteva essere dolorosa quella presa. Era come spezzarsi la caviglia. Sollevò l’uomo per la gamba.

Mentre si alzava, la testa cominciò a girargli vorticosamente. All’improvviso si svuotò di tutte le sue forze, come un palloncino scoppiato. Gli bruciava la coscia, dove l’avevano pugnalato. Guardò giù. Non era un pugnale. Aveva una siringa ancora conficcata nella coscia, con lo stantuffo spinto sino in fondo.

L’avevano drogato.

Il suo aggressore si divincolò dalla presa, ruzzolando e incespicando per fuggire.

Non poteva lasciarselo scappare.

Sollevò la pistola, che ormai pesava come un’incudine, e sparò verso di lui. Lo sparo rimbalzò sul pavimento. Mentre s’indeboliva rapidamente, esplose un secondo colpo, ma l’uomo era già scomparso.

Lo sentì fuggire.

Con le membra pesanti, crollò sulle ginocchia. Il cuore gli martellava in petto. Un cuore grande il doppio della media. Ma normale per un Sonnenkönig.

Fece diversi respiri profondi, mentre il suo metabolismo si adeguava.

I Sonnenkönigenon erano come gli altri uomini.

Lentamente si rimise in piedi.

Aveva un dovere da compiere.

Era il motivo per cui era nato.

Per prestare servizio.

Painter chiuse la botola, sbattendola. «Dammi una mano.» Si spostò da un lato, zoppicante. Il dolore gli formicolava su per la gamba. Indicò una pigna di casse. «Accatastale sulla botola.»

Poi afferrò la cassa che stava in cima. Troppo pesante da trasportare, si schiantò al suolo, con un fragore di metallo tintinnante. Allora la trascinò verso la botola. Non sapeva che cosa contenessero le casse, sapeva soltanto che erano pesanti, dannatamente pesanti.


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