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L'ordine del sole nero
  • Текст добавлен: 21 октября 2016, 20:09

Текст книги "L'ordine del sole nero"


Автор книги: James Rollins


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Триллеры


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Lisa entrò dopo di lui. Il soldato rimase di guardia sulla soglia.

L’interno del tempio era illuminato da qualche altra lampada. Lungo le due pareti laterali erano collocate imponenti ruote di preghiera. Accanto a una statua di Budda in teak, alta quasi due metri e mezzo, erano accese candele e bastoncini d’incenso al profumo di ginepro. Alle spalle del Budda erano allineate altre divinità del pantheon.

Quando i suoi occhi cominciarono ad abituarsi all’oscurità degli interni, Lisa notò i numerosi affreschi e gli intricati mandala intarsiati nel legno; in quella luce tremula, le scene che raffiguravano apparivano demoniache. Guardò in alto. C’erano diversi ordini di travi, alti due piani, che sostenevano un grappolo di lampade pensili, tutte fredde e buie.

Ang Gelu chiamò ancora.

Da qualche parte, sopra le loro teste, si sentì uno scricchiolio.

A quel rumore improvviso si bloccarono tutti quanti. Il soldato accese una torcia elettrica e la puntò verso l’alto, muovendola avanti e indietro. Ci fu un agitarsi e un sussultare di ombre, ma nient’altro.

Sentirono di nuovo lo scricchiolio dell’assito. Qualcuno si muoveva al piano superiore. Sebbene fosse un chiaro segnale di vita, a Lisa fece venire la pelle d’oca.

«Sopra il tempio c’è una stanza privata per la meditazione», spiegò Ang Gelu. «Ci si arriva dalle scale sul retro. Vado a controllare, voi rimanete qui.»

Lisa voleva obbedire, ma sentiva il peso sia dello zaino sia della sua responsabilità. Le bestie non erano morte per mano d’uomo, ne era certa. Se c’era un sopravvissuto, qualcuno che potesse raccontare che cosa era successo, lei era la persona più adatta per incontrarlo.

«Vengo anch’io», annunciò con voce ferma, ma lasciò che fosse Ang Gelu a fare strada.

Il monaco attraversò la sala, girò attorno alla statua del Budda e raggiunse una porta ad arco, verso il retro del tempio. Proseguì scostando un drappeggio di broccato con ricami dorati. C’era un piccolo corridoio che si addentrava nella struttura. Le persiane alle finestre lasciavano trapelare soltanto qualche raggio di luce nell’oscurità polverosa, illuminando una parete imbiancata. Le macchie e gli schizzi rosso cremisi non richiedevano ulteriori indagini.

Sangue.

A metà del corridoio, due gambe nude e inerti spuntavano da una porta, distese in una pozza nera. Ang Gelu fece cenno a Lisa di ritornare nel tempio. Lei scosse il capo e sorpassò il monaco. Non si aspettava di salvare quell’uomo, chiunque fosse. Era evidente che era già morto, ma l’istinto la spingeva a proseguire. Fatti cinque passi, raggiunse il cadavere.

Le ci volle un solo istante per registrare la scena.

Gambe. Non rimaneva nient’altro di quell’uomo. Solo un paio di arti recisi, spaccati a metà coscia. Lisa continuò a fissare il resto della stanza, anzi del macello. Braccia e gambe erano impilate al centro del locale, come cataste di legna da ardere.

E poi c’erano le teste, ben allineate lungo una parete. Sguardi fissi, occhi spalancati e pieni di orrore.

Ang Gelu l’aveva raggiunta. A quella vista s’irrigidì e borbottò qualcosa che sembrava per metà preghiera e per metà imprecazione.

Per tutta risposta, qualcosa si mosse nella stanza. Emerse dall’altro capo della catasta di arti. Un uomo nudo, con la testa rasata, imbevuto di sangue come un neonato. Era uno dei monaci del tempio.

Emise un sibilo gutturale. Brillava di madida follia. La luce scarsa si rifletté nei suoi occhi, come in quelli di un lupo nella notte.

Il mostro avanzava pesantemente verso di loro, trascinando una falce lunga novanta centimetri. Lisa fuggì, allontanandosi di diversi passi lungo il corridoio.

Ang Gelu parlò dolcemente, coi palmi delle mani sollevati a mo’ di supplica, cercando evidentemente di placare quella creatura famelica. «Relu Na… Relu Na.»

Lisa capì che il monaco conosceva il folle, probabilmente da una visita precedente al monastero. Il semplice atto di dargli un nome lo umanizzava, ma allo stesso tempo rendeva ancora più raccapricciante tutto quell’orrore.

Con un urlo stridente, il monaco si scagliò contro il confratello. Ang Gelu schivò facilmente la falce. Il mostro aveva perso anche la coordinazione, oltre alla testa. Ang Gelu lo abbrancò, cingendolo in un abbraccio e bloccandolo contro uno stipite della porta.

Lisa agì rapidamente. Lasciò cadere lo zaino, tirò giù una cerniera ed estrasse una scatola di metallo, che aprì col pollice.

All’interno c’era una fila di siringhe di plastica, protette e già caricate con vari farmaci d’emergenza: morfina per il dolore, epinefrina per l’anafilassi, Lasix per l’edema polmonare. Sebbene le siringhe fossero etichettate, aveva memorizzato la posizione di ciascuna: nelle emergenze, ogni secondo era importante. Tirò fuori l’ultima siringa.

Midazolam, un sedativo iniettabile. Manie e allucinazioni non erano insolite alle altitudini elevate e a volte dovevano essere controllate chimicamente.

Tolse il cappuccio dell’ago coi denti e si precipitò verso i due monaci.

Ang Gelu teneva ancora intrappolato l’altro, che però si dibatteva e cercava di divincolarsi dalla sua presa. Ang Gelu aveva il labbro tagliato e il collo graffiato.

«Lo tenga fermo!» urlò Lisa.

Il monaco fece del suo meglio, ma in quel momento, presentendo forse l’intenzione della dottoressa, il folle si protese verso di lui e gli affondò un morso nella guancia.

Ang Gelu urlò, mentre l’altro gli dilaniava la carne, ma mantenne salda la presa.

Lisa si prodigò per aiutarlo, conficcando l’ago nel collo del pazzo. Poi spinse con forza lo stantuffo. «Lo lasci andare!»

Ang Gelu lo spinse con forza contro lo stipite, facendogli sbattere la testa contro il legno. Sia lui sia la dottoressa fecero qualche passo indietro.

«Il sedativo farà effetto in meno di un minuto.» Avrebbe preferito uno stick endovenoso, ma era impossibile, con un uomo che si dimenava in quel modo. L’iniezione intramuscolare profonda doveva bastare. Una volta che si fosse calmato, Lisa avrebbe potuto intervenire in modo più raffinato e forse ottenere anche qualche risposta.

Il monaco nudo gemette, toccandosi il collo. Il sedativo gli dava bruciore. Si scagliò di nuovo verso di loro, barcollando, cercando la falce caduta a terra. Poi si raddrizzò.

Lisa trattenne Ang Gelu. «Aspetti…»

Bang!

Il colpo di fucile, esploso nello stretto corridoio, fu assordante. La testa del monaco scoppiò in una pioggia di sangue e ossa. Il corpo cadde all’indietro per l’impatto, accartocciandosi sotto di lui.

Lisa e Ang Gelu fissavano scioccati il tiratore.

Il soldato nepalese imbracciava ancora l’arma. L’abbassò lentamente. Ang Gelu cominciò a rimproverarlo nella sua lingua madre. Ci mancava soltanto che gli togliesse il fucile.

Lisa si avvicinò al corpo e cercò di sentirgli il polso. Niente. Fissò il cadavere, cercando di trovare qualche risposta. Ci sarebbe voluto un obitorio con moderne attrezzature forensi per accertare la causa della follia. A giudicare dalla storia del messaggero, qualsiasi cosa fosse successa, non riguardava soltanto quell’uomo. Dovevano essere stati colpiti anche altri, in varia misura.

Ma da cosa? Erano stati esposti a metalli pesanti contenuti nell’acqua, a una fuga di gas velenosi dal sottosuolo o a qualche muffa tossica in cereali avariati? Poteva essere qualcosa di virale, come l’Ebola? O persino una nuova forma del morbo della mucca pazza? Cercò di ricordare se gli yak fossero soggetti al contagio, ricordando la carcassa gonfia in cortile. Non lo sapeva.

Ang Gelu ritornò accanto a lei. Aveva la guancia devastata, ma sembrava del tutto indifferente alla ferita. Tutto il suo dolore era concentrato sul cadavere. «Si chiamava Relu Na Havarshi.»

«Lo conosceva?»

«Era il cugino del marito di mia sorella. Veniva da un piccolo villaggio del Raise. Era finito nella sfera d’influenza dei ribelli maoisti, ma la loro ferocia inarrestabile non si conciliava con la sua natura, perciò era fuggito. Per i ribelli equivaleva a una sentenza di morte. Per nasconderlo, gli ho trovato un posto al monastero, dove i suoi ex compagni non l’avrebbero mai scovato. Qui aveva un luogo sereno per guarire… o almeno così pregavo che fosse. Ora dovrà trovare da sé la strada verso la pace.»

«Mi spiace.» Lisa si alzò. Ripensò alla catasta di arti nella stanza accanto. Forse la follia aveva fatto scattare una sorta di shock post-traumatico nella mente dell’uomo, facendogli mettere in atto ciò che più lo terrorizzava?

Si sentì un altro scricchiolio sopra le loro teste.

Tutti gli sguardi si rivolsero verso l’alto.

Lisa aveva dimenticato che cosa li aveva condotti lì. Ang Gelu indicò una scala stretta e ripida accanto alla porta drappeggiata che dava sul tempio. Le era sfuggita. Somigliava più a una scala a pioli che a una scala vera e propria.

«Ci vado io», disse il monaco.

«È meglio non dividerci», ribatté lei. Ritornò allo zaino e preparò un’altra siringa di sedativo. La tenne in mano. «Si assicuri soltanto che Mr. Sparaprima Pensadopo tenga il dito lontano dal grilletto.»

Il soldato fu il primo a salire. Perlustrò le immediate vicinanze e fece loro cenno di raggiungerlo. Arrivata in cima, Lisa scoprì una stanza vuota. In un angolo erano ammassate pigne di cuscini sottili. La stanza odorava di resina e dell’incenso del tempio sottostante.

Il soldato puntava il fucile contro una porta di legno all’altra estremità. Dalla fessura trapelava una luce tremula. Prima che potessero avvicinarsi, il fascio di luce fu attraversato da un’ombra.

C’era qualcuno là dentro.

Ang Gelu raggiunse la porta e bussò.

Lo scricchiolio cessò.

Il monaco disse qualcosa, rivolgendosi alla persona oltre la porta. Lisa non capì le sue parole, ma l’altro sì. Si sentì un suono di legno raschiato e di un catenaccio che si apriva. La porta si socchiuse di una fessura, non di più.

Ang Gelu poggiò il palmo sulla porta.

«Faccia attenzione», sussurrò Lisa, stringendo forte la siringa, sua unica arma.

Accanto a lei, il militare fece la stessa cosa col fucile.

Ang Gelu spinse la porta, spalancandola. La stanza non era più grande di una cabina armadio. Nell’angolo c’era un letto sporco. Accanto, un tavolino con una lampada a olio. L’aria era pregna del fetore di urina e feci che esalava da un vaso da notte scoperto, ai piedi del letto. Chiunque si fosse chiuso là dentro, non usciva ormai da giorni.

In un angolo c’era un uomo anziano, che volgeva loro le spalle. Indossava una tunica rossa come quella di Ang Gelu, ma la sua era logora e macchiata. Aveva legato le falde inferiori dell’abito attorno alle cosce, scoprendo interamente le gambe. Era intento a un progetto: scriveva sulla parete. Anzi dipingeva con le dita.

Intrise del suo stesso sangue.

Ancora follia.

Nell’altra mano teneva un pugnale corto. Le gambe nude erano segnate da tagli profondi, la fonte del suo inchiostro. Continuò a lavorare anche quando Ang Gelu entrò.

«Lama Khemsar», disse il monaco, in tono preoccupato e prudente.

Lisa entrò dopo di lui, con la siringa pronta tra le dita. Fece un cenno di assenso ad Ang Gelu, quando questi si voltò a guardarla. Poi fece cenno al soldato di stare indietro. Non voleva che si ripetesse ciò che era successo di sotto.

Lama Khemsar si girò. Aveva il viso molle e gli occhi vitrei e leggermente lattiginosi, ma la luce delle candele vi si rifletteva brillante, troppo brillante: febbrilmente brillante.

«Ang Gelu», borbottò il vecchio, fissando inebetito le centinaia di righe di testo dipinto su tutt’e quattro le pareti. Teneva alzato un dito intriso di sangue, pronto a continuare la sua opera.

Ang Gelu fece qualche passo verso di lui, chiaramente sollevato. Il capo del monastero non era ancora andato del tutto. Forse poteva dare qualche risposta. Gli parlò, nella lingua madre di entrambi.

Lama Khemsar annuì, pur rifiutandosi di essere distratto dalla sua opera scritta col sangue. Mentre Ang Gelu blandiva l’anziano monaco, Lisa studiava la parete. Sebbene quella scrittura non le fosse familiare, capiva che si trattava di un solo gruppo di simboli ripetuti innumerevoli volte.


Intuendo che il tutto doveva avere un qualche significato, Lisa infilò la mano libera nella borsa e ne estrasse la macchina fotografica. La puntò verso la parete alla bell’e meglio e scattò una foto. Si era dimenticata del flash.

Ci fu un’esplosione di luce nella stanza.

L’anziano urlò e si voltò. Brandendo il pugnale, fendette l’aria. Ang Gelu, allarmato, si ritrasse. Ma non era lui il bersaglio. Lama Khemsar urlò una serie di parole, in preda al panico, e si passò la lama attraverso la gola. Un rivolo cremisi si trasformò ben presto in un fiotto torrenziale. Il pugnale aveva reciso profondamente la trachea. Gli ultimi respiri dell’anziano monaco furono tutto un ribollire di sangue.

Con uno scatto, Ang Gelu gettò via l’arma, prese Lama Khemsar e lo adagiò sul pavimento, cullandolo tra le braccia. Il sangue gli intrise la veste, le braccia, il grembo.

Lisa poggiò macchina fotografica e borsa e si precipitò accanto ai due. Ang Gelu cercò di esercitare pressione sulla ferita, ma era inutile.

«Mi aiuti a metterlo a terra», disse Lisa. «Devo aprire un passaggio per l’aria…»

Ang Gelu scosse la testa. Sapeva che non c’era speranza. Non fece altro che cullare l’anziano Lama. Il respiro dell’uomo, indicato dalle bolle che emergevano dalla ferita, era già cessato. L’età, la perdita di sangue e la disidratazione avevano già debilitato Lama Khemsar.

«Mi spiace.» Lisa indicò le pareti con un gesto del braccio. «Pensavo che potesse essere importante.»

Ang Gelu scosse la testa. «Non hanno nessun senso, sono gli scarabocchi di un folle.»

Non sapendo che altro fare, Lisa infilò lo stetoscopio sotto la veste dell’uomo. Cercava di mascherare il senso di colpa mostrandosi indaffarata. Rimase in ascolto, invano. Neanche un battito. Scoprì invece alcune strane croste sulle costole. Scostò delicatamente i lembi della veste, denudando il petto del monaco.

Ang Gelu vi posò lo sguardo e sospirò. Evidentemente le pareti non erano l’unico mezzo che Lama Khemsar aveva scelto per esprimersi: sul petto del monaco era inciso un ultimo simbolo. A differenza degli strani simboli sulle pareti, però, la croce uncinata era inconfondibile:


Una svastica.

Ancora prima che potessero reagire, un’esplosione fece tremare l’edificio.

Ore 09.55

Si svegliò in preda al panico. Il rombo del tuono lo liberò dall’oscurità febbricitante che lo attanagliava. Anzi non era un tuono. Era un’esplosione. Dal soffitto basso colava una scia di polvere d’intonaco. Si mise a sedere, spaesato, cercando di orientarsi nel tempo e nello spazio. La stanza gli girava leggermente attorno. Guardò giù, levandosi di dosso la coperta di lana macchiata. Era disteso su una strana branda, non aveva addosso nient’altro che un perizoma di lino. Sollevò un braccio. Tremava. Aveva la bocca impastata e, anche se le persiane riparavano la stanza dalla luce, gli facevano male gli occhi. Un attacco di brividi lo fece tremare tutto.

Non aveva idea né del dove né del quando.

Facendo scivolare le gambe giù dalla branda, tentò di alzarsi. Una pessima idea. Il mondo si oscurò di nuovo. Si accasciò, e sarebbe ripiombato nell’oblio, ma una raffica di colpi d’arma da fuoco lo ridestò. Era un’arma automatica. Vicina. La breve raffica scemò.

Provò di nuovo, con maggiore determinazione. Cominciò a ritornargli la memoria, mentre barcollava verso l’unica porta, ci andava a sbattere, si sosteneva con le braccia e cercava di usare la maniglia. Era chiusa a chiave.

ore 09.57

«Era l’elicottero», disse Ang Gelu. «È stato distrutto.»

Lisa era accanto alla finestra. Qualche attimo prima, mentre l’eco dell’esplosione si disperdeva, avevano sganciato i fermi e spalancato le persiane. Pensando di aver visto del movimento nel cortile sottostante, il soldato aveva sparato una raffica a casaccio.

Nessuno aveva risposto al fuoco.

«Può essere che sia stato il pilota?» chiese Lisa. «Forse c’era un problema al motore.»

Il soldato mantenne la sua postazione accanto alla finestra, col calcio del fucile poggiato sul davanzale e con un occhio nel mirino, scrutando il cortile.

Ang Gelu indicò la scia di fumo oleoso che si sollevava dai campi di patate, nel punto esatto in cui si era posato l’elicottero. «Non credo che sia stato un incidente.»

«E adesso che cosa facciamo?» chiese Lisa. Forse un altro dei monaci folli aveva fatto saltare l’elicottero? In tal caso, quanti altri maniaci in libertà c’erano nel monastero? Rivide nella mente l’immagine del folle che brandiva la falce, l’automutilazione del monaco… che diavolo stava succedendo?

«Dobbiamo andarcene», sentenziò Ang Gelu.

«E dove?»

«Ci sono piccoli villaggi e fattorie sparse a una giornata di cammino. Qualunque cosa sia accaduta qui, ci vorranno più di tre persone per capirlo.»

«E che ne sarà degli altri? Alcuni forse non sono irrecuperabili come il cugino di suo cognato. Non dovremmo cercare di aiutarli?»

«La mia prima preoccupazione deve essere la sua sicurezza, dottoressa Cummings. Inoltre bisogna che le autorità siano informate.»

«E se l’agente che ha colpito queste persone fosse contagioso? Viaggiando potremmo diffonderlo.»

Il monaco si tastò la guancia ferita. «Ora che l’elicottero è distrutto, non abbiamo mezzi di comunicazione. Se rimaniamo qui, moriremo anche noi… e il resto del mondo non saprà nulla.» Era una osservazione giusta. «Possiamo ridurre al minimo i contatti con altre persone finché non ne sapremo di più. Chiedere aiuto, ma mantenere una distanza di sicurezza.»

«Nessun contatto fisico», mormorò lei.

Il monaco annuì. «Le informazioni che abbiamo giustificano il rischio.»

Lisa espresse il suo assenso con un lento cenno del capo. Fissò la colonna di fumo nero che si stagliava contro il cielo blu. Forse uno del loro gruppo era già morto ed era impossibile dire quale fosse il numero effettivo delle vittime nel monastero. L’esplosione aveva sicuramente messo in allarme anche qualcun altro. Se volevano fuggire, dovevano sbrigarsi.

«Andiamo», disse infine.

Ang Gelu si rivolse al soldato, in tono asciutto. Il militare si drizzò in piedi con un cenno d’assenso e abbandonò la sua postazione alla finestra, tenendo sempre pronto il fucile.

Lisa diede un ultimo sguardo preoccupato alla stanza e al monaco, riflettendo sulle possibilità di contagio. Erano già contaminati? Mentre seguiva gli altri fuori dalla stanza e giù per la scala, valutò le proprie condizioni. Aveva la bocca asciutta, le facevano male le mascelle e sentiva il cuore pulsare in gola. Ma era soltanto la paura, giusto? Era una situazione del tipo «fuggi o combatti», quelle reazioni involontarie erano normali. Si toccò la fronte: era umida, ma non febbricitante. Poi fece un respiro profondo per riprendere il controllo e riconoscere quanto era stata sciocca. Anche se si fosse trattato di un agente contagioso, di sicuro il periodo di incubazione sarebbe stato superiore a un’ora.

Attraversarono la sala principale del tempio, col Budda in teak e con le altre divinità al suo cospetto. Dalla porta penetrava una luce abbagliante. Il militare che faceva loro da scorta controllò il cortile per un intero minuto, poi diede un cenno di via libera. Lisa e Ang Gelu lo seguirono. Uscendo nel cortile, Lisa sondò gli angoli bui, alla ricerca di movimenti improvvisi. Sembrava che tutto fosse di nuovo tranquillo.

Ma non per molto…

Alle sue spalle, una seconda detonazione devastò l’edificio. L’onda d’urto la gettò a terra, carponi. Si chinò e rotolò su una spalla, per guardare indietro.

Le tegole erano decollate verso il cielo, tra le fiamme. Dalle finestre distrutte scaturirono un paio di meteore infuocate, mentre la porta d’ingresso esplodeva in una catastrofe di schegge, eruttando altro fumo e fuoco. Lisa fu investita da un calore paragonabile alle esalazioni di un altoforno.

Qualche passo più avanti, il soldato era finito a terra in seguito all’esplosione. Era riuscito a tenere il fucile soltanto perché aveva intrecciato le dita nella cinghia di pelle. Si rialzò in fretta, mentre dal cielo cadeva una pioggia di tegole infrante.

Ang Gelu si alzò in piedi e porse la mano a Lisa.

Fu la sua rovina.

Dallo strepitio delle fiamme emerse un’altra detonazione, più secca. Un colpo di fucile. La parte superiore del viso del monaco scoppiò in una nuvola di sangue.

Ma questa volta non era opera della sua scorta.

Il soldato aveva ancora il fucile appeso in spalla, mentre fuggiva dalla pioggia di detriti. Sembrava che non avesse sentito il colpo, ma spalancò gli occhi quando Ang Gelu si rovesciò al suolo. Reagendo puramente d’istinto, scartò a destra, lanciandosi nell’ombra dell’edificio vicino. Gridò a Lisa qualcosa di incomprensibile, in preda al panico.

Lisa batté in ritirata a mo’ di granchio, verso l’entrata del tempio. Un altro colpo rimbalzò sulla pietra del cortile, a un soffio dai suoi piedi. La dottoressa si lanciò attraverso la soglia, nell’oscurità dell’interno.

Nascosta dietro un angolo, guardò il soldato camminare rasente il muro, attento a ripararsi dalla posizione in cui riteneva che fosse appostato il cecchino.

Lisa si dimenticò come respirare, lo sguardo fisso e gli occhi spalancati. Scrutò i tetti e le finestre. Chi aveva sparato ad Ang Gelu?

Poi lo vide.

Un’ombra corse veloce attraverso il fumo che scaturiva dall’edificio più lontano. Lisa intravide un riflesso di fiamme su una superficie di metallo, mentre l’uomo correva. Un’arma. Il cecchino aveva abbandonato la sua postazione originaria e cercava di guadagnare una posizione di vantaggio.

Lisa ritornò all’aperto, pregando che l’ombra la nascondesse bene. Gridò e fece cenno al soldato. Questi si muoveva verso di lei, verso il tempio principale, con le spalle al muro, lo sguardo e l’arma puntati sui tetti sovrastanti. Non aveva visto il cecchino fuggire.

Lisa gridò ancora. «Via! Via!» Non parlava la lingua del soldato, ma il terrore nella sua voce era evidente. I loro sguardi s’incrociarono. Lei gli fece cenno di raggiungerla nel suo nascondiglio. Fece altri segni, cercando di illustrare il percorso di fuga del cecchino. Ma dov’era andato? Era già appostato? «Corri!»

Il soldato fece un passo verso di lei. Un bagliore alle spalle dell’uomo rivelò l’errore di Lisa. Il cecchino non correva verso una nuova posizione di vantaggio. Dietro una finestra dell’edificio vicino cominciarono a danzare le fiamme: un’altra bomba.

La detonazione colse di sprovvista il militare. La porta alle sue spalle esplose in migliaia di frammenti infuocati che lo trafissero mentre l’onda d’urto lo sollevava di peso e lo scaraventava in mezzo al cortile. Atterrò pesantemente a faccia in giù e cominciò a scivolare. Una volta fermatosi, non si mosse più, anche quando i vestiti presero fuoco.

Lisa si riparò all’interno del tempio principale, continuando a scrutare l’entrata. Batté in ritirata verso l’uscita sul retro, verso quell’angusto corridoio. Non aveva nessun piano. Anzi riusciva a malapena a controllare i propri pensieri. Era certa soltanto di una cosa. Chiunque avesse assassinato Ang Gelu e il soldato non era un monaco folle. Quelle azioni erano troppo calcolate, erano esecuzioni programmate.

E ormai era rimasta sola.

Diede un’occhiata al corridoio e vide il corpo insanguinato di Relu Na. Il resto del corridoio sembrava sgombro. Forse poteva prendere la falce abbandonata dal morto: almeno avrebbe avuto un’arma di qualche tipo…

Entrò nel corridoio.

Prima ancora che potesse fare un secondo passo, dietro di lei si materializzò una presenza. Un braccio nudo le strinse il collo in una morsa e una voce rauca le risuonò nell’orecchio: «Non ti muovere».

Non essendo mai stata incline all’obbedienza, Lisa assestò una gomitata nella pancia dell’aggressore.

Il braccio allentò la presa e l’uomo cadde, strappando i tendaggi di broccato ricamato che adornavano l’ingresso e finendo col fondoschiena per terra.

Lisa si girò di scatto, con le ginocchia flesse, pronta a correre.

L’uomo indossava soltanto un perizoma. Aveva la pelle molto abbronzata, ma segnata qua e là da vecchie cicatrici. I capelli neri lisci e disordinati gli coprivano parte del viso. A giudicare dalla sua statura, dalla muscolatura e dalle spalle larghe, sembrava più un nativo americano che un monaco tibetano.

Ma forse era solo l’effetto del perizoma.

Gemendo, alzò lo sguardo verso di lei. La luce della lampada si specchiò in un paio di occhi blu ghiaccio.

«Chi sei?» chiese Lisa.

«Painter», rispose lui con un lamento. «Painter Crowe.»


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