Текст книги "L'ordine del sole nero"
Автор книги: James Rollins
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Триллеры
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6. IL BRUTTO ANATROCCOLO
Himalaya,
ore 01.22
Lisa era immersa in un bagno fumante di acque termali. Poteva chiudere gli occhi e immaginarsi in un costoso stabilimento idroterapico europeo. Gli accessori di quella stanza erano decisamente raffinati: morbidi asciugamani e accappatoi di cotone egiziano, un enorme letto a baldacchino con una montagna di coperte, accatastate su una trapunta di piumino d’oca alta trenta centimetri. Alle pareti erano appesi arazzi medievali e i pavimenti di pietra erano ricoperti di tappeti turchi.
Painter era nella sala adiacente, impegnato a rattizzare il fuoco del piccolo camino.
Condividevano quella confortevole cella.
Painter aveva detto ad Anna Sporrenberg che loro due stavano assieme, in America. Uno stratagemma per evitare di essere separati.
Lisa non aveva avuto nulla da ridire. Non voleva restare sola.
Anche se la temperatura era al limite dell’ebollizione, la donna aveva i brividi. Da medico, riconosceva i segni dello shock: l’adrenalina che l’aveva sostenuta fino a quel momento cominciava a svanire. Si ricordò di come si era scagliata contro quella tedesca, quasi aggredendola. Che cosa le era saltato in mente? Aveva rischiato che li facessero fuori entrambi.
E per tutto quel tempo, invece, Painter era rimasto così calmo. Anche in quel momento la rassicurava sentirlo mentre aggiungeva un altro pezzo di legno al fuoco, un atto semplice per procurare sollievo e ristoro a tutti e due. Doveva essere esausto. Lui aveva già fatto il bagno, non tanto per motivi igienici, quanto come rimedio contro un principio di congelamento. Lisa aveva notato le chiazze bianche che aveva alle estremità delle orecchie e aveva insistito perché usasse la vasca per primo.
A lei era andata meglio, perché aveva vestiti più pesanti. Comunque s’immerse completamente nella vasca, sprofondando sott’acqua anche con la testa. Il calore le pervase il corpo, riscaldando tutti i tessuti. Le si acuirono i sensi. Non doveva fare altro che inspirare, lasciarsi annegare. Un attimo di panico, poi sarebbe finito tutto: la paura, la tensione. Avrebbe ripreso il controllo del proprio destino, si sarebbe riappropriata di ciò che i suoi carcerieri tenevano in ostaggio.
Solo un respiro…
«Hai quasi finito?» Il suono di quelle parole, smorzato dall’acqua, le sembrava molto distante. «Ci hanno portato uno spuntino.»
Lisa riemerse dall’acqua e dal vapore, i capelli e il viso gocciolanti. «Sì… Esco tra un minuto.»
«Fai con comodo», replicò Painter dall’altra stanza.
Lo sentì aggiungere altra legna al fuoco.
Dove trovava la forza di muoversi? Prima costretto a letto per tre giorni, poi la lotta nel seminterrato, infine quel viaggio al gelo… Eppure andava avanti imperterrito. Forse era soltanto la disperazione, ma percepiva in lui una sorgente di forza che andava oltre la resistenza fisica.
Mentre pensava a quell’uomo, smise finalmente di tremare. Uscì dalla vasca con la pelle fumante e si tamponò con un asciugamano. Appeso a un gancio c’era un morbido accappatoio. Lo lasciò lì ancora per un istante. Accanto a un antico lavabo c’era uno specchio che arrivava fino al pavimento. La superficie era appannata, ma rifletteva comunque la sua figura nuda. Ruotò una gamba, non per un vezzo narcisistico, ma per esaminare la mappa dei lividi sparpagliati sull’arto. I polpacci doloranti le ricordarono una cosa essenziale.
Era ancora viva.
Diede un’occhiata alla vasca.
Non avrebbe concesso loro quella soddisfazione. Sarebbe andata sino in fondo.
S’infilò l’accappatoio. Dopo aver stretto la cintura attorno alla vita, uscì dal bagno. L’altra stanza era più calda. Arrivando, avevano trovato una temperatura accettabile, grazie a una ventola di riscaldamento, ma il fuoco acceso nel camino l’aveva resa molto più accogliente. Il piccolo focolare crepitava allegramente, diffondendo una luce calda e tremolante. L’unica altra illuminazione, una serie di candele accese accanto al letto, contribuiva all’atmosfera intima.
Non c’era elettricità.
Anna Sporrenberg aveva spiegato orgogliosamente che il castello era alimentato quasi interamente a energia geotermica, grazie a un progetto centenario di Rudolf Diesel, l’ingegnere tedesco dai natali francesi che avrebbe in seguito inventato il motore diesel. In ogni caso, l’elettricità non doveva essere sprecata ed era quindi disponibile solo in alcune aree selezionate del castello, tra le quali non rientrava la loro stanza.
Painter si voltò a guardarla, quando entrò. Lei notò che, coi capelli arruffati, lui aveva un’aria sbarazzina. A piedi nudi e avvolto in un accappatoio identico al suo, riempì due tazze di coccio con una bevanda fumante.
«Tè al gelsomino», spiegò, facendole cenno di accomodarsi su un piccolo divano davanti al fuoco. Su un tavolino era poggiato un vassoio con vari formaggi, un pane nero, roast beef a fette e una scodella di more con un piccolo bricco di panna.
«La nostra ultima cena?» chiese Lisa, cercando di suonare disinvolta, ma senza riuscirci.
Painter batté con la mano il posto accanto a lui mentre si sedeva.
Lei lo raggiunse.
Mentre lui tagliava il pane, Lisa prese un pezzetto di cheddar stagionato. Lo annusò e lo rimise sul vassoio. Non aveva appetito.
«Dovresti mangiare», le consigliò Painter.
«Perché? Per essere più forte quando ci riempiranno di farmaci?»
Painter arrotolò una fetta di roast beef e se la infilò in bocca. Continuò a parlare mentre masticava: «Nulla è certo. Se c’è una cosa che ho imparato nella vita è proprio questa».
Poco convinta, lei scosse la testa. «Che vuoi dire, quindi? Speriamo che tutto vada per il meglio?»
«Personalmente preferisco avere un piano.»
«Ce l’hai?»
«Uno molto semplice. Senza raffiche di mitra e pioggia di granate.»
«E allora?»
Lui ingoiò il roast beef e si voltò verso di lei. «Una cosa che, sorprendentemente, funziona un sacco di volte.»
Lei aspettava una risposta. «E cioè?»
«L’onestà.»
Lisa si accasciò sul divano, lasciando cascare le spalle. «Grandioso.»
Painter raccolse una fetta di pane, ci spalmò uno spesso strato di senape, aggiunse una fetta di roast beef e, per finire, un pezzo di cheddar. Poi porse il tutto a Lisa. «Mangia.»
Sospirando, lei prese la sua creazione, solo per fargli piacere.
Painter ne preparò un’altra per sé. «Per esempio, io sono il direttore di una divisione della DARPA che si chiama Sigma. Siamo specializzati nelle indagini sulle minacce contro gli Stati Uniti. Insomma, siamo il braccio armato della DARPA.»
Lisa rosicchiò la crosta del pane, sentendo il sapore intenso della senape fresca. «Possiamo aspettarci un’azione di soccorso da parte dei tuoi colleghi?»
«Ne dubito. Non nei tempi che abbiamo a disposizione. Ci vorranno giorni perché scoprano che il mio cadavere non è sepolto sotto le macerie del monastero.»
«Allora non capisco…»
Painter sollevò una mano, sgranocchiò un boccone di panino e continuò a parlare con la bocca piena. «Sto parlando di onestà. Dire le cose come stanno, apertamente, e vedere che cosa succede. Qualcosa ha attirato l’attenzione della Sigma, da queste parti. Storie di strane malattie. Dopo così tanti anni di operazioni condotte nell’ombra, perché tutti questi passi falsi negli ultimi mesi? Io non sono uno che crede molto alle coincidenze. Ho sentito Anna parlare col soldato assassino. Ha accennato a un problema, qualcosa che li lascia sconcertati. Forse i nostri obiettivi non sono tanto diversi. Forse c’è spazio per una cooperazione.»
«E ci lascerebbero in vita?» chiese lei, con un tono a metà tra lo scherno e la speranza. Poi morse il panino, per non sentirsi troppo sciocca.
«Non lo so», rispose lui, onestamente. «Finché ci dimostriamo utili, forse sì. E, se riuscissimo a guadagnare un paio di giorni, aumenterebbero le possibilità di essere salvati oppure di un cambiamento delle circostanze.»
Lisa masticò il cibo, riflettendo. Senza neanche rendersene conto, si ritrovò a mani vuote. E aveva ancora fame. Divisero la scodella di more, versandoci sopra la panna.
Guardò Painter da una nuova prospettiva. Non era soltanto forte e caparbio. Dietro quegli occhi blu si nascondevano anche una vivace intelligenza e una buona dose di buon senso. Sentendosi osservato, lui le lanciò un’occhiata. Lisa ritornò immediatamente a studiare il vassoio.
Finirono di mangiare in silenzio, sorseggiando il tè. Con lo stomaco pieno, la stanchezza si fece sentire. Anche parlare era una fatica. In più, a Lisa piaceva stare seduta in silenzio accanto a lui. Sentiva il suo respiro e il profumo della sua pelle appena lavata.
Mentre finiva di bere il tè addolcito col miele, notò che Painter si sfregava la tempia destra, strabuzzando gli occhi. La cefalea stava ritornando. Non voleva giocare a fare la dottoressa e preoccuparlo con un atteggiamento clinico, ma lo osservò con la coda dell’occhio. Gli tremavano le dita dell’altra mano. Notò la leggera vibrazione delle sue pupille, mentre guardava il fuoco che si spegneva lentamente.
Painter aveva parlato di onestà, ma voleva sapere la verità sulle sue condizioni di salute? Gli attacchi sembravano più frequenti e una parte di lei era abbastanza egoista da aver paura, non per la salute di Painter, ma per la esigua speranza di sopravvivere che lui le aveva infuso. Aveva bisogno di lui.
Lisa si alzò. «Dobbiamo dormire un po’. Presto si farà giorno.»
Painter gemette, ma annuì. Si alzò. Vacillò e lei dovette sostenerlo per un braccio.
«Sto bene», disse lui.
Alla faccia dell’onestà.
Lisa lo condusse fino al letto e tirò indietro le coperte.
«Posso dormire sul divano», propose lui, opponendo resistenza.
«Non essere ridicolo e mettiti a letto. Non è il momento di preoccuparsi del pudore. Siamo in una roccaforte nazista.»
« Exnazista.»
«Già, questo sì che è confortante.»
Painter salì sul letto con un sospiro, con tanto di accappatoio addosso. Lei girò dall’altro lato e fece altrettanto, spegnendo le candele. Le ombre s’ispessirono, ma il fuoco morente continuava a diffondere una luce piacevole nella stanza. Lisa non era certa di poter sostenere un’oscurità completa.
Si sistemò sotto le coperte, tirandole su fino al mento. Lasciò uno spazio tra loro due, rivolgendo la schiena a Painter.
Lui percepì la sua paura e si voltò verso di lei. «Se moriremo, lo faremo assieme.»
Non erano esattamente le parole rassicuranti che si aspettava di sentire, ma allo stesso tempo le davano uno strano conforto. Nelle parole di Painter, nel suo tono di voce, c’era qualcosa: forse l’onestà, forse una promessa… In ogni caso, furono molto più efficaci di qualsiasi traballante rassicurazione sulla loro incolumità.
Lei gli credeva.
Accoccolandosi vicino a lui, gli prese la mano. Le loro dita s’intrecciarono. Nulla a che vedere col sesso, era solo il bisogno di un contatto fisico. Lei gli prese un braccio e se lo avvolse attorno.
Lui le strinse forte la mano, rassicurante. Allora lei gli si avvicinò ancora di più e Painter si voltò per abbracciarla meglio.
Lisa chiuse gli occhi, senza aspettarsi di dormire. Eppure, stretta tra le braccia di lui, alla fine si addormentò.
Copenhagen, Danimarca,
ore 22.39
Gray guardò l’orologio.
Erano nascosti da oltre due ore. Lui e Fiona si erano intrufolati nel condotto della Minen, la miniera. Era una vecchia attrazione animatronica, con vetture che passavano davanti ad animali di cartone simili a talpe che, vestite da minatori, lavoravano in una stravagante cava sotterranea. Lo stesso ritornello musicale si ripeteva di continuo, in una versione uditiva della tortura cinese dell’acqua.
Poco dopo essersi mischiati alla folla di Tivoli, Gray e Fiona erano saltati su una vettura, fingendo di essere padre e figlia. Alla prima curva non sorvegliata, però, erano scesi e si erano nascosti in una cabina di servizio, dietro una porta col simbolo di una scarica elettrica. Non essendo arrivato in fondo al percorso, Gray poteva soltanto immaginare come sarebbe andato a finire: con quelle creature simili a talpe felicemente ricoverate in ospedale, malate di antracosi.
O almeno così sperava.
Il brioso ritornello si ripeté per la millesima volta. Forse non era terribile quanto It’s a Small Worlddi Disneyland, ma ci mancava poco.
Gray aveva la Bibbia di Darwin aperta in grembo. Ne stava esaminando le pagine con una penna luminosa, alla ricerca di indizi che ne giustificassero l’importanza. La testa gli pulsava di dolore a tempo di musica.
«Hai una pistola?» chiese Fiona, accovacciata in un angolino con le braccia conserte. «Se ce l’hai, sparami subito.»
Gray sospirò. «Manca solo un’altra ora.»
«Non ce la farò mai.»
Il piano era aspettare che il lunapark chiudesse. Gray era sicuro che ormai tutte le uscite fossero sotto sorveglianza, perciò la loro unica speranza era tentare la fuga durante l’esodo di massa dal parco, a mezzanotte. Aveva tentato di farsi confermare l’arrivo di Monk all’aeroporto di Copenhagen, ma il ferro e il rame del vecchio edificio disturbavano il campo del cellulare. Dovevano arrivare all’aeroporto.
«Hai scoperto qualcosa nella Bibbia?» chiese Fiona.
Gray scosse la testa. L’albero genealogico, o, meglio, evolutivo, della famiglia Darwin, raffigurato all’interno della copertina, era particolarmente affascinante. Ma per il resto, nelle pagine che aveva esaminato fino a quel momento, la carta fragile e delicata non conteneva nessun indizio. Aveva scoperto soltanto qualche scarabocchio. Lo stesso segno ripetuto all’infinito, in numerose posizioni diverse.
Gray diede un’occhiata al suo taccuino. Aveva annotato i simboli nell’ordine in cui li aveva trovati, scritti a margine della Bibbia. Non sapeva se li avesse fatti Darwin o il successivo proprietario del volume.
Spinse il taccuino verso Fiona.
«Ci vedi qualcosa di familiare?»
La ragazza sospirò e guardò di traverso i simboli.
«Impronte di uccellini», commentò. «Non vale la pena di scervellarsi.»
Gray s’irritò, ma tacque. L’umore di Fiona era peggiorato. Gli piaceva di più quando era vendicativa e compiaciuta, oppure pazza di rabbia. Da quando erano imprigionati lì dentro, sembrava che si fosse chiusa in se stessa. Gray sospettava che avesse incanalato tutto il dolore e le energie in quello stratagemma per impadronirsi della Bibbia, quella piccola vendetta contro gli assassini di sua nonna; ma, mentre erano chiusi lì al buio, la realtà stava tornando a galla.
Che cosa poteva fare? Prese carta e penna, cercando un sistema per farla concentrare sul presente. Disegnò un altro simbolo: il piccolo tatuaggio che aveva visto sul dorso della mano del compratore.
Le passò il taccuino. «Che ne dici di questo?»
Con un sospiro ancora più accentuato, lei si sporse in avanti a guardare un’altra volta. Scosse la testa. «Un quadrifoglio? Non so. Che cosa dovrebbe… Aspetta.» Prese il taccuino e guardò meglio. Sgranando gli occhi, esclamò: «Ma questo l’ho già visto!»
«Dove?»
«Su un biglietto da visita. Ma non era proprio così, aveva solo i contorni.» Prese la penna e cominciò a disegnare.
«Di chi era il biglietto da visita?»
«Di quello stronzo che è venuto a scartabellare nei nostri archivi mesi fa. Il tipo che ci ha fregato con la carta di credito falsa.» Fiona continuò a disegnare. «E, tu, dove l’hai visto?»
«Era tatuato sulla mano dell’uomo che ha comprato la Bibbia.»
«Lo sapevo! C’è sempre lo stesso bastardo dietro tutta questa storia. Prima cerca di rubarla, poi copre le sue tracce uccidendo Mutti e incendiando il negozio.»
«Ti ricordi il nome sul biglietto da visita?»
Fiona scosse la testa. «Soltanto il simbolo, perché l’avevo riconosciuto.»
Gli passò lo schizzo che aveva fatto. Era un disegno più dettagliato, che, rispetto al tatuaggio, rivelava meglio l’intreccio del simbolo.
Gray picchiettò un dito sul foglio. «Hai riconosciuto questo simbolo?»
Fiona annuì. «Colleziono spille. Certo, con questi vestiti orribili non ho potuto metterne neanche una.»
Gray ricordò la felpa col cappuccio, quella che Fiona indossava quando l’aveva vista la prima volta, ornata di spille e distintivi di ogni forma e misura.
«Ho avuto una fase celtica. Ascoltavo solo quella musica e avevo un sacco di spille con disegni celtici.»
«E questo simbolo?»
«Si chiama Quadrato della Terra o Croce di San Giovanni. È una protezione, invoca i quattro angoli della terra per ottenere potere.» Indicò i cerchi simili a un quadrifoglio. «E per questo che a volte lo chiamano nodo-scudo. Serve a proteggerti.»
Gray si concentrò, ma non trovò nessun significato in quell’indizio.
«È per questo che ho detto a Mutti di fidarsi di quel tizio», aggiunse Fiona, afflosciandosi contro la parete. La sua voce divenne un sussurro, come se avesse paura di parlare. «A lei non piaceva quell’uomo. Era una reazione di pelle. Ma, quando io ho visto quel simbolo sul suo bigliettino, ho pensato che doveva essere un tipo a posto.»
«Non potevi saperlo.»
«Mutti invece lo sapeva», replicò lei, tagliente. «E adesso è morta. Per colpa mia.» Nelle sue parole risuonavano il senso di colpa e la rabbia.
«Sciocchezze.» Gray le si avvicinò e le mise un braccio attorno alle spalle. «Chiunque siano queste persone, erano molto determinate fin dall’inizio. Lo sai anche tu. Avrebbero trovato un modo per impadronirsi di quelle informazioni nel vostro negozio. Non avrebbero mai accettato un no. Se tu non avessi convinto tua nonna a lasciargli guardare gli archivi, avrebbero potuto farvi fuori tutt’e due all’istante.»
Fiona si appoggiò a lui.
«Tua nonna…»
«Non era mia nonna», lo interruppe lei, con la voce soffocata.
Gray se l’era immaginato, ma rimase in silenzio, lasciandola parlare.
«Mi ha sorpreso mentre tentavo di rubare un po’ di roba dal suo negozio. Due anni fa. Ma non ha chiamato la polizia. Mi ha preparato una zuppa di pollo e orzo.»
Gray non aveva bisogno di vedere il viso di Fiona per sapere che aveva abbozzato un sorriso.
«Era fatta così. Ha sempre aiutato i ragazzi di strada. Raccattava i randagi.»
«Come Bertal.»
«E me.» Restò in silenzio per un lungo istante. «I miei genitori sono morti in un incidente stradale. Erano immigrati pakistani, del Punjab. Avevamo una casetta a Waltham Forest, a Londra, c’era anche il giardino. Parlavamo di prendere un cane. Poi… sono morti.»
«Mi spiace, Fiona.»
«Mia zia e mio zio mi hanno preso con loro. Erano appena arrivati dal Punjab.» Un’altra lunga pausa. «Dopo un mese, lui ha cominciato a venire nella mia stanza di notte.»
Gray chiuse gli occhi.
«Perciò sono scappata. Ho vissuto per la strada a Londra, per un paio d’anni, ma mi sono cacciata in un guaio con le persone sbagliate. Dovevo scappare di nuovo. Perciò ho lasciato l’Inghilterra e sono andata in giro con lo zaino per l’Europa. Alla fine sono arrivata qui.»
«E Grette ti ha preso con sé.»
«Ma adesso è morta anche lei.» Ancora una volta l’eco del senso di colpa. «Forse porto sfortuna.»
Gray la strinse a sé. «Ho visto come ti guardava. Per lei averti con sé non è stata una sfortuna. Ti voleva bene.»
«Lo so…» Fiona si voltò dall’altra parte. Cominciò a sussultare e a singhiozzare sommessamente. Gray la tenne stretta. Alla fine lei si voltò e affondò il viso tra le sue braccia. A quel punto anche Gray dovette lottare col senso di colpa. Grette era una donna così generosa, amorevole e istintiva, gentile e comprensiva. E ormai era morta. Lui doveva fare i conti con le sue colpe. Se avesse proceduto con maggiore cautela, se fosse stato meno avventato in quell’indagine…
Quale prezzo per quella trascuratezza.
Fiona continuò a singhiozzare.
Anche ammesso che l’omicidio e l’incendio fossero già pianificati a prescindere dalle sue indagini grossolane, Gray giudicò le sue azioni successive. Era fuggito, abbandonando Fiona nel caos, lasciandola sola col suo dolore. Ricordò come l’aveva chiamato, prima arrabbiata, poi implorante.
Lui non si era fermato.
«Adesso non ho nessuno», disse Fiona, piangendo sommessamente sull’abito di Gray.
«Hai me.»
Lei si tirò indietro, con gli occhi gonfi di lacrime. «Ma anche tu te ne andrai.»
«E tu verrai con me.»
«Ma hai detto…»
«Lascia perdere quello che ho detto.» Gray sapeva che la ragazza non era più al sicuro. Sarebbe stata eliminata. Se non per impadronirsi della Bibbia, per metterla a tacere. Sapeva troppe cose. «Hai detto che sapevi l’indirizzo che c’era sulla ricevuta di vendita della Bibbia.»
Fiona lo guardò con evidente sospetto. Aveva smesso di singhiozzare. Si allontanò, valutando se la sua solidarietà fosse soltanto uno stratagemma per farle dire ciò che sapeva.
Gray capì la sua diffidenza, imparata per strada, e sapeva che era meglio non insistere. «Ho un amico che sta per arrivare con un jet privato. Dovrebbe atterrare a mezzanotte. Possiamo metterci in contatto con lui e andare dove vogliamo, con l’aereo. Puoi dirmi dove dobbiamo andare quando siamo a bordo.» Gray le porse una mano, pronto a suggellare l’accordo.
Guardandolo di traverso, con un occhio semichiuso, Fiona gli strinse la mano. «Affare fatto.»
Era una piccola pezza rispetto agli errori del giorno precedente, ma era un inizio. Bisognava toglierla dai pericoli e, una volta sull’aeroplano, sarebbe stata al sicuro. Poteva rimanere a bordo, sorvegliata, mentre lui e Monk proseguivano l’indagine.
Fiona gli passò il taccuino con tutti i simboli scarabocchiati. «Tanto perché tu ti faccia un’idea, dobbiamo andare a Paderborn, in Germania. Ti rivelerò l’indirizzo esatto quando saremo là.»
Gray prese quella concessione come un piccolo indice di fiducia. «Bene.»
L’accordo era concluso.
«Ora, se solo tu potessi far smettere questa musica…» aggiunse la ragazza, gemendo per la stanchezza.
Per tutta risposta, l’incessante cantilena s’interruppe. Anche il ronzio costante delle macchine e il rumore secco delle vetture sui binari cessarono. Nell’improvviso silenzio, fuori dall’angusta porticina risuonarono i passi di qualcuno.
Gray si alzò. «Stai dietro di me.»
Fiona raccolse la Bibbia e la infilò nella borsa. Gray prese una spranga di ferro che aveva trovato poco prima.
La porta si aprì e una luce intensa li abbagliò.
Sorpreso, l’uomo sbraitò in danese: «Che ci fate qui?»
Gray abbassò la spranga. Era stato sul punto di colpire un tizio con la divisa da manutentore.
«La giostra è chiusa», disse l’uomo, facendosi da parte. «Uscite di qui, prima che chiami la sicurezza.»
Gray obbedì. L’operaio lo guardò male mentre gli passava davanti. Capì che impressione doveva fare la scena. Un uomo e un’adolescente nascosti nella cabina di un lunapark.
«Tutto a posto, signorina?» chiese l’operaio. Doveva aver notato gli occhi gonfi e i vestiti strappati.
«Stiamo bene», rispose lei, prendendo sottobraccio Gray e ancheggiando un po’. «Ha pagato un extra per questo giro.»
L’uomo assunse un’espressione di disgusto. «L’uscita posteriore è da questa parte.» Indicò un’insegna luminosa. «Non fatevi più beccare qui dentro. È pericoloso gironzolare da queste parti.»
Mai pericoloso quanto fuori. Gray fece strada verso la porta e l’aprì. Guardò l’ora. Erano da poco passate le undici. Il parco era aperto ancora per un’ora. Forse era meglio provare a uscire subito. Girarono attorno all’edificio e videro che quell’area del lunapark era deserta. Non c’era da meravigliarsi che avessero chiuso quell’attrazione così presto.
Gray sentì musica e schiamazzi provenienti dal lago in mezzo al parco.
«Si stanno radunando tutti per la parata e per i fuochi d’artificio», spiegò Fiona.
Gray pregò che lo spettacolo pirotecnico di quella sera non finisse con persone insanguinate e in preda al panico. Scrutò le immediate vicinanze. Le lanterne illuminavano la notte, le aiuole straripavano di tulipani. I viali di cemento e le piazzole erano poco popolati in quella zona. Erano troppo esposti.
Gray individuò un paio di agenti di sicurezza, un uomo e una donna, che camminavano un po’ troppo decisi nella loro direzione. L’operaio della manutenzione aveva cambiato idea e aveva avvertito la sicurezza?
«È ora di svignarsela di nuovo», disse Gray, trascinando Fiona nella direzione opposta. Si avviò verso il punto in cui convergeva la folla. Camminavano a passo spedito, all’ombra degli alberi. Come due visitatori ansiosi di guardare la sfilata.
Si lasciarono alle spalle i sentieri tra le aiuole ed entrarono nella piazza centrale col grande lago, illuminato dalle luci e dalle lanterne dei padiglioni e dei palazzi circostanti. La folla acclamò il primo dei carri della parata, che entrava nella piazza in quel momento. Era alto tre piani e rappresentava una sirena su uno scoglio, decorata con luci colore verde smeraldo e celeste. Era seguito da altri carri sfavillanti, con fantocci animati alti cinque metri. Il tutto accompagnato da gioiose melodie di flauti e rulli di tamburi.
«È la sfilata di Hans Christian Andersen», disse Fiona. «Celebra il duecentesimo anniversario dello scrittore, santo patrono della città.»
Gray avanzò con lei verso la folla assiepata ai lati del percorso dei carri, attorno al lago. Un gigantesco fiore infuocato esplose nel cielo, specchiandosi nell’acqua, accompagnato da una potente detonazione. Fantastiche cascate di lucenti stelle filanti dipinsero spirali, fischiando nel cielo notturno.
Mentre si avvicinavano alla folla che confluiva verso la parata, Gray manteneva una vigilanza costante, attento a individuare tutte le persone dalla carnagione chiara vestite di nero. Ma erano a Copenhagen. Una persona su cinque era bionda e il nero, a quanto sembrava, era l’ultimo grido in Danimarca.
Il cuore di Gray batteva a tempo coi tamburi. Una breve salva di fuochi d’artificio gli martellò il petto e i timpani. Ma finalmente avevano raggiunto le altre persone radunate per lo spettacolo.
Sopra di loro un altro fiore incandescente crepitò ed esplose, con una pioggia di fuoco.
Fiona inciampò.
Gray l’afferrò, mentre sentiva fischiare le orecchie.
Quando l’eco dell’esplosione svanì, Fiona lo guardò, scioccata. Sollevò una mano da un fianco e gliela mostrò, mentre lui la trascinava in mezzo alla folla.
Fiona aveva il palmo della mano coperto di sangue.
Himalaya,
ore 04.02
Painter si svegliò nel buio: il fuoco era spento. Quanto aveva dormito? Senza finestre, erano fuori dal tempo. Ma intuiva che non ne era trascorso molto. Qualcosa l’aveva svegliato.
Si sollevò su un gomito.
All’altro capo del letto, anche Lisa era sveglia e guardava verso la porta. «Hai sentito?»
La stanza tremò violentemente. Furono raggiunti da un sonoro bum; era lontano, ma lo sentirono nelle viscere.
Painter gettò indietro le coperte. «Guai.»
Indicò la pigna di vestiti freschi forniti dai loro ospiti. Si vestirono rapidamente: calzamaglie e maglie a maniche lunghe, jeans pesanti e consunti e maglioni ingombranti.
Lisa accese le candele accanto al letto. Infilò i piedi in un paio di robusti stivali di cuoio, più adatti a un uomo. Attesero in silenzio per qualche tempo, forse venti minuti.
Entrambi si lasciarono cadere nuovamente sul letto.
«Secondo te che cosa è successo?» sussurrò Lisa.
Sentirono l’eco di una voce alterata.
«Non lo so, ma penso che lo scopriremo presto.»
Si udì un rumore di stivali nel corridoio, oltre la pesante porta di legno di quercia.
Painter si alzò, tendendo un orecchio. «Vengono da questa parte.»
In effetti, qualcuno bussò forte alla porta. Sollevando un braccio, Painter tenne indietro Lisa e retrocedette a sua volta. Poi sentirono sfregare la sbarra di ferro che li teneva chiusi dentro.
La porta si aprì e quattro uomini irruppero nella stanza, puntando i fucili contro di loro. Poi ne entrò un quinto. Somigliava molto all’assassino di nome Gunther. Un gigante di uomo, dal collo taurino, coi capelli a spazzola, color argento o grigio chiaro. Indossava ampi pantaloni marroni, infilati in stivali alti fino alla coscia, e una camicia dello stesso colore. Gli mancavano soltanto la fascia nera al braccio e la svastica, per il resto era un perfetto soldato delle truppe d’assalto naziste.
O, meglio, exnaziste.
Aveva anche la stessa faccia pallida di Gunther, ma sembrava che avesse qualche problema. Il lato sinistro del volto era inerte, come se avesse subito un ictus.
Il braccio sinistro era mezzo paralizzato e tremava mentre indicava la porta. « Kommen Sie mit mir!»
Stava ordinando loro di uscire. Il corpulento caposquadra si girò e s’incamminò a grandi passi, come se persino l’idea di disobbedire fosse semplicemente inconcepibile. D’altro canto, i fucili che i prigionieri avevano puntati nella schiena non potevano che consolidare la sua presunzione.
Painter fece un cenno col capo a Lisa. Lei lo affiancò mentre uscivano, seguiti dal quartetto di guardie. Il corridoio era angusto, scolpito nella roccia, largo a malapena per due persone. L’unica illuminazione proveniva dalle torce elettriche affrancate ai fucili delle guardie, che proiettavano ombre danzanti davanti a loro. Il corridoio era decisamente più freddo della loro stanza, ma non era gelido.
Non fecero molta strada. Secondo le stime di Painter, erano diretti verso la facciata del castello. Aveva ragione. Sentì persino il vento fischiare in lontananza. Fuori doveva essere ripresa la tempesta.
Davanti a loro, il corpulento caposquadra bussò a una porta di legno intagliato. Una risposta ovattata lo incoraggiò a entrare. Il corridoio s’illuminò di una luce calda, accompagnata da un’ondata di calore. La guardia entrò e tenne aperta la porta.
Anche Painter e Lisa entrarono nella stanza e si guardarono attorno. Sembrava una biblioteca, in stile rustico. Era su due piani, con scaffalature aperte su tutt’e quattro le pareti. Il livello superiore era cinto da una balconata di ferro, pesante e senza fronzoli. L’unica strada per salire era una scala a pioli.
La fonte di calore era un grande focolare di pietra, in cui bruciava un piccolo falò. Da un dipinto a olio, un uomo con un’uniforme tedesca li guardava dall’alto in basso.
«Mio nonno», spiegò Anna Sporrenberg, notando lo sguardo di Painter. Si alzò da una mostruosità di scrivania intagliata. Anche lei indossava jeans scuri e un maglione. A quanto sembrava, era l’abbigliamento prescritto al castello. «Rilevò il castello dopo la guerra.»
La donna indicò loro alcune poltrone dallo schienale alto e avvolgente, disposte in cerchio di fronte al camino. Painter notò che aveva le occhiaie. Sembrava che non avesse dormito affatto. Inoltre, odorava di fumo, un odore simile alla cordite. Interessante. Incrociò il suo sguardo mentre si avvicinava alle poltrone. Sebbene fosse esausta, la donna aveva occhi accesi e penetranti: erano astuti, rapaci e calcolatori. Una persona da cui stare in guardia. Sembrava che anche lei lo stesse valutando con la stessa intensità.