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L'ordine del sole nero
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Автор книги: James Rollins


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Che cosa stava succedendo?

« Setzen Sie sich, bitte», disse la donna, indicando le sedie.

Painter e Lisa si sedettero l’uno accanto all’altra. Anna scelse una poltrona dalla parte opposta. La guardia rimase accanto alla porta chiusa, con le braccia conserte. Painter sapeva che le altre guardie aspettavano fuori. Esaminò la stanza in cerca di vie di fuga. L’unica altra uscita era una finestra infossata, che dava sull’oscurità, sbarrata da una griglia di ferro. Impossibile fuggire di lì.

Painter rivolse nuovamente la sua attenzione ad Anna. Forse c’era un’altra via d’uscita. I modi della donna erano cauti, ma sicuramente li aveva convocati per un motivo. Lui aveva bisogno di tutte le informazioni possibili, ma avrebbe dovuto gestire la situazione con abilità. Notò la somiglianza tra Anna e l’uomo del dipinto. Era un buon punto di partenza.

«Ha detto che suo nonno ha rilevatoil castello», esordì, cercando di estorcere qualche risposta, rimanendo su un terreno sicuro. «A chi apparteneva, prima?»

Anna si appoggiò allo schienale della poltrona, traendo evidente sollievo da quel momento di quiete davanti al camino. Tuttavia manteneva la concentrazione. Con le mani in grembo, lanciò un breve sguardo a Lisa e poi si rivolse di nuovo a lui. «Il Granitschloßha una storia lunga e oscura, signor Crowe. Ha sentito parlare di Heinrich Himmler?»

«Certo, il capo delle SS.»

« Ja.Era un macellaio e un pazzo.»

Painter fu sorpreso di sentire quei giudizi. Era forse un trucco? Intuiva che c’era sotto qualcosa, ma non conosceva le regole del gioco. Non ancora.

Anna proseguì: «Himmler credeva di essere la reincarnazione di Enrico, un tedesco, re dei sassoni nel X secolo. Pensava anche di ricevere messaggi medianici da lui».

Painter annuì. «Ho sentito che coltivava un interesse morboso per l’occulto.»

«Un’ossessione, in effetti.» Anna scrollò le spalle. «Era una passione di molti in Germania. Risaliva a Madame Blavatskij, che coniò il termine ‘ariano’. Sosteneva di avere acquisito conoscenze segrete studiando in un monastero buddista. A suo dire alcuni maestri le avevano insegnato che l’umanità era regredita da una razza superiore e un giorno si sarebbe nuovamente evoluta. Un secolo dopo, Guido von List mescolò quelle credenze con la mitologia tedesca, dando un’origine nordica a quella mitica razza ariana.»

«E il popolo tedesco non solo abboccò, ma s’ingoiò anche la lenza e il galleggiante», aggiunse Painter, per stuzzicarla un po’.

«E perché no? Dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, un’idea del genere compiaceva la nostra vanità. Fu accolta in un fiorire di logge occulte in Germania. La società di Thule, la società di Vril, l’ordine dei Nuovi Templari.»

«A quanto ricordo, lo stesso Himmler apparteneva alla società di Thule.»

«Sì, il Reichsführercredeva appieno in questa mitologia e anche nella magia delle rune nordiche. È per questo che scelse le doppie rune sig, le due saette gemelle, per rappresentare il suo ordine di sacerdoti-guerrieri, la Schutzstaffel, o SS. Studiando l’opera di Madame Blavatskij, si convinse che la razza ariana fosse comparsa per la prima volta nella regione dell’Himalaya e che proprio qui sarebbe risorta.»

Lisa intervenne per la prima volta. «Perciò è vero che Himmler mandò spedizioni sull’Himalaya.» Scambiò uno sguardo con Painter. Ma l’uomo continuava a chiedersi che cosa significasse la frase criptica di Anna.

Non siamo nazisti. Non più.

Doveva incoraggiare la donna a parlare, fintanto che si dimostrava socievole. Intuiva una qualche trappola, ma non aveva idea di dove volesse andare a parare. Detestava brancolare nel buio, ma si rifiutava di darlo a vedere. «Allora, che cosa cercava Himmler quassù? Qualche tribù ariana perduta? Una Shangri-La a supremazia bianca?»

«Non esattamente. Con la scusa di fare ricerche antropologiche e zoologiche, Himmler inviò dei membri delle SS a cercare provedell’esistenza di una razza scomparsa. E, sebbene non trovasse nulla, era sempre più determinato, sempre più immerso nella sua follia. Quando cominciò a costruire una roccaforte delle SS in Germania, un castello personale chiamato Wewelsburg, ne fece costruire una perfetta copia qui, trasportando in aereo mille schiavi dai campi di concentramento tedeschi. Mandò anche una tonnellata di lingotti d’oro per renderci autosufficienti. La cosa ha funzionato, grazie ad attenti investimenti.»

«Ma perché costruire qui?» chiese Lisa.

Painter intuì il motivo. «Credeva che la razza ariana sarebbe risorta da queste montagne. Stava costruendo la loro prima fortezza.»

Anna annuì, come a concedergli un punto in una immaginaria partita. «Credeva pure che i maestri occulti che avevano istruito Madame Blavatskij fossero ancora vivi. Stava costruendo una roccaforte per loro, una sede in cui concentrare tutte quelle conoscenze e quelle esperienze.»

«E questi maestri occulti si fecero mai vivi?» chiese Painter, in tono canzonatorio.

«No, ma alla fine della guerra comparve mio nonno. E portò con sé qualcosa di miracoloso, qualcosa che poteva far diventare realtà il sogno di Himmler.»

«E che cos’era?» chiese Painter.

Anna scosse la testa. «Prima di continuare, le devo fare una domanda. E apprezzerei una risposta onesta.»

Painter si accigliò per l’improvviso cambio di tono. «Sa che non le posso promettere una cosa simile.»

Anna sorrise per la prima volta. «Apprezzo anche questo piccolo esempio di onestà, signor Crowe.»

«Allora, qual è la sua domanda?» chiese lui, curioso. Dovevano essere arrivati al nocciolo.

«Lei è malato? Faccio fatica a stabilirlo. Sembra molto lucido.»

Painter sgranò gli occhi. Non si aspettava quella domanda.

Prima che potesse rispondere, Lisa disse: «Sì».

«Lisa…» l’ammonì Painter.

«Lo scoprirebbe comunque. Non ci vuole una laurea in medicina per accorgersene.» Lisa si voltò verso Anna. «Presenta sintomi vestibolari, nistagmo e disorientamento.»

«Emicranie e lampi nel campo visivo?»

Lisa annuì.

«Lo immaginavo.» Si appoggiò allo schienale. Sembrava che quell’informazione rassicurasse la donna. Painter era perplesso. Perché?

Lisa insistette. «Di cosa soffre? Penso che abbia il diritto di saperlo.»

«Ciò richiederà qualche altra spiegazione, ma posso dirle qual è la prognosi.»

«E cioè?»

«Morirà fra tre giorni. In modo orribile.»

Painter si costrinse a non reagire.

Lisa rimase altrettanto imperturbabile, mantenendo un tono clinico. «C’è una cura?»

Anna guardò Painter, poi ancora Lisa. «No.»

Copenhagen, Danimarca,

ore 23.18

Doveva portare la ragazza al sicuro, da un medico. Gray sentiva il sangue che colava dalla ferita di Fiona, inzuppandole la camicetta, mentre la sosteneva, cingendola con un braccio.

Attorno a loro la folla premeva. I flash delle macchine fotografiche mettevano Gray in costante allerta. Dal lago arrivava l’eco di musica e canzoni, mentre la parata proseguiva. Giganteschi fantocci animati sfilavano dondolando e ciondolando sopra le teste degli astanti. I fuochi d’artificio continuavano a esplodere fragorosamente.

Gray ignorava tutto quanto. Stava basso, cercando il cecchino che aveva sparato a Fiona. Aveva dato una breve occhiata alla sua ferita. Era stata colpita di striscio, aveva soltanto un’escoriazione, che però trasudava sangue. Aveva bisogno di assistenza medica. Era pallidissima per il dolore.

Il colpo l’aveva raggiunta da dietro. Il che significava che il cecchino doveva essere appostato tra gli alberi e i cespugli. Era una fortuna che si fossero mischiati alla gente. Ma erano stati individuati e probabilmente i loro inseguitori stavano già convergendo sul posto: sicuramente qualcuno di loro si era già mescolato alla folla.

Gray guardò l’orologio: mancavano quaranta minuti alla chiusura del parco.

Gli serviva un piano, un nuovo piano. Non potevano più aspettare mezzanotte per fuggire. Sarebbero stati scoperti prima. Dovevano andarsene subito, ma il tratto fra la zona della parata e l’uscita era quasi deserto, poiché quasi tutti i visitatori erano radunati attorno al lago. Se avessero tentato una corsa folle verso l’uscita sarebbero stati vulnerabili e sicuramente anche i cancelli erano sorvegliati.

Accanto a lui, Fiona teneva una mano premuta sul fianco. Il sangue le colava tra le dita. Lo guardò, in preda al panico e gli sussurrò: «Che cosa facciamo?»

Gray continuò a muoversi tra la folla. Aveva soltanto un’idea: era pericolosa, ma la prudenza non li avrebbe fatti uscire dal lunapark. «Devo insanguinarmi le mani.»

«Cosa?»

Indicò la camicetta della ragazza. Perplessa, lei ne sollevò un lembo. «Fai attenzione…»

Lui raccolse delicatamente il sangue che gocciolava dalla ferita. Fiona trasalì ed emise un lieve gemito.

«Scusa», disse lui.

«Hai le dita gelate», borbottò lei.

«Tutto bene?»

«Sopravvivrò.»

Era proprio quello l’obiettivo.

«Tra un secondo dovrò prenderti in braccio», annunciò Gray.

«Che cosa…»

«Stai pronta a urlare quando te lo dico io.»

Lei arricciò il naso, confusa, ma annuì.

Gray aspettò il momento giusto. In lontananza cominciarono a suonare flauti e tamburi. Spinse Fiona nella direzione del cancello principale. Passato un gruppo di scolari, individuò una sagoma familiare con uno spolverino nero e il braccio al collo: l’assassino di Grette. Si faceva strada fra i gruppi di ragazzini, sondando la folla con gli occhi.

Gray batté in ritirata, mescolandosi a una massa di tedeschi che cantavano una ballata, in armonia coi flauti e coi tamburi. La canzone si concluse con un’esplosione di fuochi d’artificio e una gragnola di scoppi, a mo’ di timpani.

«Ecco», disse Gray, chinandosi. Si spalmò il sangue in viso e prese in braccio Fiona. Sollevandola, si mise a gridare in danese: «Bomba!»

Gli scoppi si alternavano alle sue urla tonanti.

«Grida», bisbigliò all’orecchio di Fiona, poi risollevò il volto cosparso di sangue. Tra le sue braccia, Fiona si mise a guaire e strillare in agonia.

«Bomba!» urlò di nuovo Gray.

La gente cominciò a voltarsi verso di lui, mentre i fuochi d’artificio continuavano a esplodere. Il sangue fresco luccicava sulle guance di Gray. Dapprima nessuno si mosse. Poi, come quando cambia la marea, una persona arretrò, scontrandosi con un’altra. Si levarono grida e richiami confusi. Sempre più gente cominciò a scappare.

Gray si mescolò a quelli che scappavano in preda al panico.

Fiona piangeva, si dimenava e agitava un braccio, gocciolando sangue dalle dita.

La confusione si alimentò come un incendio. I fuochi d’artificio scemarono e sul percorso della parata si moltiplicarono le grida di terrore. Per ogni persona che scappava, altre due si mettevano in fuga sulla sua scia.

La crescita era esponenziale: quello che inizialmente era un esiguo deflusso divenne una fiumana di piedi che calpestavano il selciato, in fuga verso l’uscita.

Gray si lasciò trasportare, con Fiona tra le braccia. Pregò che nessuno fosse calpestato, ma fino a quel momento il panico non era eccessivo. Cessato il fragore dei fuochi d’artificio, regnava la confusione, più che il terrore. Tuttavia, il deflusso della folla verso il cancello principale stava accelerando.

Gray mise giù Fiona, liberando le braccia. Si asciugò il viso con la manica della giacca Armani. Fiona rimase al suo fianco, tenendo stretta la sua cintura con una mano, per restare agganciata a lui in mezzo alla ressa. Gray indicò il cancello con un cenno del capo. «Se succedesse qualcosa, corrie non ti fermare.»

«Non so se ci riesco. Il fianco mi fa un male cane.»

Gray notò che Fiona zoppicava.

Più avanti, vide gli agenti di sicurezza che cercavano di controllare il deflusso della folla attraverso il cancello, evitando che qualcuno restasse schiacciato nella calca. Guardando meglio, vide un paio di guardie ferme a lato; era lampante che non stavano aiutando le altre a controllare la ressa. Un uomo e una donna, biondi come la neve. Erano i due compratori dell’asta. Travestiti da guardie, sorvegliavano il cancello, entrambi con una mano sul fodero della pistola.

Per un istante, gli occhi della donna si posarono sui suoi, in mezzo alla folla, ma passarono oltre. Poi tornarono a fissarlo.

L’aveva riconosciuto.

Gray cominciò a far marcia indietro nella calca, lottando contro la corrente.

«Cosa fai?» chiese Fiona, schiacciata tra lui e la massa di gente.

«Dobbiamo trovare un’altra uscita.»

«Come?»

Gray si spostò di lato, perché era troppo difficile andare dritto controcorrente. Alla fine riuscì a liberarsi. A quel punto aveva attorno soltanto una manciata di persone.

Gli serviva una copertura migliore.

Erano arrivati ai margini del viale della parata, ormai deserto. I carri si erano fermati, con le luci ancora accese, ma senza musica. Evidentemente il panico aveva contagiato anche gli operatori dei carri, che erano fuggiti, abbandonando le loro vetture. Anche gli agenti di sicurezza se n’erano andati, diretti al cancello.

Gray vide che la cabina di uno dei carri aveva la portiera aperta. «Da questa parte.»

Sopra la cabina giganteggiava un fantoccio illuminato: Gray riconobbe il personaggio del brutto anatroccolo, della favola di Hans Christian Andersen.

Corsero sotto una delle ali sollevate e illuminate da luci gialle intermittenti. Evidentemente quelle ali erano fatte per muoversi. Gray aiutò Fiona a entrare nella cabina, aspettandosi uno sparo nella schiena da un momento all’altro. Salì dopo di lei e chiuse la portiera, cercando di non fare rumore.

Guardando fuori dal parabrezza, notò che dalla folla era emerso un uomo vestito di nero: l’assassino di Grette. Non si curava nemmeno di nascondere il fucile a canne mozze, tanto l’attenzione delle persone era concentrata esclusivamente sull’uscita. L’uomo girava attorno alla folla in fuga, guardando verso il lago e il viale della parata.

Gray e Fiona si abbassarono.

L’uomo passò a pochi metri di distanza e proseguì lungo la fila di carri abbandonati.

«Per un pelo», sussurrò Fiona. «Dovremmo…»

«Zitta.» Gray le posò un dito sulle labbra, urtando una leva col gomito. Si sentì uno scatto.

Gli altoparlanti nascosti dentro il fantoccio cominciarono a blaterare: Quack! Quack! Quack! Quack!

Il brutto anatroccolo si era risvegliato. E tutti se ne accorsero.

Trenta metri più in là, l’assassino si voltò.

Non potevano più nascondersi.

Improvvisamente il motore brontolò. Con la coda dell’occhio, Gray vide Fiona che si assestava sul sedile, premendo la frizione.

«Ho trovato la chiave nel quadro», spiegò la ragazza, innestando la marcia.

Il carro si mise in moto, uscendo dalla fila.

«Fiona, è meglio che gui…»

«Tu hai guidato l’ultima volta e guarda dove siamo finiti.» Puntò dritto verso l’uomo col fucile a canne mozze. «In più, ho un conto in sospeso con questo bastardo.»

L’aveva riconosciuto anche lei, quindi. L’uomo che aveva assassinato sua nonna non fece in tempo a sollevare il fucile, che lei aveva già messo la seconda. Andò a tutta birra verso di lui, incurante della minaccia.

Gray cercò di aiutare in qualche modo, guardandosi attorno. C’erano così tante leve…

L’assassino sparò.

Gray trasalì, ma Fiona aveva già sterzato, giocando d’anticipo. Il colpo finì su un angolo del parabrezza, creando una raggiera di crepe. Fiona raddrizzò il volante, cercando di investire l’uomo.

La sterzata improvvisa sbilanciò il carro di lato, facendo staccare due ruote da terra.

«Tieniti forte!» lo avvertì Fiona.

Il carro ricadde pesantemente sulle quattro ruote, ma nel frattempo l’uomo era riuscito a scattare a sinistra e stava già preparando il fucile, per sparare a distanza ravvicinata al passaggio del carro.

Non avevano abbastanza tempo per evitarlo. Concentrandosi nuovamente sulla schiera di leve, Gray afferrò quella più a sinistra. Era logico. La tirò con forza, mettendo in moto una serie di ingranaggi. L’ala sinistra dell’anatroccolo, sollevata fino a un istante prima, scese di colpo. Finì sul collo dell’assassino, stritolandolo e spezzandogli le vertebre. L’uomo fu sollevato di peso e poi gettato a terra.

«Vai al cancello!» suggerì Gray.

Il brutto anatroccolo aveva avuto la sua prima razione di sangue.

Quack! Quack! Quack! Quack!

Il richiamo aprì un varco tra la folla, che si disperse ai lati della traiettoria del carro. Le guardie, comprese quelle travestite, furono allontanate dalla calca. Il cancello di servizio accanto all’entrata principale era spalancato per facilitare il deflusso della gente in fuga.

Fiona puntò in quella direzione.

L’anatroccolo lo attraversò con un gran fragore, perdendo la mortale ala sinistra. La cabina sussultò e un istante dopo erano sulla strada. Fiona accelerò.

«Gira alla prossima», disse Gray, indicando una strada.

Lei obbedì, scalando in curva come una professionista, e l’anatroccolo girò in volata.

Dopo altre due svolte, Gray la invitò a rallentare. «Non possiamo andare avanti con questo coso. Dà troppo nell’occhio.»

«Dici?» Fiona lo guardò di traverso e scosse la testa, esasperata.

Gray trovò una grossa chiave inglese in una cassetta degli attrezzi. Fece fermare Fiona in cima a una salita e le fece cenno di scendere. Passando al posto di guida, premette la frizione, incastrò la chiave contro l’acceleratore e saltò giù sul marciapiede.

Il brutto anatroccolo partì, lampeggiando e sbattendo contro le auto parcheggiate mentre volava giù per la discesa. Dovunque andasse ad appollaiarsi, l’incidente avrebbe distratto i loro eventuali inseguitori.

Gray s’incamminò nella direzione opposta. Dovevano essere al sicuro per un paio d’ore. Guardò l’orologio. C’era tutto il tempo di arrivare all’aeroporto e Monk sarebbe atterrato di lì a poco.

Fiona zoppicava accanto a lui, dando un’occhiata indietro ogni tanto.

Alle loro spalle, l’anatroccolo starnazzava nella notte.

«Mi mancherà», disse la ragazza.

«Anche a me.»

Himalaya,

ore 04.35

Painter era in piedi accanto al camino. Si era alzato dopo l’annuncio della sua sentenza di morte.

La corpulenta guardia aveva fatto tre passi avanti, ma Anna l’aveva fermata con un cenno della mano. « Nein, Klaus. Alles ist ganz recht.»

Painter aspettò che la guardia, Klaus, ritornasse al suo posto, accanto alla porta. «Non c’è cura?»

«È la verità.»

«Allora perché Painter non manifesta la stessa follia dei monaci?» chiese Lisa.

Anna guardò Painter. «Lei si era allontanato dal monastero, ja? Era nel villaggio vicino. La sua esposizione è stata inferiore. Invece della degenerazione neurologica rapida, sta subendo un deterioramento fisico, più lento e generalizzato. Ma è pur sempre una sentenza di morte.» Anna doveva avergli letto qualcosa in volto. «Anche se non c’è cura, c’è la speranza di rallentare il deterioramento. Negli anni, facendo esperimenti sugli animali, abbiamo ideato alcuni modelli promettenti. Possiamo prolungarle la vita. O almeno avremmo potuto…»

«Che cosa intende?» chiese Lisa.

Anna si alzò. «È il motivo per cui vi ho fatto venire qui. Per mostrarvi una cosa.» Fece un cenno alla guardia, che aprì la porta. «Seguitemi. Forse troveremo un modo per aiutarci a vicenda.»

Painter porse una mano a Lisa, mentre Anna s’incamminava. Bruciava dalla curiosità. Intuiva sia una trappola sia un minimo di speranza.

Non ci poteva essere esca migliore.

Lisa si chinò verso di lui mentre si alzava. «Che succede?»

«Non ne sono certo.» Painter guardò Anna che parlava con Klaus.

Forse troveremo un modo per aiutarci a vicenda.

Painter si era proposto di dire la stessa cosa ad Anna e ne aveva anche parlato con Lisa qualche tempo prima: contrattare le loro vite per guadagnare tempo. Qualcuno li aveva ascoltati di nascosto con delle microspie? Oppure le cose erano peggiorate al punto che quella gente aveva bisogno della loro collaborazione?

Era preoccupato.

«Deve avere a che fare con quell’esplosione che abbiamo sentito», ipotizzò Lisa.

Painter annuì, però aveva bisogno di altre informazioni. Fino a quel momento aveva messo da parte le preoccupazioni per la sua salute… anche se era difficile, mentre un’altra emicrania cominciava a farsi sentire dietro gli occhi e nei molari posteriori, ricordandogli la malattia.

Anna fece cenno di raggiungerla e Klaus si mise da parte. Non sembrava contento. D’altronde, Painter non lo aveva ancora visto contento e, per qualche motivo, sperava che non succedesse mai. Qualsiasi cosa facesse felice quell’uomo probabilmente implicava urla e spargimenti di sangue.

«Se non vi spiace, seguitemi», disse Anna, con fredda cortesia, poi uscì dalla porta affiancata da due delle guardie rimaste fuori.

Klaus scortò Lisa e Painter, con gli altri due uomini armati al seguito.

Andarono in una direzione diversa rispetto alla loro confortevole cella. Dopo qualche svolta, nel cuore della montagna si estendeva un tunnel diritto, più largo di tutti gli altri. Era illuminato da una serie di lampadine elettriche, allineate in gabbiotti metallici lungo una parete. Era la prima traccia di modernità.

Painter notò l’odore di fumo nell’aria, sempre più intenso via via che procedevano. Rivolse nuovamente la sua attenzione ad Anna. «Quindi lei sa che cosa ha causato la mia malattia.»

«È stato l’incidente, come ho detto prima.»

«Un incidente che ha riguardato che cosa, esattamente?» incalzò lui.

«La risposta non è facile, risale a un momento storico molto lontano.»

«Al tempo in cui eravate nazisti?»

Anna lo guardò. «All’origine della vita su questo pianeta.»

«Davvero? Ma allora quanto è lunga questa storia? Ricordi che mi restano soltanto tre giorni.»

Lei gli sorrise e scosse la testa. «In tal caso, passerò immediatamente al momento in cui mio padre arrivò al Granitschloß, alla fine della guerra. Conosce quel periodo storico tumultuoso? Intendo il caos in Europa, dopo il crollo della Germania.»

«Una gara a chi si accaparrava di più.»

«E non soltanto la terra e le risorse della Germania, ma anche le nostre ricerche. Le forze alleate mandarono scienziati e soldati a razziare le campagne tedesche, in cerca di tecnologie segrete. Fu una… mischia.» Anna li guardò con un’espressione perplessa. «È la parola giusta?»

Entrambi annuirono.

«La sola Gran Bretagna mandò cinquemila persone, tra soldati e civili, col nome in codice di T-Force, Technology Force. Il loro obiettivo dichiarato era individuare le tecnologie tedesche e preservarle dal saccheggio e dalle razzie, ma in realtà il saccheggio e le razzieerano il loro vero obiettivo, in competizione con le controparti americane, francesi e russe. Sapete chi era il fondatore della T-Force britannica?»

Painter scosse la testa. Non poté fare a meno di confrontare la Sigma a quelle organizzazioni della seconda guerra mondiale. Saccheggiatori di tecnologie. Gli sarebbe piaciuto parlarne col fondatore della Sigma, Sean McKnight. Sempre che sopravvivesse così a lungo.

«Chi era il capo?» chiese Lisa.

«Un signore che rispondeva al nome di comandante Ian Fleming.»

Lisa emise uno sbuffo incredulo. «Lo scrittore che ha creato James Bond?»

«Proprio lui. Si dice che si sia ispirato ad alcuni membri della sua squadra per creare il suo personaggio. Ciò vi dà un’idea della brutalità e della noncurante esuberanza di quei ladri.»

«Il bottino di guerra va ai vincitori», commentò Painter, con un’alzata di spalle.

«Forse. Ma mio nonno aveva il dovere di proteggere quelle tecnologie. Era un funzionario del Sicherheitsdienst.» Lanciò un’occhiata a Painter, come per metterlo alla prova.

La partita non era ancora finita e lui raccolse la sfida. «Il Sicherheitsdienstera il commando delle SS impegnato nell’evacuazione dei tesori della Germania: oro, opere d’arte, antichità e tecnologie.»

La donna annuì. «Nei giorni conclusivi della guerra, mentre la Russia premeva sul fronte orientale, a mio nonno fu assegnata quella che voi americani chiamate una missione deep black, di massima segretezza. Riceveva ordini direttamente da Heinrich Himmler, prima che il Reichsführerfosse catturato e si suicidasse.»

«E che ordini aveva?»

«Rimuovere, proteggere e distruggere tutte le prove di un progetto dal nome in codice Chronos. Il cuore del progetto era un dispositivo che si chiamava semplicemente die Glocke, la Campana. Il laboratorio di ricerca era nascosto sottoterra, in una miniera abbandonata nei Sudeti. Lui non aveva idea di quale fosse lo scopo del progetto, ma lo avrebbe scoperto in seguito. All’epoca rischiò di distruggere la Campana, ma aveva degli ordini da eseguire.»

«Perciò fuggì con la Campana. Come?»

«Furono messi in atto due piani contemporanei: una fuga a nord, attraverso la Norvegia, e un’altra a sud, attraverso l’Adriatico. C’erano agenti pronti ad assisterlo lungo entrambi i tragitti. Mio nonno scelse di andare a nord. Himmler gli aveva parlato del Granitschloß.Si rifugiò qui con un gruppo di scienziati nazisti, alcuni dei quali avevano un passato nei campi di concentramento. Tutti avevano bisogno di un nascondiglio. In più, mio nonno li allettò con un progetto al quale pochi scienziati saprebbero resistere.»

«La Campana», concluse Painter.

«Esatto. Offriva qualcosa che molti scienziati all’epoca cercavano con mezzi diversi.»

«E cioè?»

Anna sospirò e lanciò uno sguardo fugace a Klaus. «La perfezione.» Rimase in silenzio per qualche istante, persa in una tristezza privata.

Il corridoio terminava in corrispondenza di una gigantesca porta di legno massiccio a due battenti, entrambi aperti. Oltre la soglia, una rudimentale scala a chiocciola scompariva giù nella montagna. La tromba era scavata nella roccia, ma la scala si avvolgeva attorno a un pilone centrale d’acciaio, spesso come un tronco d’albero.

Quando cominciarono a scendere, Painter guardò in alto. Il pilone d’acciaio attraversava il soffitto, forse innalzandosi oltre la spalla della montagna. Un parafulmine, pensò. Sentiva anche un vago odore di ozono, che aveva preso il posto del fumo.

Anna notò il suo sguardo. «Usiamo quel condotto per scaricare le energie in eccesso fuori dalla montagna.»

A Painter vennero in mente le luci spettrali di cui si riferiva nella zona. Era quella la fonte? Delle luci e, forse, della malattia? Reprimendo la rabbia, si concentrò sulle scale. Aveva un dolore martellante alla testa e la scala a chiocciola non faceva che peggiorare le vertigini, già in aumento. Nel tentativo di distrarsi, continuò la conversazione. «Ritornando alla storia della Campana, a che cosa serviva?»

«All’inizio nessuno lo sapeva. Era frutto delle ricerche su una nuova fonte di energia. Qualcuno pensava addirittura che potesse essere una rudimentale macchina del tempo, perciò ebbe il nome in codice Chronos.»

«Macchina del tempo?» le fece eco Painter.

«Non deve dimenticare che i nazisti erano avanti anni luce rispetto ad altre nazioni per determinate tecnologie. Ma mi lasci fare un passo indietro. All’inizio del secolo scorso, c’erano due sistemi teorici in competizione: la teoria della relatività e quella dei quanti. E, sebbene non fossero necessariamente in contraddizione tra loro, anche Einstein, il padre della relatività, descriveva le due teorie come incompatibili. La comunità scientifica si divise in due, e sappiamo bene per quale parte propendeva quasi tutto il mondo occidentale.»

«La relatività di Einstein.»

Anna annuì. «Il che condusse al progetto Manhattan e quindi alla scissione dell’atomo, alle bombe atomiche e all’energia nucleare. I nazisti presero una strada diversa, ma con altrettanto fervore. Avevano un loro equivalente del progetto Manhattan, basato però sull’altra fazione, la teoria dei quanti.»

«Perché scelsero quella strada?» chiese Lisa.

«Per un motivo molto semplice.» Anna si voltò verso di lei. «Perché Einstein era ebreo.»

«Cosa?»

«Non dimentichi il contesto di allora. Einstein era ebreo e perciò le sue scoperte avevano meno valore agli occhi dei nazisti, che invece s’interessarono alle teorie dei fisici tedeschi puri, considerando più valido e importante il loro lavoro. I nazisti basarono il loro progetto Manhattan sull’opera di scienziati come Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger e, soprattutto, Max Planck, il padre della teoria dei quanti. Così i nazisti procedettero sulla strada delle applicazioni pratiche della meccanica quantistica, un lavoro considerato pionieristico ancora oggi. Gli scienziati nazisti credevano che si potesse attingere a una fonte di energia sulla base di esperimenti con modelli quantistici. Una cosa di cui si comincia a rendersi conto soltanto adesso. La scienza moderna la chiama energia del punto zero.»

«Punto zero?» ripeté Lisa, guardando Painter.

Lui annuì, conoscendo benissimo quel concetto scientifico. «Quando la materia viene raffreddata fino allo zero assoluto, cioè a quasi meno trecento gradi centigradi, il movimento atomico cessa del tutto. C’è completa immobilità. È il punto zero della natura. Eppure, anche in quella condizione, l’energia permane; una radiazione di fondo che non ci dovrebbe essere. La presenza dell’energia non poteva essere spiegata con le teorie tradizionali.»

«Ma, con la teoria dei quanti, sì», aggiunse Anna, con tono deciso. «Essa ammette il movimento anche quando la materia è congelata nella totale immobilità.»

«E com’è possibile?» chiese Lisa.

«Allo zero assoluto, le particelle non si possono muovere su, giù, a destra o a sinistra, ma, secondo la meccanica quantistica, possono entrare e uscire dall’ esistenza, producendo energia, chiamata energia del punto zero.»

«Entrare e uscire dall’esistenza?» Lisa sembrava poco convinta.

«La fisica dei quanti può diventare un po’ bizzarra», intervenne Painter. «Ma, anche se il concetto sembra folle, l’energia è reale, è stata registrata in laboratorio. Gli scienziati di tutto il mondo stanno cercando un modo per attingere a questa energia, che è al cuore di tutta l’esistenza e rappresenta una fonte di energia infinita, senza limiti.»

Anna annuì. «E i nazisti facevano esperimenti su questa energia con lo stesso fervore che voi dedicavate al progetto Manhattan.»

Lisa sgranò gli occhi. «Una fonte illimitata di energia! Se l’avessero scoperta, avrebbe cambiato le sorti della guerra.»

Anna sollevò una mano, correggendola. «Chi dice che non l’hanno scoperta? È documentato che negli ultimi mesi della guerra i nazisti avevano fatto progressi straordinari. Progetti chiamati Feuerballe Kugelblitz, dettagli dei quali si possono ritrovare negli archivi desecretati della T-Force britannica. Ma quelle scoperte giunsero troppo tardi. Le strutture furono bombardate, gli scienziati uccisi, le ricerche trafugate. Qualsiasi cosa fosse rimasta, confluì nei progetti segretissimi delle nazioni vincitrici.»


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