Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
сообщить о нарушении
Текущая страница: 9 (всего у книги 24 страниц)
Noi dicevamo:
«Allora, signor Bosja, com’è il tempo ad Amsterdam?»
E lui rispondeva con indifferenza:
«E come faccio a saperlo io, povero ebreo, che non ho neanche la radio? Ma anche se avessi una radio non la ascolterei, ormai sono cosi vecchio che non sento più niente, sto diventando sordo… Eh eh, quanto vorrei tornare ai tempi in cui ero giovane come voi, giocare, fare casino… Tra l’altro, cosa avete combinato in questi giorni?»
E finiva regolarmente che noi, come dei deficienti, gli raccontavamo gli affari nostri anziché sentire i suoi, e andavamo via dal suo negozio con la sensazione di essere stati presi in giro.
Aveva un vero talento da intortatore, e noi ci cascavamo sempre.
Il vecchio Bosja non aveva dei gran bei fiori nel suo negozio, secondo me alcuni stavano lì da anni. Il negozio era un buco stretto e buio, con gli scaffali di legno pieni di vecchie piante che nessuno comprava mai. Quando entravi ti sembrava di essere finito in mezzo a una giungla, molte piante erano cresciute così tanto che le foglie s’intrecciavano con quelle delle piante vicine, e tutte insieme formavano una specie di unico grandissimo cespuglio.
Bosja era un vecchio tutto storto e magro, portava occhiali spessi come la corazza di un carro armato e attraverso le lenti i suoi occhi sembravano mostruosamente grandi. Indossava sempre una giacca nera, camicia bianca con papillon nero al collo, pantaloni neri con le pieghe fatte con il ferro da stiro e scarpe nere belle lucide.
Nonostante l’età (era cosi vecchio che anche mio nonno lo chiamava zio), aveva capelli nerissimi, e li teneva ben curati, tagliati alla moda degli anni Trenta, sotto un leggero strato di brillantina.
Diceva sempre che la vera arma di ogni gentiluomo è la sua eleganza: con quella si poteva fare tutto – rapinare, uccidere, rubare, mentire – senza mai essere sospettati.
Quando il campanellino sulla porta del negozio suonava, Bosja si alzava dalla sedia accompagnando il movimento con un rumore che assomigliava a quello di un vecchio ingranaggio, poi usciva da dietro il bancone e partiva verso il cliente con il suo passo elegante, che con gli anni aveva perso molti colpi e adesso pareva più il trascinarsi di un uomo ferito a morte.
Andava incontro al cliente con le mani aperte come le tiene Gesù in alcune immagini sacre, in segno di accettazione e compassione. Faceva ridere come camminava, perché aveva una faccia ridicola, sorridente ma con gli occhi tristi, come quelli di un cane senza padrone.
A ogni passo lanciava un verso, uno di quei lamenti che fanno i vecchi carichi di acciacchi quando si muovono.
Nell’insieme mi faceva tristezza: un misto di malinconia, nostalgia e pena.
Quando andavamo nel suo negozio il vecchio Bosja usciva dalla sua giungla e, senza vedere chi era entrato, partiva come al solito con l’aspetto di un santo, ma non appena ai suoi occhi apparivano le nostre facce da bastardi, lui cambiava immediatamente espressione. Per prima cosa spariva il sorriso, che veniva sostituito da una smorfia di stanchezza, come se gli mancasse il fiato, poi tutto il suo corpo diventava storto, le gambe si piegavano un po’, e facendo un gesto con le mani come a rifiutare qualcosa che gli avevamo offerto, ci dava le spalle e tornava al bancone dicendo con voce tremante e una leggera ombra di ironia, in un russo contaminato dal dialetto ebraico di Odessa:
«Sob 'ja tak zìi, opjat'prilli morocit'jajca…»
Che significava:
«Che vita mi tocca fare, – un modo di dire ebraico, che loro attaccano dappertutto, – siete di nuovo qui a rompere i coglioni…»
Quello era il suo modo di darci il benvenuto, in fondo ci voleva un casino di bene a tutti quanti.
Si divertiva anche lui, a non farsi prendere in giro da noi. Ci provavamo sempre, ma Bosja, con la sua saggezza e la sua furbizia ebraica, che nel suo caso aveva qualcosa di umile e vissuto, ci faceva cadere nella sua trappola, e certe volte lo capivamo solo più tardi, dopo che eravamo usciti. Era un genio nelle relazioni, un vero genio.
Visto che si lamentava sempre di essere cieco e sordo, lo provocavamo chiedendogli l’ora, sperando che lui guardasse l’orologio che aveva al polso. Ma lui non faceva neanche una piega, e rispondeva:
«Ma come faccio a sapere che ore sono, se sono una persona felice? Lo sapete che le persone felici non contano il tempo, perché nella loro vita ogni momento scorre con piacere?»
Allora noi gli chiedevamo perché portava l’orologio, se non lo guardava mai, se non gli importava dello scorrere del tempo.
Lui faceva la faccia stupita e guardava il suo orologio come se lo vedesse per la prima volta, e poi rispondeva con tono umile:
«… Ma questo non è mica un orologio… E più vecchio di me ormai, non so neanche se funziona…»
Lo appoggiava all’orecchio, lo teneva un po’ li e poi aggiungeva:
«… Beh, qualcosa si sente, ma non so se è il ticchettio delle lancette о quello del mio vecchio cuore che se ne sta andando…»
La moglie di Bosja era una vecchia e simpatica signora ebrea che si chiamava Elina. Era una donna molto intelligente, per tanti anni aveva fatto la maestra ed era stata l’insegnante di mio padre e dei suoi fratelli. Parlavano tutti di lei con affetto, e anche a molti anni di distanza rispettavano ancora la sua autorità. Quando mio padre ha ucciso per la prima volta due poliziotti lei lo ha riempito di sberle, e lui si è messo in ginocchio ai suoi piedi per chiederle perdono.
Bosja aveva una figlia, la ragazza più bella che abbia mai visto: si chiamava Faja e faceva anche lei la maestra, insegnava lingue straniere, inglese e francese. Era cresciuta con l’idea di essere malata, perché Bosja ed Elina le avevano proibito di fare tutto quello che facevano i bambini normali, motivando ogni divieto con le parole «Non puoi perché non stai bene». Non si era sposata e viveva ancora con i genitori, era una persona tranquilla e molto solare. Aveva un fisico da dea, fianchi e curve che sembravano disegnati, tanto erano perfetti, una bocca favolosa, piccola e con le labbra leggermente aperte, ben definite, grandi occhi neri, capelli mossi, lunghi fino al fondoschiena. Ma la cosa più spettacolare era come si muoveva, sembrava una gatta, faceva ogni gesto con una grazia tutta sua.
Ero ossessionato da lei, e ogni volta che la vedevo al negozio cercavo un pretesto per starle vicino. Andavo a parlarle delle piante о di qualunque altra cosa, per sentire la sua presenza con la pelle.
Lei mi sorrideva, parlava volentieri con me, capivo di esserle simpatico. Solo pili tardi, a sedici anni, ho trovato il coraggio di avvicinarla davvero, parlando di letteratura. Abbiamo cominciato a vederci, a scambiarci libri, e nel giro di poco tempo abbiamo sviluppato un rapporto che di solito le persone educate chiamano «intimo», ma che nel mio quartiere si definiva con ben altre parole: «sporcare le lenzuola insieme».
Ma questa è un’altra storia, che merita di essere raccontata a parte, e non qui.
Qui invece va raccontata la storia che il vecchio Bosja aveva alle spalle.
Il vecchio Bosja, ai tempi della sua gioventù, era un bander: cosi a inizio secolo si chiamavano i membri della criminalità organizzata ebraica. La parola viene da «banda», che in russo e in italiano ha lo stesso significato.
Negli anni Venti-Trenta, a Odessa, le bande ebraiche erano tra le più forti e meglio organizzate, gestivano tutti i traffici illeciti e gli affari del porto. I loro membri erano uniti da un grande sentimento religioso e da un codice d’onore, una specie di regolamento interno chiamato kosca, termine che nel vecchio dialetto ebraico di Odessa significa «parola», «legge», «regola». Andare contro la kosca era insomma un buon modo per suicidarsi.
A metà degli anni Trenta il governo sovietico cominciò a combattere sistematicamente il crimine su tutto il territorio, e a Odessa – considerata una delle città più impestate dalla malavita e dalla criminalità organizzata – furono mandate delle squadre speciali che inventarono una tattica di lotta chiamata podstava, che significa «fatta apposta». Attraverso degli infiltrati, innescavano dei conflitti interni alle bande stesse.
Donnie Brasco, il famoso gangster cinematografico interpretato da Johnny Depp, non poteva di certo immaginare che i suoi precursori sovietici sfruttassero l’attività di agenti sotto copertura non per ottenere informazioni, ma per creare artificialmente situazioni nelle quali i criminali entravano in guerra tra di loro e si ammazzavano in dosi industriali. No, Donnie Brasco non se lo sarebbe mai sognato.
In quel modo furono eliminate molte bande e comunità criminali di Odessa. Solo quella ebraica riuscì a resistere, perché tra i poliziotti non c’erano ebrei e nessuno conosceva la cultura, la lingua e le tradizioni ebraiche al punto da poter fingere di essere uno di loro.
Quando poi a Odessa il potere della polizia crebbe e cominciò a minacciare anche gli ebrei, loro unirono le forze organizzandosi in due grandi bande composte da migliaia di membri. Una, la più famosa, era guidata dal leggendario criminale Benja Krik, detto «il Re», e si occupava principalmente di rapine e furti; l’altra era capeggiata da un vecchio criminale di nome Buba Bazic, detto «lo Strabico», e seguiva solamente i traffici finanziari illeciti.
Queste due strutture funzionavano perfettamente, tanto che la polizia non riuscì a fare niente contro di loro: molto presto s’impadronirono di Odessa, e la comunità ebraica divenne tra le più potenti nel sud dell’Urss, soprattutto in Ucraina.
Nell’ottobre del 1941, quando entrarono a Odessa le forze di occupazione tedesche e rumene, la maggior parte degli ebrei furono deportati nei campi di concentramento e sterminati.
I criminali si unirono alle squadre partigiane, nascondendosi nelle gallerie sotterranee che attraversavano tutta la città e arrivavano al mare. Colpivano il nemico di notte, con azioni di sabotaggio: facevano esplodere le linee ferroviarie, deragliare i treni carichi di armi e provviste, bruciavano e affondavano le navi, rapivano e ammazzavano gli alti ufficiali tedeschi, spesso catturandoli mentre erano in tenera compagnia delle prostitute di Odessa, che per l’occasione si erano trasformate in abili spie.
Bosja era li, in quei sotterranei.
A volte, quando passavamo da lui in negozio, ci raccontava della resistenza di Odessa, diceva che per qualche anno avevano vissuto tutti nelle gallerie sotto la città senza mai vedere la luce del giorno. I tedeschi – raccontava – facevano esplodere in continuazione quelle gallerie per impedire ai partigiani di compiere i sabotaggi, ma loro ogni volta si scrollavano la polvere di dosso e scavavano nuovi passaggi.
Sua moglie l’aveva conosciuta in quei sotterranei, era con la sua famiglia ebrea liberata dai partigiani: si erano innamorati e sposati lì, sotto terra. Lui diceva, forse per scherzo о forse no, che quando finalmente erano usciti dalle gallerie si erano dimenticati com’era la luce del sole, e la sua giovane moglie, dopo averlo guardato per bene in faccia, gli aveva detto:
«Non mi ero mai accorta che avevi un naso così lungo!»
Volevano un figlio, ma per anni dopo la guerra non erano riusciti ad averlo, e stavano male per questo fatto. Avevano provato tutte le cure, ma inutilmente. Così un giorno avevano deciso di andare da una vecchia zingara che abitava con una nipote cieca. Dicevano che ’sta zingara sapeva curare le malattie con la magia e i metodi popolari, che era una specie di strega, ma bravissima. La zingara gli aveva detto che né lui né sua moglie avevano malattie, che soffrivano solamente di brutti ricordi. Gli aveva consigliato di abbandonare Odessa e di sistemarsi da un’altra parte, in un posto dove non avevano niente che li legasse al passato.
Per molto tempo non avevano preso sul serio quel consiglio della zingara, per loro era molto difficile staccarsi dalla comunità. Solo alla fine degli anni Sessanta avevano deciso di lasciare Odessa e di trasferirsi a Bender, nella nostra città, dove Bosja aveva messo in piedi la sua piccola attività commerciale e si era dato a quei suoi misteriosi affari di cui nessuno sapeva niente di preciso, che lo avevano fatto diventare presto ricco.
Quando Bosja e sua moglie erano nell’età in cui di solito si diventa nonni, era nata Faja.
Quei tre formavano una bella famiglia e, come diceva spesso nonno Kuzja, erano «gente che sa come vivere felice».
Dunque, per tornare a noi, quel freddo mattino di febbraio io e Mei siamo passati da Bosja per prendere una pianta, e lui come sempre ci ha accolti con buone parole:
– Ohi me, ma non avete altro da fare con un freddo cosi?
Era meglio se parlavo io, perché il dialogo tra Mei e il vecchio Bosja sarebbe stato piuttosto complicato.
– Siamo qui per zia Katja. Per un affare, insomma.
Bosja mi ha guardato da sopra gli occhiali e ha detto:
– Meno male che qualcuno riesce ancora a fare affari, io è una vita che sbatto contro queste pareti e non sono riuscito a concluderne neanche uno!
Mi sono arreso subito, senza cominciare lo scambio di ironie, anche perché cercare di batterlo era come fare una gara di corsa con un ghepardo.
Come sempre, spingendo con un gesto un po’ indifferente un piattino verso di noi, ci ha offerto le sue schifose caramelle pietrificate. Sapeva bene che erano terribili, la sua era una specie di presa in giro rituale. Noi le prendevamo ogni volta, ci riempivamo le tasche e lui ci guardava sorridendo, ripetendo la frase:
«Mangiate, mangiate ragazzi, basta che non vi partano i denti…»
Quando sua moglie lo beccava mentre faceva quello scherzo crudele, si arrabbiava con lui e obbligava noi a svuotare le tasche e buttare nelPimmondizia le caramelle. Poi Elina ci portava a casa sua e ci offriva il tè con i biscotti ripieni di crema di burro, i più buoni al mondo.
Qualche mese prima avevo rivelato a Bosja il segreto delle sue caramelle e lui era rimasto stupito, perché credeva che in tutti quegli anni noi le avevamo mangiate. «Le abbiamo usate come pietre, – gli avevo detto, – per tirare con le fion-de». Contro i vetri del distretto di polizia, per la precisione: erano micidiali, soprattutto le caramelle pietrificate al gusto di lampone. Una sera avevo centrato per scherzo il ginocchio di Mei con una di quelle: era gonfiato tutto, per sei mesi erano andati avanti a scaricargli l’acqua dal ginocchio con una siringa.
Io e Mei ci siamo presi le nostre caramelle in silenzio e abbiamo scelto una piccola pianta da regalare a zia Katja.
Però non posso parlare di fionde cosi, senza spiegare per bene cos’erano, le nostre fionde.
Ognuno di noi si costruiva la sua fionda da solo, dall’inizio alla fine, per questo erano diverse tra loro e in qualche maniera rispecchiavano l’individualità dei loro padroni. Il telaio della fionda doveva essere esclusivamente di legno. Era considerato un lusso il telaio sottile, fatto di legno morbido, ma resistente. Ognuno aveva il suo segreto che teneva per sé, e se a qualcuno piaceva la fionda di un altro poteva comprarla о farsela regalare da lui in segno di amicizia.
La fionda doveva essere tenuta sempre in tasca, come il coltello, solo all’età di tredici-quattordici anni veniva sostituita dalla pistola. Ma io ho portato la mia fionda con me anche più tardi, fino ai diciotto anni.
Mio nonno in Siberia faceva le pipe per fumare tabacco usando le radici di alberi locali, о varie specie di cespugli. Con il suo aiuto avevo trovato un tipo di legno perfetto per le fionde: era il mio grande segreto strategico, i miei amici hanno cercato tante volte di farmi parlare ma io ho sempre resistito, come un bravo partigiano sovietico nella prigionia nazifascista.
Le mie fionde erano più sottili di tutte, e la parte in cui si montavano gli elastici era cortissima e stretta: questo serviva per fare dei lanci più lunghi e precisi, perché gli elastici lavoravano come un unico elastico.
Come elastici di solito usavamo le vecchie camere d’aria delle biciclette, ma spesso non assicuravano un lancio soddisfacente. Decisamente migliori erano i lacci emostatici che trovavamo nei pacchetti militari di primo soccorso: insomma, quelli che si usano per stringere le arterie, per fermare la perdita di sangue. Con i lacci, se venivano montati bene, riuscivamo ad avere una forza di lancio micidiale: a distanza di cento metri, una pietra rotonda о un bullone di ferro di diametro quattordici – о una caramella di nonno Bosja – facevano un bel buco in una finestra, e potevano ancora spaccare qualcosa dentro il salone. Ma l’elastico più micidiale di tutti era di mia invenzione: quello prelevato dalla maschera antigas del modello militare sovietico.
Anche fissare l’elastico era una specialità di ognuno di noi, io preferivo un montaggio un po’ più complicato ma sicuro, i miei elastici non saltavano mai (per questo non mi sono mai preso un colpo di elastico sul naso о nell’occhio, che fa un casino male). Io usavo un filo sottile, girato intorno all’elastico tante volte e legato con un semplice nodo da pescatore. Per sicurezza poi ci spalmavo sopra un po’ di succo di pane masticato, che creava una specie di sostanza che somigliava alla colla ma non faceva seccare il filo.
Al centro dell’elastico veniva sistemato il pezzo di cuoio dove poi si metteva l’oggetto da lanciare. Io usavo del cuoio non molto spesso ma resistente, perché se era troppo spesso faceva le crepe e poi si rompeva.
C’erano tanti piccoli trucchi per migliorare le capacità balistiche della propria fionda, ma certo dovevi avere tra le mani una buona base di partenza. Ad esempio, quando era possibile, io bagnavo sempre un po’ il telaio della fionda prima di lanciare, cosi si ammorbidiva ed ero sicuro di poterlo sfruttare al meglio senza romperlo. Poi ho cominciato a ungere tutti i legamenti della fionda: questo assicurava più precisione, perché eliminava quei piccoli movimenti di materiali secchi che potevano influenzare la traiettoria.
Sono stato io a inventare il modo per incendiare le macchine della polizia nel cortile del distretto, usando la fionda.
Quel cortile era circondato da un muro altissimo, per riuscire a buttarci qualcosa dentro dovevi avvicinarti troppo e ti beccavano subito, appena ti vedevano arrivare. Le bottiglie molotov erano troppo pesanti da lanciare, e tutte le volte che ci provavamo finivano contro il muro, non arrivavano neanche a metà. Alla fine noi ci guardavamo sempre con le orecchie basse, pensando che tutto lo sforzo che avevamo fatto per preparare quelle bottiglie si bruciava in un istante su quel muro grigio. Avevamo cominciato a perdere la fiducia in noi stessi, finché un giorno non ho messo le mani nel mobiletto dei superalcolici di mio zio. Ho trovato tante piccole bottiglie con vari liquori, insomma quelle bottigliette per nani alcolisti. Le ho svuotate un po’, tanto mio zio era in galera e in ogni caso non mi avrebbe sgridato, visto che ne stavo facendo buon uso. Ho fabbricato una mini-molotov, poi ho costruito una fionda apposta, un po’ pili robusta del solito, e dopo aver fatto le prime prove, superate alla grande, ho preparato una cassa piena di mini-molotov (che abbiamo chiamato «mignon») e una decina di fionde per lanciarle.
Siamo andati in un posto, una vecchia tipografia abbandonata vicino al distretto di polizia: da li si apriva un bel panorama sui nostri bersagli. Ci siamo posizionati per bene, e come una batteria di cannoni di guerra abbiamo lanciato il primo colpo. Sparavamo in dieci, uno tirava la fionda con la bottiglietta e da dietro un altro, sincronizzato con i compagni, accendeva la sua bottiglia e quella del vicino contemporaneamente, con due accendini pronti. Le nostre bottigliette partivano in una maniera spettacolare, mi sembrava di sentirle fischiare come pallottole: quando le vedevo attraversare il muro del distretto – e sentivo le piccole esplosioni seguite dalle grida degli sbirri e dai primi segni di fumo nero, che come fantastici draghi si alzavano in aria – mi veniva da piangere tanto ero contento e felice.
Quella postazione era ideale: prima che le nostre vittime riuscissero ad accorgersi di quello che era successo, noi avevamo già scaricato tutto l’arsenale e ce n’eravamo andati tranquillamente con le bici verso casa.
In città non si parlava d’altro – «C’è stato un assalto al distretto», diceva uno, «Chi è stato?», chiedeva un altro, «Una banda di sconosciuti, pare», rispondeva un terzo – e noi ci sentivamo i protagonisti, ogni volta che sentivo qualcuno parlare di questa storia volevo gridarglielo in faccia: «Siamo stati noi, noi!!!»
Ero orgoglioso, niente da dire, mi sentivo un genio e per qualche tempo con i miei amici mi sono comportato come un generale con il suo esercito.
Alla fine abbiamo bruciato ancora qualche volta il cortile del distretto, ma poi i poliziotti l’hanno ricoperto con una rete di ferro e cosi le nostre molotov non passavano più: molte rimbalzavano sulla rete e poi cadevano per terra, plof! dalla parte esterna del muro, anche senza esplodere. Non era più molto interessante.
Per qualche tempo abbiamo cercato d’inventarci qualcosa di nuovo, ma poi improvvisamente siamo cresciuti e qualcuno ha proposto semplicemente di sparare ai poliziotti con le pistole. Anche quello era interessante, ma non come bruciarli con le mini-molotov, armi che avevano qualcosa di medievale, e che ci facevano sentire come cavalieri che lottano nobilmente contro i draghi.
E dunque, andando verso il locale di zia Katja con la nostra bella pianta in mano, siamo passati sul Ponte dei morti. All’epoca era un pezzo di strada asfaltata da cui sporgevano pietre vecchie, ma un tempo era stato un ponte vero e proprio. Una volta distrutto, lo avevano prima ricoperto di terra e poi asfaltato, ma per qualche inspiegabile ragione le pietre continuavano a tornare alla superficie, bucando l’asfalto. Era impressionante vedere quelle grosse macchie nere vecchie e deformi che spuntavano dall’asfalto pieno di crepe. Un vecchio della nostra zona mi aveva detto che il mistero si spiegava facilmente come uno «sbaglio d’ingegneria». Ma io da bambino credevo di più a un’altra storia che spiegava quello strano movimento delle pietre del Ponte dei morti come un fenomeno soprannaturale.
Raccontavano che nel diciannovesimo secolo nella nostra città c’era stata una rivolta di lavoratori, stanchi di essere sfruttati da un ricco e nobile signore che aveva una fama paragonabile a quella del conte Dracula. Il pretesto della rivolta era stata la violenza sessuale che quel gentiluomo aveva fatto a una giovane contadina. Quella ragazza non era stata zitta a subire, a differenza di molte altre prima di lei, ma aveva fatto sapere a tutti la verità, a costo di venire disprezzata e di perdere la sua dignità. La gente però non l’aveva disprezzata ma sostenuta, i contadini e i lavoratori erano subito insorti. Avevano ammazzato le guardie ed erano entrati nel palazzo del padrone, lo avevano tirato fuori dal letto e portato in strada, dove l’avevano ucciso a calci e a pugni. Dopo, avevano legato il suo corpo al cancello del palazzo impedendo ai famigliari di toglierlo: doveva marcire li sopra, avevano detto.
Il giorno dopo, la rivolta era stata sedata. Ma la gente diceva che se il corpo del padrone fosse stato tirato giù dal cancello e sepolto sotto una croce, la maledizione sarebbe caduta su tutta la sua famiglia. Ovviamente nessuno aveva ascoltato quelle parole, e il padrone era stato sepolto con tutti gli onori, come un eroe caduto in guerra. Passato qualche mese sua moglie si era ammalata ed era morta. Il figlio maggiore, ormai un giovane uomo, era morto poco dopo anche lui, cadendo da cavallo. Infine, dopo qualche tempo, la figlia era morta mentre partoriva il suo primogenito, che non era sopravvissuto neanche lui.
Il palazzo era stato abbandonato e presto era caduto in rovina: nessuno voleva più andarci a vivere. La terra di quel nobile era stata occupata dai contadini. Sopra le tombe di famiglia avevano costruito un ponte, che per questo si chiamò il «Ponte dei morti».
La leggenda dice che ogni notte i fantasmi dei famigliari si riuniscono per tirare fuori dalla terra il corpo di quell’uomo crudele, per appenderlo di nuovo al cancello, perché vogliono mettere fine alla maledizione e tornare a riposare in pace. Ma non riescono mai a tirarlo fuori, perché sopra la sua tomba è stato costruito il ponte, e l’unica cosa che i fantasmi riescono a fare in una notte è tirare su qualche pietra, che poi il giorno dopo la gente, passando sul ponte, spinge di nuovo al suo posto.
Da bambini ogni tanto di notte andavamo a caccia di quei fantasmi. Per farci coraggio ci portavamo il nostro coltello.
E anche vari oggetti «magici» siberiani, tipo la zampa secca di un’oca о un ciuffo d’erba preso in riva al fiume in una notte di luna piena.
Ci nascondevamo in un piccolo fosso e aspettavamo i fantasmi. Riempivamo quell’attesa con racconti di paura e di vari casi misteriosi, che dovevano servire a spaventarci e tenerci sempre in allerta, ma presto ci addormentavamo uno dopo l’altro.
Il primo diceva:
«Ragazzi, svegliatemi se si vede qualcosa», e poi tutti noi cadevamo come cadaveri sul fondo di quel fosso.
La mattina, chi aveva resistito più a lungo raccontava agli altri quello che voleva.
Gli altri naturalmente si arrabbiavano:
«Bel cretino, ma perché non ci hai svegliati?»
«Non riuscivo a muovermi né ad aprire bocca, – sparava quello. – Ero come paralizzato».
Mei una volta ci ha raccontato che i fantasmi lo avevano rapito, portandolo in giro per la città, volando. Quando immaginavo Mei volare in compagnia di nobili fantasmi del secolo scorso ero davvero colpito al cuore.
E insomma, ogni volta che passavamo da li ricordavo a Mei la storia del suo volo. Lui mi guardava a bocca aperta:
«Mi prendi per il culo?» E io scoppiavo a ridere muovendo le braccia, imitando il movimento delle ali, e allora a quel punto anche Mei non resisteva più e attaccava a ridere pure lui.
Oltrepassando il Ponte dei morti agitando tutti e due le braccia, finalmente siamo arrivati nella via del ristorante di zia Katja.
L’abbiamo trovata in mezzo ai tavoli che serviva i clienti abituali, criminali anziani che vivevano da soli e andavano a mangiare da lei ogni giorno. Avevano passato tutti così tanto tempo in prigione che si erano abituati alla vita collettiva criminale, e per questo cercavano di stare sempre insieme, anche se dimostravano il contrario, visto che sembrava che gli desse fastidio sopportarsi a vicenda. Avevano stampati sulla faccia segni di sofferenza, ma in realtà quelle erano le loro vere facce, le loro facce normali. Secondo me avevano una specie di nostalgia della prigione, e persino della sofferenza nella quale si erano abituati a vivere per tanto tempo. Continuavano a fare la vita dei carcerati, pur essendo da anni persone libere. Molti non riuscivano più ad abituarsi alle regole del mondo civile, alla libertà. Quasi tutti preferivano vivere in monolocali nei quali avevano fatto abbattere i muri del bagno e del cucinino, per ottenere una stanza unica che ricordasse la cella. Conoscevo dei vecchi che mettevano persino il filo spinato e le sbarre alle finestre, perché altrimenti si sentivano a disagio e non riuscivano a prendere sonno. Altri dormivano su brande di legno come in carcere e lasciavano sempre scorrere l’acqua dal rubinetto, proprio come nelle celle. Tutta la loro vita diventava una perfetta imitazione di quella fatta in galera. Era strano: si pensa che una persona, dopo aver trascorso tanti anni dentro, non veda l’ora di abbandonare il disastroso modo di vivere del carcere per avere le comodità di una vita libera e bella, però per questa gente era come se gli avessero tolto la loro vera identità e li avessero catapultati in un mondo estraneo.
Zia Katja permetteva a tutti quei criminali di ricreare nel suo locale una specie di finto carcere, perché erano suoi clienti da sempre ma anche perché voleva bene a ognuno di loro e, come diceva lei stessa:
«Non oso rieducare le persone anziane».
Cosi quando si entrava nel ristorante di zia Katja, sembrava di stare dentro una cella.
Lo si capiva già da come stavano seduti, con le teste tutte chine, come se qualcosa gli impedisse di alzarle. Questo è un buon metodo per distinguere un vecchio carcerato: tiene sempre la testa bassa, perché in prigione si passa la maggior parte del tempo seduti sulle brande e bisogna stare attenti a non battere la testa contro la branda di sopra. Anche chi ha passato pochi anni in galera, quando esce non si libera facilmente di questa abitudine.
Di solito da zia Katja i vecchietti giocavano a carte, ma non con normali carte da gioco, con le kolotuski, carte fatte in carcere, dipinte a mano.
Erano tutti vestiti uguali, di grigio, e avevano tutti la fufajka, la classica giacca pesante, spessa e calda.
Come in cella, fumavano passandosi la sigaretta l’un l’altro, anche se potevano permettersi di fumare ognuno la sua; da quel fumo che riempiva il locale spuntavano le loro facce distrutte, con su un’espressione che era un’eterna domanda, come se li avesse colpiti un fatto strano, che proprio non riuscivano a spiegarsi: occhi spalancati che ti guardavano e in tre secondi ti facevano una radiografia completa, e sapevano meglio di te chi eri.
Tra loro parlavano solamente in gergo e in fenja, la vecchia lingua criminale siberiana, ma parlavano piano e poco, comunicavano più a gesti, soprattutto segreti.
Chiamavano zia Katja «mamma», per sottolineare l’importanza del suo ruolo e della sua autorità.
Seguivano molte regole di comportamento del carcere, ad esempio non andavano in bagno mentre qualcuno mangiava о beveva, anche se il bagno non era nella stessa stanza ma dall’altra parte del cortile. Non discutevano di politica, religione, о differenze tra nazionalità.
Tra loro esisteva una precisa gerarchia: i più autorevoli si sedevano vicino alle finestre, e godevano dei posti migliori, gli altri stavano più vicini alle porte. I «rifiuti» e gli «abbassati» non erano ammessi: in libertà non si è costretti a condividere lo stesso spazio come in carcere. C’erano solo due о tre «sesti»[8]8
Cosi vengono chiamati i membri di livello più basso di alcune caste criminali: il numero deriva dalla carta da gioco di minor valore presente in un mazzo.
[Закрыть], che erano una specie di schiavi, persone che svolgevano compiti ritenuti non degni di un criminale: potevano toccare i soldi con le mani, cosi pagavano le consumazioni di tutti prendendo il denaro dalla cassa comune. Quando qualcuno finiva le sigarette il «sesto» doveva correre a procurargliene altre: servizio per cui veniva retribuito ma anche trattato con leggero disprezzo, non offensivo, ma indicativo, per ricordargli il suo posto nella scala gerarchica. Faceva impressione vedere ’sti vecchi trattati come ragazzini; stavano sempre allerta, controllavano in continuazione se qualcuno in sala aveva bisogno di loro. Quando portavano le sigarette s’inchinavano con la faccia umile, aspettavano che il criminale più autorevole aprisse il pacchetto e gliene offrisse qualcuna per il servizio, poi, ringraziando, tornavano al loro posto camminando al contrario, come i gamberi, per non dare la schiena alle persone con cui avevano appena avuto a che fare.