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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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Carcere minorile

Una sera stavo tornando a casa con Mei, faceva caldo, era fine agosto. Venivamo dal quartiere Centro ed eravamo quasi arrivati a Fiume Basso, quando da un giardinetto a una ventina di metri da noi sono saltati fuori tre ragazzi sui sedici anni, ubriachi marci, con le bottiglie vuote in mano.

Dalle numerose bestemmie che uscivano dalle loro bocche abbiamo subito capito che sarebbe scoppiata una rissa.

Mei ha detto con voce triste e molto calma:

– Cristo Santo, ci mancavano ancora ’sti cornuti… Kolima, se solo fanno una mossa verso di noi li ammazzo, te lo giuro… – si è messo la mano in tasca e ha tirato fuori piano il coltello. Poi l’ha appoggiato sul fianco, ha schiacciato il bottone e la lama si è aperta, dopo di che l’ha nascosto dietro la schiena. Io ho fatto lo stesso, ma la mano con il coltello l’ho nascosta davanti, sotto la maglietta, fingendo di stringere la cintura.

– Spero per loro che siano intelligenti, a chi servono le grane a quest’ora… – ho detto mentre continuavamo a camminare.

A un certo punto, quando li abbiamo superati, uno dei tre ha tirato una bottiglia vuota sulla schiena di Mei. Ho sentito un rumore innaturale, come di una palla di neve contro un muro. Poi subito dopo un altro rumore naturale, che mi aspettavo: quello di una bottiglia che si rompe cadendo a terra.

In un secondo, ancor prima che io riuscissi a reagire, Mei stava già pestandone uno, gli altri due lo circondavano, cercando di colpirlo con le bottiglie. Mi sono buttato addosso al primo sotto tiro e l’ho accoltellato sul fianco. Un altro ha spaccato una bottiglia a terra e mi ha tagliato la faccia con il pezzo che gli era rimasto in mano. Mi sono arrabbiato di brut-to e gli ho dato una serie di coltellate sulla gamba. In quell’istante, dietro la mia schiena ho sentito un rumore di caricatore di Kalasnikov, e subito dopo una raffica di spari. Mi sono buttato a terra, per istinto. Una voce ha urlato:

– Gettate le armi lontano da voi! Mani in alto, gambe larghe, facce in giù! Siete in arresto!

Sono come caduto in un pozzo senza fine.

«No, impossibile, qualsiasi cosa al mondo, ma questo no».

In attesa di ulteriori indagini, durate due settimane precise, mi hanno chiuso nel carcere provvisorio del distretto di polizia di Tiraspol'. I tre che ci avevano aggrediti hanno ritirato le denunce, dopo che mio padre aveva mandato a casa loro le persone giuste.

Mei è uscito dopo una settimana, perché non aveva usato il coltello.

Io invece l’avevo usato, il mio coltello era stato trovato sul posto, e anche se le vittime non chiedevano niente alla giustizia, a quella sono bastati i rapporti dei poliziotti che ci avevano arrestati, e le mie impronte sull’arma.

Processo veloce come un fulmine: l’accusa ha chiesto tre anni d’incarcerazione in una prigione minorile di massima sicurezza. L’avvocato – che era un legale pagato dallo Stato, ma nonostante tutto faceva bene il suo lavoro, anche perché, come ho saputo dopo, aveva ricevuto un tot di soldi dalla mia famiglia – ha insistito sulla particolarità del caso: assenza di denunce da parte delle vittime, buona condotta ai tempi della mia prima condanna passata a casa, e soprattutto impossibilità di provare che l’arma appartenesse a me. Avrei potuto trovarla sul posto, persino prenderla dalle stesse vittime, che infatti, nella seconda dichiarazione, si erano definite «aggressori». Alla fine il giudice, una signora anziana e grassottella, ha annunciato con voce da funerale:

– Un anno di detenzione nella colonia a regime severo per minori, con possibilità di richiesta di scarcerazione anticipata – dopo cinque mesi di detenzione – in caso di buona condotta.

Non ero assolutamente spaventato о sorpreso. Ricordo che mi sentivo come se stessi andando in gita, in campeggio da qualche parte, per riposare un po’ e poi tornare a casa. Anzi, mi sentivo come se stessi per fare qualcosa che aspettavo da tutta la vita, qualcosa di grande e importante.

E cosi mi hanno portato in prigione, in un posto che si chiamava «Di pietra», un grande carcere con vari blocchi e reparti, una costruzione antica, ancora dei tempi dello zar, su tre piani. Ogni piano aveva cinquanta stanze, grandi ugua li, settanta metri quadri l’una. In ogni stanza c’erano due finestre, о meglio due buchi, senza né infissi né vetri, solo un foglio di ferro saldato dall’esterno, con piccoli fori per far passare l’aria.

Mi hanno scortato fino a una stanza del terzo piano, le porte di ferro si sono aperte davanti a me e il secondino ha detto:

– Vai, entra senza paura, esci senza piangere…

Ho fatto un passo e le porte si sono chiuse dietro di me con gran rumore. Guardavo li dentro e non credevo ai miei occhi.

La stanza era tutta piena di letti di legno a tre piani, messi uno contro l’altro, con pochissimo spazio in mezzo, giusto per poter passare. I ragazzi stavano seduti sui letti, camminavano intorno, nudi e sudati, in un’aria impregnata di puzza di latrina e di fumo di sigarette e di qualche altro odore schifoso, l’odore di uno straccio sporco bagnato che dopo un po’ comincia a marcire.

Si vedeva solo metà della stanza, a un metro e mezzo dal pavimento l’aria diventava sempre più spessa e fino al soffitto c’era come una grande nuvola di vapore.

Stavo in piedi, e cercavo di capire cosa fare. Conoscevo benissimo le regole del carcere, sapevo che non dovevo muovere neanche un passo dentro quella stanza finché non me lo permettevano le autorità della cella, però mi guardavo intorno e non vedevo nessuno interessato al mio arrivo. Per di più i miei vestiti mi sembravano sempre più pesanti, per via dell’umidità che c’era lf dentro. Poi ho sentito qualcosa cadere sulla mia testa, ho fatto un movimento con la mano, per togliere la cosa che mi era cascata addosso, ma subito dopo me ne sono cadute altre sulle spalle. Allora mi sono mosso, per buttarle giù.

– Non ti preoccupare, sono solo scarafaggi… Davanti alla porta sono tanti, ma dentro la stanza non vanno, perché sotto le brande mettiamo il veleno…

Ho guardato verso la voce che mi parlava e ho visto un ragazzo molto magro, con le mutande sporche e bagnate, la testa pelata, senza denti davanti e con gli occhiali. Non riuscivo a dirgli niente, ero come in una bolla.

– Sono Nano, qui faccio lo snyr. Tu chi cerci? Dimmelo, io te lo trovo —. Si è avvicinato un po’ e si è messo a guardare il mio tatuaggio sul braccio destro. Snyr in gergo criminale significa «quello che va qua e là»: esiste in tutte le prigioni russe, è un individuo che non viene rispettato da nessuno, non viene considerato un criminale onesto, è lo schiavo di tutta la cella, porta i messaggi da un criminale all’altro.

– Ci sono siberiani qui? – gli ho chiesto in tono freddo, per fargli subito capire che con me doveva tenere le distanze.

– Sì che ci sono, come no: Filat' «Bianco» di Magadan, Kerja «Jakut» di Urengoj…

– Va bene, – l’ho interrotto senza tante cerimonie. – Vai veloce da loro, digli che è arrivato un fratello. Nicolai «Kolima» di Bender…

Lui è subito sparito dentro il labirinto dei letti. Lo sentivo dire, mentre andava da una branda all’altra:

– Un nuovo arrivato, è siberiano… E arrivato un siberiano, un altro… Un siberiano, di Bender, è arrivato adesso…

In un attimo tutta la cella era stata informata.

Dopo qualche minuto, Nano è saltato fuori da dietro i letti. Si è appoggiato al muro, guardando la zona da cui era appena sbucato. E da lì che sono usciti otto ragazzi. Si sono messi davanti a me. Parlava quello in mezzo, aveva due tatuaggi sulle mani: guardandoli ho capito che veniva da una banda di rapinatori, e che apparteneva a una vecchia famiglia di Urea siberiani.

– Allora, sei siberiano? – mi ha chiesto in tono rilassato.

– Nicolai Kolima, di Bender, – ho risposto.

– Ma dai, sei addirittura della Transnistria… – il suo tono era cambiato, era diventato un po’ più vivo.

– Di Bender, di Fiume Basso.

– Io sono Filat' Bianco, di Magadan. Vieni, ti faccio conoscere il resto della famiglia…

Il carcere minorile dov’ero finito, contro le mie aspettative non aveva affatto l’aspetto della galera seria di cui sentivo parlare da sempre e a cui ero preparato sin da piccolo. In quel carcere non esisteva nessuna legge criminale, tutto era caotico e completamente fuori da ogni modello di comunità carceraria esistente.

Le difficili condizioni di vita e l’assenza di libertà, in un momento cosi delicato nel processo di crescita di ogni essere umano, complicavano tutto. I minorenni erano molto arrabbiati e diventavano delle vere bestie: erano cattivi, sadici, falsi, con una gran voglia di seminare distruzione e radere al suo lo qualsiasi cosa gli ricordasse il mondo libero. In quel posto nessuno era sicuro, la violenza e la pazzia erano come le fiamme di un incendio che bruciava le menti e le anime.

Ogni cella ospitava centocinquanta ragazzi. Le condizioni erano disastrose. I letti non bastavano per tutti, quindi si dormiva facendo i turni. Il bagno era uno solo, in fondo alla cella, e puzzava cosi tanto che solo ad avvicinarsi veniva da vomitare. La ventilazione non esisteva proprio, l’unica fonte d’aria erano i fori nei fogli di ferro alle due finestre.

Li dentro si faceva fatica a respirare, quindi molti ragazzi deboli, che avevano malattie cardiache о respiratorie, non resistevano tanto tempo, stavano male, spesso svenivano e a volte non si svegliavano più. Qualche settimana dopo il mio arrivo, un ragazzo che aveva seri problemi con i polmoni ha cominciato a sputare sangue. Poveraccio, chiedeva da bere, ma gli altri lo hanno buttato in un angolo, e non si volevano avvicinare a lui per paura di prendersi la tubercolosi. Dopo una notte passata a terra, nella pozza di sangue che si era formata a forza di sputare in continuazione, abbiamo chiesto all’amministrazione di trasferirlo in ospedale.

La luce era sempre accesa, notte e giorno. Tre lampadine poco potenti illuminavano lo spazio dentro una specie di sarcofago di ferro e vetro spesso, avvitato al muro.

Il rubinetto era sempre aperto, scorreva un’acqua bianca come il latte, calda, quasi bollente, d’inverno e d’estate.

I letti erano brande a tre piani, molto strette. Dei materassi era rimasta solo la stoffa, l’imbottitura era consumata, quindi si dormiva sulla superficie dura, sul legno. Dato che faceva sempre un caldo boia, nessuno usava le coperte: le mettevamo sotto la testa, visto che i cuscini erano sottili come i materassi, senza niente dentro. Io preferivo dormire senza cuscino, e mettere la coperta sotto il materasso, per non rompermi le ossa sul legno.

Non c’era nessun orario da seguire, eravamo lasciati a noi stessi ventiquattr’ore su ventiquattro. Tre volte al giorno ci portavano il cibo, di mattina un bicchiere di tè che somigliava ad acqua sporca, con un leggero segno della presenza di qualcosa che poteva essere stato il tè nella sua vita precedente. Sopra il bicchiere mettevano un pezzo di pane con una pallina di burro bianco, allungato in cucina dai cuochi, che rubavano i viveri, come se fossero loro i criminali, e non noi.

Siccome al terzo piano, dov’ero io, c’era il blocco di «destinazione speciale» riservato ai minorenni più pericolosi, l’onore di avere a colazione cucchiai о altri oggetti di metallo noi non lo meritavamo. Il burro lo spalmavamo sul pane con il dito. Poi inzuppavamo il pane imburrato dentro il bicchiere di tè e lo mangiavamo come se fosse un biscotto. Dopo bevevamo il tè con il grasso che ci galleggiava dentro, era molto buono e nutriente.

Tre ragazzi si mettevano alla finestrella della porta: prendevano il cibo dalle mani delle guardie e poi lo passavano agli altri. Prendere qualcosa dagli sbirri era ritenuto «disonesto», le persone che lo facevano si sacrificavano per tutti, e in cambio del favore nessuno li toccava, gli permettevano di vivere tranquilli.

A pranzo mangiavamo una zuppa molto leggera, con verdure poco cotte galleggianti dentro i piatti come astronavi nello spazio. I più fortunati trovavano un pezzo di patata о una lisca di pesce, о un osso di qualche animale. Questo come primo. Per secondo davano un piatto di kasa così in Russia chiamano il grano spezzato cotto in acqua, mischiato con un po’ di burro. Di solito ci mettevano dentro pezzetti di qualcosa che assomigliava alla carne, ma sapeva di suola di scarpe. Da bere c’era sempre il tè, uguale a quello della mattina, solo molto meno caldo. Un pezzo di pane e la solita pallina di burro, e per mangiare tutta quella delizia ci davano persino un vero cucchiaio. I cucchiai però erano contati, e se alla fine – dopo il quarto d’ora previsto per il pranzo – ne mancava anche uno solo, in cella entrava la squadra del reparto «educativo» e massacrava di botte tutti quanti, senza fare grandi indagini. A quel punto il cucchiaio veniva restituito, о meglio buttato verso la porta da qualcuno che preferiva restare in incognito, perché se no i suoi compagni di cella lo avrebbero torturato e, come si dice da noi in queste occasioni, «gli facevano sanguinare anche la sua ombra».

Per cena di nuovo kasa, un bicchiere di tè con pane e burro e di nuovo cucchiai, ma questa volta il tempo per mangiare era limitato a dieci minuti.

Intorno al cibo si facevano tante storie. Gruppetti di bastardi, uniti dal comune amore verso la violenza e le torture, terrorizzavano tutti quelli che stavano da soli, che non facevano parte di nessuna famiglia. Li picchiavano e li torturavano sistematicamente, e gli facevano pagare una specie di «tassa», costringendoli a cedere una gran parte della loro porzione.

Dentro il carcere minorile, infatti, per cercare di sopravvivere e stare tranquilli bisognava unirsi alle famiglie. Una famiglia era composta da un gruppo di persone che avevano delle caratteristiche in comune, spesso la nazionalità. Ogni famiglia aveva le sue regole interne, e i ragazzi le seguivano, cercando di semplificarsi la vita. In una famiglia-tipo si usava condividere tutto: chi riceveva un pacco da casa dava un po’ della sua roba agli altri, in questo modo tutti avevano in continuazione qualcosa da fuori; era molto importante psicologicamente, aiutava a non demoralizzarsi.

I membri della stessa famiglia si proteggevano l’un l’altro, mangiavano e organizzavano tutte le loro cose quotidiane insieme.

Ogni famiglia imponeva anche delle regole particolari, dei vincoli da rispettare. Ad esempio, nella nostra famiglia siberiana era vietato praticare giochi d’azzardo, scommettere о partecipare a qualsiasi attività con persone di altre famiglie. E se qualcuno faceva qualcosa a un siberiano, l’intera famiglia si buttava contro di lui anche se era da solo, lo massacrava di botte e lo costringeva a «insaponare gli sci», cioè a chiedere alle guardie di essere subito trasferito in un’altra cella, motivando la sua richiesta con il pericolo di morte: un gesto che era definito da tutti gli altri come disonesto, perché una volta trasferito quel poveraccio sarebbe stato trattato malissimo e disprezzato da tutti.

Una volta uno della nostra famiglia, un ragazzo di dodici anni di nome Aleksij soprannominato «Dente Canino», ha avuto da dire con uno dei simpatizzanti di Seme nero, che si chiamavano Voriski e cioè «Ladrini», perché Vor, «Ladro», nel Seme nero è il nome della massima autorità. Nel carcere i Ladrini copiavano in tutto i membri di Seme nero: giocavano a carte barando, facevano scommesse su qualsiasi cosa, praticavano rapporti omosessuali spesso violentando i più deboli e poi terrorizzandoli, sfruttandoli come loro schiavi.

Insomma, Dente Canino è andato con un altro siberiano al cesso (in carcere ci si sposta sempre insieme, così se capita qualcosa a un tuo fratello non è da solo), e come prevede il regolamento ha avvertito tutti in cella che stava per andare a fare i suoi bisogni. Si usa avvertire, perché molti credono che quando qualcuno va al cesso non si può mangiare о bere nel lo stesso momento, altrimenti il cibo e l’acqua diventano sporchi e la persona che tocca quel cibo diventa zakontacenyj, che in gergo criminale significa contaminata, contagiata: una categoria di persone disprezzate e maltrattate, che si trovano al livello più basso della gerarchia criminale, da dove non possono mai più nella vita rialzarsi.

Quando Dente Canino ha fatto il suo annuncio, un ragazzo dei Ladrini, un deficiente e sadico di nome Pétr, se ne è uscito dicendo che era meglio se Dente Canino ripeteva cosa aveva detto, perché lui non aveva sentito bene.

Era una chiara provocazione a cui Dente Canino ha risposto in modo altrettanto scortese, proponendo a Pétr di lavarsi meglio le orecchie, se aveva problemi a sentire le cose.

Dopo di che Dente Canino è andato al cesso, ha fatto i suoi bisogni ed è tornato nella zona della famiglia siberiana.

Dopo cena, si sono presentati da noi quindici Ladrini, dicendo che dovevamo consegnargli Dente Canino, perché lo aspettava una punizione per aver offeso un criminale onesto. Siccome la nostra idea di onestà era molto diversa dalla loro, nessuno di noi ha pensato neanche per un secondo di lasciare un nostro fratello nelle loro mani. Senza rispondere niente, ci siamo buttati su di loro e abbiamo fatto un macello. Il ragazzo più grande tra noi, Kerja, soprannominato «Jakut», che era un puro nativo siberiano e aveva lineamenti indiani, ha staccato con i denti un pezzo d’orecchio a uno di loro, e davanti a tutti lo ha masticato e ingoiato.

Abbiamo costretto diciotto persone in una volta sola a chiedere il trasferimento, e di cella in cella, in tutta la prigione, hanno cominciato a raccontare questa storia, dicendo che eravamo cannibali. Dopo un mese, un ragazzo trasferito dal primo piano nella nostra cella ci ha detto con terrore che sotto girava voce che al terzo piano i siberiani avevano mangiato vivo un ragazzo, e che di lui non era rimasto niente.

Noi siberiani avevamo fatto amicizia con la famiglia armena. Gli armeni li conoscevamo da sempre, tra le nostre comunità esisteva un buon rapporto e ci somigliavamo in molte cose. Avevamo fatto un patto con loro: nel caso scoppiasse un grosso casino ci saremmo sostenuti a vicenda. Così il potere delle nostre comunità era aumentato.

Festeggiavamo i compleanni e altre feste insieme, a volte ci dividevamo persino i pacchi che arrivavano da casa. Se a qualcuno serviva urgentemente qualcosa, che so, una medicina о dell’inchiostro per tatuaggi, ci aiutavamo senza fare tanti discorsi.

Eravamo buoni amici con gli armeni, ma anche con i bielorussi, brava gente, e pure con i ragazzi che venivano dal Don, dalla comunità dei cosacchi: erano un po’ militareschi ma avevano un gran cuore, ed erano tutti molto coraggiosi.

Invece avevamo grane con gli ucraini: alcuni di loro erano nazionalisti e odiavano i russi, e per qualche strano motivo anche tutti quelli che non condividevano questo sentimento finivano per sostenerli. Con gli ucraini poi le cose sono decisamente peggiorate dopo che un siberiano di un’altra cella ha ammazzato uno dei loro. Insomma, tra le nostre comunità è nato un vero odio.

Ci tenevamo lontani dalla gente della Georgia, erano tutti sostenitori di Seme nero. Ognuno di loro voleva a tutti i costi diventare un’autorità, inventava mille modi per farsi rispettare dagli altri, faceva una specie di campagna elettorale criminale per guadagnare voti. I georgiani che ho conosciuto lì non sapevano niente della vera amicizia о della fratellanza, vivevano insieme odiandosi l’un l’altro e cercando di fregare tutti, renderli loro schiavi, sfruttando le leggi criminali e trasformandole come faceva comodo a loro. Solo così avevano qualche speranza di diventare capi, e di essere rispettati dai criminali adulti della casta Seme nero.

I sostenitori di Seme nero erano in maggioranza, e grazie a una politica di terrore tenevano sotto controllo il resto dei detenuti, che loro chiamavano «tacchi», un nome come un altro, che non si spiega in nessun modo particolare, si usa so lo per sottolineare la semplicità e l’ignoranza della massa. I tacchi erano i detenuti normali, ragazzi che non erano legati a nessuna comunità criminale, finiti in prigione per disgrazia; molti di loro erano figli di alcolizzati e avevano ricevuto una condanna per vagabondaggio, un articolo poco rispettato. Queste povere anime erano talmente esaurite e ignoranti che facevano pena a tutti. I sostenitori di Seme nero, i La-drini, li sfruttavano come schiavi e li maltrattavano, li torturavano per piacere sadico e commettevano su di loro violenze sessuali.

Secondo la tradizione siberiana, l’omosessualità è una malattia infettiva molto grave, perché distrugge l’anima umana; noi quindi siamo cresciuti nel completo odio verso gli omosessuali. Questa malattia, che da noi non ha un nome preciso e si chiama solamente «male di carne», si trasmette attraverso lo sguardo, quindi un criminale siberiano non guarderà mai negli occhi un omosessuale. Nelle prigioni per gli adulti, nei posti dove la maggioranza dei detenuti è di fede ortodossa siberiana, gli omosessuali vengono costretti a suicidarsi, perché non possono condividere gli stessi spazi con gli altri. Come dice il proverbio siberiano: «I malati di carne non dormono sotto le icone».

Io non ho mai capito fino in fondo la questione dell’odio verso gli omosessuali, ma siccome sono stato educato così, stavo col branco. Con il passare degli anni ho avuto tanti amici omosessuali, persone con cui collaboravo, facevo affari, e ho avuto un buon rapporto con molti di loro, mi erano simpatici, mi piacevano come persone. Eppure fino a oggi non sono riuscito a farmi passare la brutta abitudine di dire finocchio о frocio a qualcuno quando lo voglio insultare, anche se subito dopo mi pento, anzi mi vergogno. E l’educazione siberiana che parla per me.

I Ladrini disprezzavano gli omosessuali passivi, anche se quasi tutti loro erano omosessuali attivi. Nelle celle dove non erano presenti famiglie forti, e la maggioranza dei ragazzi erano completamente lasciati a se stessi, i Ladrini li violentavano in gruppo, costringendoli a partecipare a vere e proprie orge. Li trattavano male, li insultavano e li provocavano in continuazione, chiamandoli con tanti nomi offensivi e obbligandoli a vivere in condizioni disumane.

Molto spesso anche alcune guardie violentavano i minorenni, di solito succedeva nelle docce. La doccia si poteva fare una volta alla settimana se ti trovavi in regime comune, mentre in regime speciale, dov’ero io, una volta al mese. Noi ci arrangiavamo con le bottiglie di plastica, facendo la doccia sopra il gabinetto, dato che avevamo sempre acqua calda in abbondanza. Quando andavamo nel blocco delle docce sembrava un’operazione militare: camminavamo tutti vicini, se avevamo deboli e malati li mettevamo in mezzo e li tenevamo sempre sotto controllo, ci muovevamo come un plotone di soldati.

Nelle docce infatti scoppiavano spesso risse violente, anche senza un motivo, solo perché qualcuno era troppo nervoso. Bastava che ti fregassero un posto sotto l’acqua, ed era la fine. Le guardie non intervenivano mai, lasciavano che i giovani sfogassero la loro rabbia, stavano li a guardare, a volte scommettevano sui ragazzi come si fa coi cani da combattimento.

Un giorno, dopo una rissa nelle docce tra noi e i georgiani, stavo correndo dietro a uno che mi aveva appena strappato di dosso un asciugamano ricamato da mia madre. A un certo punto il mio nemico si è improvvisamente fermato, e mi ha fatto segno di non far rumore. Io ero molto incuriosi-to dal suo atteggiamento, pensavo a una trappola. Ho smesso di correre e mi sono avvicinato a lui lentamente, con i pugni stretti, pronto a picchiarlo, ma quello si è messo a indicare una cabina da dove usciva un rumore strano, come se qualcuno stesse lentamente passando qualcosa di ferro sulla parete piastrellata. Abbiamo intuito che stava succedendo qualcosa di brutto, avevo un presentimento cattivo, non volevo vedere quello che stava avvenendo dietro quella parete.

Con quel ragazzo che solo un momento prima volevo massacrare di botte, siamo passati da una cabina all’altra, nascondendoci, avvicinandoci sempre di più al posto da dove arrivava quel suono. Ho sentito male per il panorama che si è aperto davanti ai nostri occhi: un grosso guardiano di mezza età con i pantaloni abbassati, la testa in alto e gli occhi chiusi, stava letteralmente inculando un ragazzo piccolo e magro, che piangeva piano e non tentava neanche di scappare dalla presa del violentatore, che lo teneva fermo con una mano sul collo e l’altra sul fianco.

Il rumore che avevamo sentito era quello del mazzo di chiavi agganciato alla cintura dei pantaloni calati dello sbirro pedofilo: le chiavi sfregavano a terra a ogni suo movimento.

Credo che siamo stati li un attimo, forse, perché appena abbiamo capito di che cosa si trattava, siamo scappati via in silenzio. Mentre ci avvicinavamo alle docce aperte dove i nostri amici già si stavano lavando, io ho fatto al georgiano il segno del silenzio e lui mi ha risposto si con la testa.

Le guardie non erano tutte uguali. Alcune avevano un po’ di umano dentro, e quindi non ci trattavano male, cioè, non avevano mai un gesto di umanità verso nessuno, però non picchiandoci, non umiliandoci e non maltrattandoci, già cosi ci aiutavano moltissimo. Alcune invece costringevano certi minorenni a prostituirsi.

C’era uno sbirro vecchio e schifoso: aveva fatto per tutta la vita la guardia nelle carceri per adulti, e dopo aver studiato psichiatria infantile aveva chiesto trasferimento nel carcere minorile. Aveva molto potere nella nostra prigione, anche se era un semplice guardiano faceva concorrenza al direttore, perché era legato a persone che gestivano una nuova attività arrivata dall’estero con la democrazia, come una forma di vita libera. Queste persone erano produttori di film porno pedofili e costringevano i minorenni a prostituirsi, ad avere rapporti sessuali con stranieri, gente che arrivava dall’Europa e dagli Usa, gente che aveva tanti soldi e quindi, nel nuovo sistema democratico, un immenso potere. Molti ragazzi venivano prelevati a una cert’ora dalle celle e tornavano il giorno dopo con borse piene di cibo e di cazzate varie, tipo riviste patinate, matite da disegno e altre cose che nessuno in carcere si sognava. Ai compagni di cella era proibito toccarli e maltrattarli, erano intoccabili, nessuno osava muovere un dito contro di loro, perché tutti lo sapevano: quei ragazzi erano le puttane del vecchio guardiano. Lui lo chiamavamo «Coccodrillo Zena», come il personaggio di un cartone animato sovietico. Le puttane invece le chiamavamo con nomi di donne. La loro branda di solito era giù in fondo, vicino alla porta, e quelli stavano li tutto il tempo.

Nessuno parlava con loro, vivevano completamente isolati, facevamo tutti finta che non esistevano. Noi siberiani poi li consideravamo contagiosi, quindi evitavamo ancora più degli altri qualsiasi forma di contatto persino con le loro cose, о con quelli che avevano avuto contatti con loro e le loro cose.

Una volta un tipo di sedici anni chiamato «Pesce», uno dei Ladrini, ha deciso che voleva violentare una puttana, un ragazzo di quattordici anni chiamato da tutti «Marina». Marina veniva prelevato sistematicamente dalla sua cella, ma una mattina era tornato con segni di frustate sulle braccia, e con il collo rosso come se lo avessero strozzato. Però non sembrava star male, era contento, mangiava frutta, leggeva fumetti. Per farla breve, Pesce è andato da lui e gli ha chiesto un pezzo di frutta. Marina gliene ha data un po’, Pesce si è seduto con lui sulla branda, hanno cominciato a parlare e alla fine lui lo ha convinto a fargli un pompino davanti a tutta la cella.

Noi siberiani in quei giorni eravamo in una situazione particolare, avevamo appena fatto una rissa e dovevamo stare tranquilli per un po’, altrimenti – da come ci avevano parlato quelli del reparto disciplinare – ci separavano e ci mandavano in celle diverse, dove avevamo serie possibilità di finire nella merda. Quindi, mentre Pesce affogava i suoi organi genitali nella bocca di Marina davanti a tutta la sua scorta e ad altri idioti che erano andati a godersi lo spettacolo, noi eravamo seduti sulle nostre brande, incazzati neri, perché non potevamo neanche spaccargli la faccia.

Si sentivano le urla d’incitamento dei Ladrini:

– E dai, finocchio, mangialo tutto!

– Bravo Pesce, fagli ingoiare il pesce!

– Apri ’sta bocca che adesso te lo metto dentro anch’io!

In pochi istanti abbiamo capito che parecchia gente voleva da Marina lo stesso trattamento che aveva ricevuto Pesce.

Si sentiva la debole voce di Marina sussurrare con tonalità chiaramente femminili, che faceva schifo sentire:

– No, ragazzi, a lui l’ho fatto perché mi piace, ma basta così…

Ma nessuno ormai poteva più fermare la folla.

– Ma che dici, apri ’sta boccuccia, mia cara, brava, cosi, altrimenti ti spacco quel tuo naso da checca!

– Si, cosi, succhia bene! Che poi tocca a noi!

Si sentivano i gemiti, e ogni tanto le urla di quelli che arrivavano all’estasi. Marina tossiva e sputava. Altri gli gridavano con cattiveria:

– Che sputi, finocchio! Devi ingoiare, altrimenti ti spacco la faccia!

Poveraccio, Marina. Faceva pena, piangeva, e con la voce sottile, come quella di un malato grave che non ha la forza di respirare, supplicava:

– Vi prego, non ce la faccio più, lasciatemi in pace! Dopo vi succhio tutti, però fatemi riposare, vi prego…

– Dopo non vale, finocchio, se sei stanco mettiti sulla branda, però con la pancia in giù! – Pesce non voleva fermarsi.

Uno dei nostri stava per andare a picchiarlo, ma lo abbiamo fermato, non potevamo permetterci di finire di nuovo nei guai. Eravamo costretti ad assistere a quello schifo. Nessuno di noi guardava, però sentivamo tutto perfettamente, eravamo a pochi metri dalla scena della violenza. Abbiamo sentito che buttavano Marina sulla branda, mentre qualcuno diceva con voce chiaramente orgogliosa:

– Fatemi passare, glielo metto nel culo io per primo!

Subito dopo Marina ha fatto una specie di urlo, ma poi ha cominciato a sospirare, proprio come una ragazza quando fa l’amore. Le brande si muovevano, il movimento passava da una all’altra e arrivava fino alle nostre come un battito leggero, ci faceva impazzire tutti dalla rabbia, quel dondolio, se avessimo potuto li strappavamo a pezzi tutti quanti.


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