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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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Essere sulla parte pili alta dell’onda più alta che esiste nel mare è molto bello, ma quanto tempo può durare un’onda del genere? E cosa cavolo succede, quando quella bestia che stai cavalcando ti sbatte giù, come un minuscolo parassita?

Io mi faccio sempre domande cosi, quando sento che si sta avvicinando il momento di salire sopra un’onda grossa e violenta.

Certi criminali, quando intuiscono che la terra sta franandogli sotto i piedi, dimenticano tutte le belle e giuste regole e leggi, e allora comincia a volare il piombo e nessuno può assicurarti niente.

Pensavo che stavamo andando nella zona controllata da un uomo che neanche ci considerava, dato che secondo le sue regole i minorenni non contano nulla: ma che cosa poteva succedere se erano proprio questi minorenni a fargli perdere il suo potere? Non ci avrebbe certo lasciati tornare a casa tranquilli, dopo esserselo preso in culo. Forse avrebbe scatenato una guerra e a noi sarebbe toccato trasformarci da cacciatori in prede. Potevamo sembrare cattivi quanto ci pareva, e persino esserlo davvero, ma se finivamo in dieci contro un quartiere che aveva pure il Guardiano impazzito, che ce l’aveva con noi… beh, quelli ci avrebbero seccato come i maiali a Capodanno, punto e basta.

Arrivati in Centro, abbiamo trovato parcheggiate moltissime macchine davanti al locale dov’eravamo già stati all’inizio del nostro giro. Erano tutti lf, insomma, forse ad aspettarci, forse a discutere tra loro la situazione. Ho percepito dall’aria che tirava, dal vento in faccia, che eravamo già saliti sull’onda.

Uscendo dalla macchina, ho guardato Gagarin. Mi preoccupava il suo stato d’animo, dato che toccava a lui parlare per tutti noi, ed era da lui, da quello che avrebbe detto e da come l’avrebbe detto, che dipendeva il nostro futuro.

Era rilassato, e dal suo sguardo furbo ho capito che aveva un piano.

Non ci siamo detti niente tra di noi, per non fare la figura degli indecisi davanti agli altri che adesso, mentre entravamo nel locale, ci stavano guardando.

Tutta la compagnia del Centro era raccolta intorno a un tavolo a mangiare e bere, con il Guardiano Pavel' in mezzo, che con una faccia arrabbiatissima mordeva con violenza una coscia di maiale fritto, facendo schizzare grasso dappertutto. Vicino a lui c’era il provocatore che ci aveva già insultati l’altra volta: appena ci ha visti si è alzato e si è messo a urlare come un pazzo «Che cazzo volete?», mischiando la domanda con offese varie.

Noi stavamo fermi e quel buffone veniva verso di noi, ogni tanto si girava verso il tavolo per vedere la faccia del suo padrone, per capire se era contento о meno del suo comportamento. Pavel' sembrava indifferente, continuava a mangiare e a fare finta che non esistevamo.

Quando quel pagliaccio si è avvicinato a Gagarin e si è messo a urlargli qualcosa dritto in faccia, Gagarin all’improvviso l’ha preso per il collo (un collo lungo e magro, un collo da tacchino) con la mano sinistra, e con la destra, lentamente, ha estratto di tasca la sua Tokarev.

Stringendo con una mano il collo del tipo, che tentava di colpirlo con i pugni ma non ci arrivava e sembrava un insetto infilzato sull’ago, e nell’altra la pistola, Gagarin non smetteva di guardare Pavel'. Poi ha alzato la mano destra e si è fermato in quella posizione per un attimo: il buffone allora ha cominciato a strillare come un animale ferito, cercava di girare la faccia il più lontano possibile dall’immaginabile traiettoria della mano destra di Gagarin. Ma invano. Perché improvvisamente quella mano ha preso a colpirlo in faccia con la pistola con una forza e una velocità pazzesca. Una raffica di botte.

La faccia del tipo è diventata una ferita unica. Lui è svenuto, con le gambe molli, tenuto ancora per il collo da Gagarin, che continuava a picchiarlo sempre nello stesso punto. Poi Gagarin ha smesso di picchiarlo di colpo come aveva cominciato e l’ha lasciato cadere a terra come un sacco. Dopo dieci secondi ha iniziato a riempirlo di calci. Era un vero massacro.

Quando Gagarin ha finito e si è avvicinato al tavolo dov’e-ra seduto Pavel' (con una faccia da funerale e un pezzo di maiale in gola che non riusciva a mandare giù), mi sono accorto che tutti noi avevamo le armi tra le mani, anch’io.

Gagarin ha agganciato una sedia con il piede, ci si è seduto sopra e senza aspettare che passasse l’effetto della confusione tra la gente del Centro, dovuto al massacro del buffone, ha cominciato a insultare Pavel'. Usava parole molto offensive, gli parlava come si parla a una persona la cui sorte è già decisa.

Era un rischio molto alto, però se il metodo del terrore funzionava, se riuscivamo a seminare il caos tra la gente di Pavel', eravamo a posto. Nessun criminale che si rispetti vuole sostenere un Guardiano che per i suoi sbagli sta per essere rovinato: cosi lo allontanavamo dalla sua gente.

Era una decisione estrema, quella che aveva preso Gagarin, e meno male che non l’aveva condivisa con noi, perché sicuramente quasi tutti saremmo stati contrari, me compreso. Ma siccome eravamo in ballo dovevamo ballare, e ballare bene, anche, altrimenti ci buttavano fuori dalla pista.

11 senso del discorso che Gagarin faceva a Pavel' era semplice: lo rimproverava d’incompetenza, ma soprattutto lo offendeva per abbassarlo agli occhi dei suoi collaboratori.

La cosa stava funzionando, Pavel' aveva cambiato faccia, era diventato molto pallido e anche la sua maniera di stare seduto era cambiata: prima si teneva su con le spalle alte e il petto gonfio, adesso le spalle erano cadute, il petto si era sgonfiato e tutta la sua persona somigliava a una merda secca. Solo gli occhi continuavano a guardare con la stessa rabbia e lo stesso disprezzo di prima.

Gagarin gli ha detto che ci aveva trattati male sin dall’inizio solo perché eravamo minorenni, senza tener conto del fatto che in quel momento eravamo prima di tutto i rappresentanti del nostro quartiere e dell’intera comunità siberiana, che attraverso la nostra missione cercava di risolvere una situazione considerata gravissima da tutte le comunità degne di chiamarsi criminali.

Gli ha detto che aveva comunicato ai nostri vecchi quel lo che era successo quella mattina, e cioè che lui non aveva voluto parlare con noi e ci aveva mandato due suoi aiutanti che si erano dimostrati inaffidabili, visto che ci avevano dato un appuntamento a cui non si erano presentati, mettendo cosi in dubbio la sua stessa autorità. Perché i casi erano due: о lui era un Guardiano che non aveva nessun controllo sulla situazione del suo quartiere, oppure, ed era ancora peggio, cercava di nasconderci qualcosa d’importante.

– Siamo solo interessati a portare a buon fine il nostro compito, – ha detto Gagarin a tutti i presenti, – e non spetta a noi occuparci del resto. Le autorità sono informate e prenderanno le loro decisioni: è questo quello che conta.

Mentre Gagarin parlava, Pavel' lo fissava con una faccia schifata, e a un certo punto è esploso in un accesso di rabbia. Gli ha tirato addosso un fazzoletto sporco, colpendolo in pieno viso, poi si è alzato e ha ripetuto lo spettacolo dell’altra volta: si è strappato la camicia, facendo vedere il petto ricoperto di vecchi tatuaggi e di catene d’oro che scendevano fino all’ombelico, urlando in gergo criminale una valanga di parole che, lasciando da parte parolacce e insulti e offese, grosso modo significavano:

«Ma da quando in qua dei ragazzini possono discutere con i criminali adulti?»

Alla fine si è messo a ripetere sempre la stessa frase:

– Vuoi sparare a un’autorità? Allora sparami!

Gagarin era immobile, e io non riuscivo a capire che cosa stava succedendo nella sua testa.

Mi sono accorto che la gente di Pavel' stava per combinare qualcosa, uno si era allontanato dal tavolo ed era andato verso la cucina. Pavel' intanto continuava a gridare, si è avvicinato, e passandoci in rassegna ha cominciato a urlare in faccia a ciascuno di noi se avevamo ancora voglia di ammazzarlo.

Mei e gli altri stavano fermi e zitti, era molto evidente che non volevano fare un passo falso e aspettavano un ordine о un segnale da Gagarin, che era seduto immobile al tavolo, voltato di schiena.

Quando Pavel' si è avvicinato a me, e ho sentito il suo alito di vino e cipolla uscire dalla sua schifosa bocca insieme alle parole di prima, ho tirato fuori in un attimo dalla tasca della giacca la Nagant di nonno Kuzja. Puntandola contro la grassa guancia di quell’animale, spingendola così forte che la punta della canna annegava nella pelle della sua faccia, deformata dalla sorpresa, ho detto:

– Questa me l’ha caricata nonno Kuzja, hai capito? Ha detto che posso ammazzare chiunque m’impedisca di arrivare a chi ha violentato nostra sorella. Se è necessario, anche un’autorità.

Lui è rimasto immobile e mi ha fissato con occhi pieni di rabbia ma anche di tristezza.

Gagarin si è alzato dal tavolo e ha comunicato a tutti i presenti che stavamo per lasciare il quartiere e che avremmo portato Pavel' con noi, per essere sicuri che nessuno ci sparasse dietro.

Un uomo con la faccia rovinata da una lunga cicatrice che partiva dalla fronte e finiva sul collo, attraversandogli il naso e l’occhio destro, si è alzato e con molta tranquillità ci ha detto:

– Nessuno vi farà niente, eravamo già d’accordo prima del vostro arrivo. Intendevamo denunciare Pavel' alle autorità.

A poco a poco dal suo discorso è venuto fuori che Pavel', con il sostegno di alcuni che erano già stati rinchiusi in un posto sicuro, aveva progettato una serie di omicidi e atti di disordine per scatenare una guerra tra le varie comunità. Il suo fine era prendere il controllo del traffico di alcol, fino ad allora nelle mani di un gruppo di vecchi criminali di diversi quartieri.

Mentre lo sfregiato parlava Pavel' era diventato pallido, e io, che lo tenevo sotto la mia pistola, sentivo attraverso il ferro come lui tremava dentro. Era la fine, per lui: lo aveva capito una volta per tutte.

Lo sfregiato si è presentato come «Pancia». Non avevo mai sentito parlare di lui. Dal suo modo di parlare e di stare in piedi, con la schiena storta e la testa inclinata in avanti, ho capito che era uscito da poco di prigione. Lui l’ha confermato poco dopo: era stato liberato da meno di un mese – ha detto – e ha aggiunto che quand’era dentro molti si lamentavano di come Pavel' sosteneva la prigione. Mandava aiuti solo alle persone scelte da lui, non aveva mai fatto visita a nessuno e aveva incoraggiato delle guerre interne che erano state devastanti. Per questo motivo, su incarico di alcuni criminali anziani, Pancia si era infiltrato nella banda di Pavel' per controllarlo, per tenerlo d’occhio e riferire.

In poche parole avevamo davanti un Vojdot, un esecutore e investigatore criminale che rispondeva solamente alle vecchie autorità, e aveva il compito di scoprire le ingiustizie commesse dalle giovani autorità e dai Guardiani.

Era la prima volta in vita mia che vedevo una persona con quell’incarico, di solito quelli tenevano nascosta la loro identità: del resto nessuno ci assicurava che Pancia era il suo vero nome.

Pancia continuava a raccontare: diceva che Pavel' aveva assoldato un branco di giovani ucraini perché facessero casino. Nell’ultimo mese quelli avevano ammazzato due persone, e nessuno era riuscito a risalire a loro perché tutto era stato organizzato in modo che sembrasse un’aggressione fatta da un altro quartiere, l’inizio di una guerra insomma. Gli stessi metodi usati anni prima dagli sbirri.

Io non credevo alle mie orecchie, mi sembrava di essere in una situazione surreale.

– E Ksjusa, allora, perché l’hanno violentata? – ho chiesto.

– Per divertimento. Perché erano fuori di testa. Senza altre ragioni, – ha risposto Pancia. – La cosa però ha svegliato la vostra comunità, così Pavel' ha cercato di tenerli nascosti, ma quelli sono andati lo stesso a combinare casino in giro.

Li avevano visti tutti, avevano lasciato tracce ovunque. Gagarin e gli altri si erano scontrati con loro, e dopo la sparatoria quelli avevano tentato di fuggire dalla città passando per Balka: Stepan aveva segnalato la loro presenza in quel quartiere, avevano preso dal suo chiosco sigarette e birre senza pagare, riempiendo di botte Nixon che però era riuscito a ferirne uno con la sua spranga di ferro (una bella sorpresa per degli aggressori di disabili). Ma un gruppo di armeni li attendeva all’entrata di Caucaso. Loro avevano provato a passare con il fuoristrada attraverso un orto, investendo un armeno, poi erano finiti in un fiumiciattolo che passava tra Caucaso e Balka.

Tutto questo era successo nel giro di due ore, e ora quei balordi erano in ostaggio degli armeni, che secondo Pancia ci aspettavano.

Pancia diceva che dovevamo andarci insieme, perché a lui serviva che quelli gli confermassero, in presenza di tre testimoni, di essere stati pagati da Pavel': solo così poteva poi portar lo davanti alle autorità anziane, che lo avrebbero giudicato.

– Tenetevi Pavel' finché non siete sicuri che quello che vi ho detto è vero, – ha concluso.

Uno di noi, quindi, doveva cedere il suo posto a Pavel' e andare in macchina con Pancia. Senza lasciare agli altri un momento per decidere, mi sono proposto io.

Siamo finiti su una macchina guidata da un ragazzo del Centro.

– Ma tu desideri proprio tanto ammazzare quella gente? – mi ha chiesto Pancia quando siamo partiti.

Ci ho pensato un po’ su prima di rispondere:

– Non sono un gran assassino, non provo nessun gusto a uccidere. Desidero solo che sia fatta giustizia.

Pancia non mi ha risposto niente, ha solo assentito con la testa e si è girato verso il finestrino. E rimasto così, immobile e in silenzio, finché non siamo arrivati a Caucaso. Mi sembrava colpito da quello che gli avevo detto, ma non riuscivo a capire se era d’accordo о meno.

Una volta arrivati a Caucaso, siamo andati verso la casa di un vecchio armeno di nome Frunzic. Lo conoscevo, era un buon amico di mio nonno, nel 1953 era stato uno degli organizzatori della rivolta armata dei prigionieri dei Gulag siberiani. Aveva avuto una vita ben triste, ma era riuscito a conservare un carattere allegro: anche un piccolo discorso con lui ti lasciava dentro una carica d’energia.

Frunzic ci aspettava in macchina davanti al portone di casa sua con altri tre armeni: ragazzi giovani, uno era persino minorenne. Appena ci ha visti arrivare ha acceso il motore ed è partito davanti a noi, per farci strada.

Ci ha condotto a un vecchio magazzino militare al confine del quartiere, dove cominciavano i campi e un po’ di bosco. Era stato costruito dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e aveva una serie di sotterranei che venivano spesso usati da vari criminali per affari sporchi, quando era necessario fare scorrere un po’ di sangue.

Dentro c’erano una ventina di armeni, tra ragazzi e adulti, tutti armati di fucili e di Kalasnikov. Stavano attorno a un fuoristrada nero decisamente malridotto, con il parabrezza sfondato e senza la portiera destra. A bordo del fuoristrada erano seduti cinque uomini con facce da funerale, e non so per quale motivo completamente nudi.

I loro vestiti erano ammucchiati davanti alla macchina, vicino a due corpi, uno con una ferita sul collo che continuava a sanguinare, l’altro con un buco in testa da dove ormai non usciva più sangue.

Sono uscito dalla macchina subito dopo Pancia e mi sono affiancato ai ragazzi che guardavano con interesse le facce di quei cinque animali ancora vivi.

– Sono tutti nostri, ma prima tocca a Pancia, – ha detto Gagarin.

Non ho fatto in tempo a chiedermi come Pancia li avrebbe fatti parlare che ho visto Pavel' cadere a terra, colpito da un calcio fortissimo.

Lì a terra Pavel' mi è sembrato un essere pietoso. Mi ha ricordato un ragazzino grasso che una volta abitava nel nostro quartiere: si muoveva goffamente non tanto per il suo peso, ma per il suo carattere debole; era convinto di essere quasi un disabile e appena aveva l’occasione cadeva a terra, a volte apposta, per attirare l’attenzione degli altri e piangere e lamentarsi del suo stato fisico. Qualche anno dopo, quel maledetto ciccione avrebbe scoperto che la natura lo aveva dotato di un pezzo d’artiglieria lungo e potente come il fucile di precisione Dragunov, e avrebbe lasciato da parte per sempre le sue debolezze infantili. Soprattutto con le ragazze, che avrebbe cambiato con la stessa frequenza con cui un gentiluomo che segue rigide regole d’igiene personale cambia i calzini.

Mi veniva sempre da ridere quando pensavo a quel tipo, ma in quel momento quell’associazione mi ha provocato uno strano senso di rabbia. Ero arrabbiato, sì. Improvvisamente mi ero accorto che anche se eravamo a un passo dal portare a termine la nostra missione, non sentivo niente di particolare, nessuna emozione speciale, niente di niente. Sentivo so lo rabbia e stanchezza, due sensazioni quasi primitive, molto animali, ma nulla, assolutamente nulla, di umanamente elevato.

Eccolo lì, Pavel', mentre veniva picchiato dagli altri, sdraiato a terra in una posizione che mio zio avrebbe descritto così: «confondeva la propria testa con il culo». Lo guardavo e pensavo che nella vita non c’è niente di certo e sicuro, perché quella specie di rifiuto umano – che in quel momento faceva la figura di un pezzo di carne destinato a diventare una bistecca pestata – appena poco prima era pieno di sé, e aveva ancora una vera fonte di potere tra le mani.

Quando hanno smesso di picchiarlo l’hanno caricato nel bagagliaio di una macchina, come vuole la regola: visto che adesso era contagiato non poteva più condividere lo stesso spazio con i criminali onesti.

Non penso che quei cinque deficienti seduti nudi nel fuoristrada abbiano capito cosa stava per succedergli, non so che cosa gli passasse per la testa ma li guardavo e mi sembravano incoscienti, come sotto l’effetto di una droga.

Mi dispiaceva, avevo pensato tanto a quel momento, avevo immaginato la paura nei loro occhi, le parole con cui ci avrebbero supplicato di risparmiargli la vita, «Non vogliamo morire, abbiate pietà…», quelle che avrei detto di rimando, costruendo discorsi complicati destinati a fargli capire la grandezza dell’orrore che avevano compiuto e a fargli passare i loro ultimi istanti nel terrore completo, provando qualcosa di terribile che poteva assomigliare a quello che aveva provato Ksjusa. Ma vedevo solo facce indifferenti, che ci guardavano come a metterci fretta di fare quello per cui eravamo venuti. Forse era solo una mia impressione, perché i miei amici sembravano contenti, e avvicinandosi al fuoristrada con sorrisi soddisfatti tiravano fuori le pistole a scopo dimostrativo, caricandole cosi piano che si sentivano le pallottole sganciarsi dai caricatori ed entrare nelle canne, battendo contro i fermi.

Ho guardato Mei: camminava dietro Gagarin, aveva due pistole tra le mani e la sua orribile faccia era attraversata da una smorfia molto cattiva.

Ho impugnato la Nagant di nonno Kuzja e con il pollice ho tirato indietro il caricatore. Il tamburo ha fatto un giro e si è fermato con un rumore secco. Ho sentito sotto l’indice alzarsi il grilletto: era pronto, in tensione.

Nell’altra mano avevo la Steckin, e seguendo la tecnica di ricarica con la mano sinistra che mi aveva insegnato nonno Prugna l’ho afferrata, con l’indice ho tolto la sicura, ho spinto il mirino posteriore contro il bordo della mia cintura e ho sentito il meccanismo muoversi, mandando avanti la parte fissa e caricando la pallottola in canna.

Quando mi sono concentrato sul fuoristrada, per decidere a quale stronzo sparare per primo, Gagarin, senza nessun ultimo discorso о avvertimento, ha aperto il fuoco da tutte e due le pistole. Subito, quasi contemporaneamente, hanno sparato gli altri e mi sono accorto che stavo sparando anch’io.

Tomba sparava con gli occhi chiusi e molto in fretta. Ha finito prima di tutti le cariche delle sue Makarov ed è rimasto fermo cosi, con le due pistole in mano ancora alzate in direzione della macchina, a guardare come quei cinque si stavano pigliando tutta la nostra rabbia che gli arrivava addosso in forma di piombo.

Gagarin invece sparava rilassato, tranquillo, lasciando che fossero le pallottole a indovinare la loro strada, senza mirare bene.

Mei sparava come sempre in maniera disastrosa, cercando di riprodurre con la pistola la raffica di un mitra e mandando il piombo in tutte le direzioni possibili; per questo nessuno osava mai mettersi davanti a lui in una sparatoria, lo faceva solamente Gagarin, ma solo perché aveva una naturale fiducia in Mei che era paragonabile a un sesto senso.

Gatto sparava con tale dedizione e concentrazione che non si accorgeva neanche di tenere la lingua fuori; si dava da fare, s’impegnava al cento per cento.

Gigit sparava bene, con precisione totale, senza fretta; prendeva bene la mira e poi faceva partire due-tre colpi, poi di nuovo tornava a prendere con calma la mira.

Besa sparava come i pistoleri del selvaggio West, tenendo le pistole al livello dei fianchi e facendo partire i colpi con la regolarità di un orologio, di solito non centrava mai niente, però faceva la sua figura.

Io sparavo senza pensarci tanto sopra, cosi com’ero abituato, con la tecnica macedone, chiamata così perché gli antichi macedoni sapevano usare bene due spade contemporaneamente. Non prendevo la mira, sparavo dentro la macchina, nei posti dove c’erano le persone, e le vedevo morire, muoversi nelle loro ultime convulsioni, perdere la vita.

All’improvviso uno di loro ha aperto una portiera e si è messo a correre disperatamente verso il capannone, imboccando poi un tunnel di lamiera, un piccolo passaggio dove filtrava la luce del giorno, una specie di strada illuminata nel buio. Correva con così tanta forza che siamo rimasti fermi, impietriti.

Mei gli ha sparato qualche colpo dietro ma non lo ha preso. Allora Gagarin si è avvicinato a un ragazzo armeno, un minorenne, che teneva tra le mani un Kalasnikov, e gli ha chiesto il fucile «per un secondo». Il ragazzo, evidentemente impressionato da quello che aveva visto, gli ha passato il suo Kalasnikov, e io ho notato che in quel momento la sua mano tremava.

Gagarin ha poggiato il fucile sulla spalla e ha scaricato una lunga raffica in direzione del fuggitivo. Quello aveva già fatto una trentina di metri, quando le pallottole lo hanno raggiunto. Allora Gagarin è partito verso di lui, camminando come se stesse passeggiando nel parco. Quando gli è arrivato vicino, ha sparato un’altra raffica sul corpo riverso a terra, che ha fatto un ultimo movimento e poi si è fermato.

Gagarin lo ha preso per un piede e l’ha trascinato fino alla macchina, mettendolo vicino agli altri due corpi che erano li già dall’inizio del massacro.

In macchina c’erano quattro cadaveri deformati dalle ferite. Il fuoristrada era pieno di buchi e da una gomma usciva piano piano l’aria, perché un frammento della carrozzeria, staccato da qualche pallottola, era penetrato dentro il pneumatico. Sangue ovunque: schizzi, pozze che si allargavano a terra nel raggio di cinque metri, gocce che cadevano dalla macchina sul selciato, mischiandosi con la benzina, e diventavano rivoletti che correvano verso di noi, sotto i nostri piedi.

C’era un silenzio assoluto, nessuno dei presenti diceva niente, erano tutti immobili a guardare quello che era rimasto di quegli uomini.

Abbiamo lasciato il fuoristrada e i corpi lì dove avevamo compiuto quell’atto di giustizia.

Dopo siamo andati a casa del vecchio Frunzic. Pancia doveva andarsene, e prima di partire ci ha salutati in maniera calorosa e con rispetto, dicendo che avevamo fatto una cosa che andava fatta.

Frunzic ha detto che dei cadaveri si sarebbero occupati gli armeni della famiglia dell’uomo rimasto ferito nel tentativo di fermare la macchina, per loro era una specie di soddisfazione personale, e ci ha assicurato che «sopra quei cani non ci sarà neanche una croce».

Non era per niente scherzoso e allegro come al solito, Frunzic. Era serio, ma in una maniera positiva, come se volesse mostrarci che era d’accordo con noi. Parlava poco, ci ha offerto qualche bottiglia di buonissimo cognac armeno.

Abbiamo bevuto in silenzio, io cominciavo a sentire una forte e devastante stanchezza.

Gagarin ha tirato fuori il sacchetto con i soldi e ha detto a Frunzic che la ricompensa spettava a lui. Frunzic si è alzato dal tavolo, è scomparso in un’altra stanza e poi è tornato stringendo in mano un pacco di soldi, cinquemila dollari. Li ha messi nel sacchetto insieme agli altri dicendo:

– Non posso dare di più perché sono un umile anziano. Ti prego, Gagarin, porta tutto a zia Anfisa e chiedile perdono per tutti noi, peccatori e cattiva gente.

Abbiamo finito la terza bottiglia in silenzio, e quando abbiamo lasciato Caucaso era già buio, io stavo quasi per addormentarmi in macchina. Nella mia testa giravano tante cose, un misto di ricordi e di sensazioni rauche, come se mi fossi lasciato dietro qualcosa di non finito, о di eseguito male. Era un momento triste per me, non provavo nessuna soddisfazione. Non riuscivo a smettere di pensare a quello che era accaduto a Ksjusa. Impossibile sentire la pace.

Qualche tempo dopo ne ho parlato con nonno Kuzja.

– Era giusto punirli per quello che hanno fatto, – gli ho detto, – però punendoli non abbiamo aiutato Ksjusa. Quel lo che mi tortura ancora è il suo dolore, contro il quale tutta la nostra giustizia è stata inutile.

Lui mi ha ascoltato attentamente, poi mi ha sorriso e mi ha detto che io dovevo ripercorrere la strada del fratello maggiore di mio nonno, e cioè andare a vivere da solo nei boschi, in mezzo alla natura, perché ero troppo umano per vivere in mezzo agli uomini.

Gli ho restituito la Nagant, ma lui non ha voluto riprendersela, me l’ha regalata.

Dopo quasi un mese abbiamo saputo che Pavel' era stato ammazzato insieme a tre dei suoi che avevano partecipa-to al complotto contro la comunità criminale. Li avevano legati agli alberi del parco, davanti al distretto di polizia di Tiraspol', e gli avevano piantato dei chiodi in testa.

Si diceva che dietro tutta la faccenda del complotto ci fossero i poliziotti, interessati a indebolire la comunità criminale della nostra città. Sarebbero riusciti a farlo poi cinque anni dopo, mettendo tanti giovani criminali contro i vecchi, e innescando una guerra sanguinosa che ha dato inizio alla fine della nostra comunità, che infatti oggi non esiste più nella forma in cui esisteva ai tempi di questa storia.

Nonno Kuzja è morto di vecchiaia tre anni dopo, e la sua morte – insieme ad altri avvenimenti – ha provocato un terremoto nella comunità siberiana. Molti criminali di vecchia fede, scontenti del regime militare e poliziesco instauratosi nel Paese, hanno lasciato la Transnistria e sono tornati in Siberia, oppure sono immigrati in luoghi lontani.

Mio padre è andato a vivere in Grecia, dove ha scontato cinque anni di prigione, e ancora oggi abita ad Atene.

Il vecchio Prugna è ancora vivo e sta sempre nel suo bar, ultimamente è diventato sordo e per questo motivo urla quando parla. Sua nipote, quella che faceva le torte di mele più buone di tutta la città e che era una mia buona amica, si è sposata con un bravo ragazzo che vende accessori per personal computer, e insieme sono andati a vivere a Volgograd.

Zio Fedja ha preso molto male l’avvento del regime governativo in Transnistria: fino all’ultimo ha resistito cercando con tutte le sue forze di convincere i criminali a combattere, ma poi si è arreso ed è andato a vivere in Siberia, in un piccolo villaggio sul fiume Lena, dove continua a svolgere la sua attività di Santo.

Barbos è diventato una persona molto importante nella comunità criminale: è sceso a patti con la polizia e adesso ha tra le mani un enorme potere nella nostra città, dove Seme nero è di fatto l’unica casta protetta dalla polizia e odiata da tutte le altre, ma nessuno può farci niente, perché ormai sono loro a comandare, sono loro che controllano tutte le galere e gli affari criminali.

All’interno della comunità georgiana c’è stata una sanguinosa guerra, che ha portato al potere i giovani. Soprattutto a causa delle loro idee nazionaliste i georgiani hanno litigato con gli armeni, con cui sono in guerra ancora adesso. Mino è stato ammazzato nel corso di quella guerra, gli hanno sparato mentre raggiungeva l’ospedale dove la moglie aveva appena partorito un figlio che lui non ha fatto in tempo a conoscere.

Nonno Frunzic, sempre per via della guerra tra georgiani e armeni, ha preferito lasciare Bender. Come hanno fatto tanti vecchi di tutte e due le comunità coinvolte, si è dichiarato fuori dagli affari ed è andato a vivere nella sua patria, dove ora si occupa di piccoli traffici di alcol.

Stepan continua a gestire il chiosco sulla strada, ma non vende più armi, i criminali di Seme nero glielo hanno impedito, cosi adesso sopravvive smerciando sigarette e qualche partita di vodka contraffatta. Sua figlia ha terminato gli studi e ha trovato lavoro in uno studio di architetti a Mosca. Nixon aiuta Stepan con la stessa fedeltà di sempre, ce l’ha ancora con i comunisti e i neri ma ha fatto finalmente amicizia con Mei: anche se per arrivare a questo Mei ha dovuto sacrificare il suo Game Boy, gioco che è riuscito a sostituire nel cuore di Nixon il vecchio e amatissimo Tetris.

Mei dice che però negli ultimi tempi a Nixon sono venuti tanti capelli bianchi, e che sta invecchiando troppo in fretta.

Gagarin ha vissuto solo tre anni dopo questa storia: è stato ammazzato a San Pietroburgo perché era entrato in un giro d’affari con gente che godeva della protezione della polizia e dell’ex Kgb. Della sua morte si è saputo solo più tardi, quando un’amante di Gagarin ha contattato i suoi genitori dicendo che era sepolto nel cimitero di Ligovo.

Gatto si è trasferito nel sud della Russia, dove per qualche tempo ha fatto parte della banda di un criminale siberiano che rapinava tir provenienti dai Paesi asiatici. Poi ha conosciuto una ragazza di Rostov sul Don, terra di cosacchi, ed è andato a vivere con lei in campagna sul fiume Don. Ufficialmente non si occupa più di affari criminali, ha tre bambini, due maschi e una femmina, va a caccia e fa lavori di falegnameria con il padre e i fratelli di sua moglie. Mei è andato a trovarlo parecchie volte, e in quelle occasioni Gatto ha cercato invano di convincerlo a sposare la sorella minore di sua moglie.


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