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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

Текст книги "Сибирское воспитание"


Автор книги: Николай Лилин



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Il motorino è caduto con un gran rumore, colpendo un ragazzo sulla testa, e altri su varie parti del corpo. Quelli colpiti hanno cominciato a gridare dal dolore tutti insieme, in coro. Per qualche motivo Mei si è arrabbiato ancora di più per quelle urla, e ha iniziato a pestarli con una violenza inspiegabile: alla fine è salito sul motorino e ha fatto sopra di lui (e sopra di loro) una serie di salti crudelissimi. Quei poveracci urlavano disperatamente e lo supplicavano di smetterla con quella tortura.

– Ehi, pezzi di merda! Siamo di Fiume Basso, avete pestato un nostro fratello, e per questo non avete ancora finito di pagare! – Gagarin ha comunicato il suo solenne messaggio a tutti quelli che si trovavano stesi per terra. – La soddisfazione personale ce la siamo appena presa, picchiandovi e tagliandovi. Ma dovete ancora soddisfare la legge criminale che avete disgraziatamente violato! Entro la prossima settimana cinque di voi, brutti finocchi schifosi, si presenteranno nel nostro quartiere con cinquemila dollari, da pagare alla nostra comunità per i disturbi che avete creato. Se non lo farete, ripeteremo sistematicamente questo macello ogni settimana, finché non vi ammazzeremo tutti quanti, uno per uno, come cani rognosi! Arrivederci e buona notte!

Ci sentivamo campioni imbattibili, eravamo così contenti di com’era andata che siamo partiti verso casa cantando a squarciagola le nostre canzoni siberiane.

Attraversavamo il parco respirando l’aria della notte, e ci sembrava che non ci sarebbe stato un momento più felice di questo nella nostra vita.

Appena usciti dal parco ci siamo trovati davanti una decina di macchine della polizia: i poliziotti stavano schierati dietro le macchine, con le armi puntate su di noi. Si è accesa una luce fortissima che ci ha accecato tutti e una voce ha urlato:

– Le armi fuori dalle tasche, se qualcuno fa il cretino lo riempiamo di buchi! Non fate i coglioni, non siete a casa vostra!

Abbiamo obbedito e ognuno ha buttato la sua arma a terra: in pochi secondi si è formato un bel mucchio di coltelli, tirapugni e pistole.

Ci hanno caricati in macchina, colpendoci con i calci dei fucili, e ci hanno portati tutti quanti al distretto di polizia. Pensavo alla mia picca, quel coltello cosi amato e cosi importante per me, che sicuramente non avrei più rivisto. Era questo il mio chiodo fisso. L’idea che potevo finire in carcere, vista la mia situazione, non mi sfiorava nemmeno.

In distretto siamo stati trattenuti due giorni. Ci picchiavano, ci tenevano in una stanza stretta senza cibo né acqua. Venivano in continuazione a prelevare qualcuno dalla stanza e poi lo riportavano indietro con la faccia spaccata.

Nessuno di noi ha detto il suo vero nome, anche gli indirizzi di casa erano falsi. L’unica cosa su cui non abbiamo mentito era la nostra appartenenza alla comunità siberiana. Per la nostra legge i minorenni possono comunicare con i poliziotti: noi abbiamo sfruttato questa possibilità per imbrogliarli, e rendere più difficile il loro lavoro.

Mei non si voleva calmare e ha cercato di aggredire i poliziotti, che lo hanno picchiato molto forte, colpendolo con il calcio della pistola in testa, aprendogli una brutta ferita.

Alla fine ci hanno liberati tutti, dicendo che alla prossima però ci avrebbero ammazzati. Noi, affamati, stanchi, esauriti dalle botte e dalla tensione, siamo tornati verso casa.

Solo a quel punto, mentre mi trascinavo come un moribondo tra le vie del mio quartiere, mi sono reso conto di colpo che avevo avuto una grande fortuna. Se la polizia mi avesse identificato avrei dovuto trascorrere come minimo cinque anni sulle brande di legno di qualche carcere minorile.

Mi sentivo ubriaco di gioia. Era un miracolo, mi dicevo, un vero miracolo, essere liberi dopo una storia come quella. Eppure continuavo a pensare alla mia picca: come se dentro di me si fosse formato un buco nero, come se fosse morto qualcuno dei miei cari.

Mi avvicinavo a casa guardandomi le punte dei piedi, guardando a terra, sottoterra se fosse stato possibile, perché sentivo vergogna, mi sembrava che tutto il mondo mi stesse giudicando perché non ero stato capace di conservare la mia picca.

Quando sono arrivato, ero come un fantasma, trasparente e spento. Mio zio Vitali] è uscito sulla veranda e ha detto, sorridendo:

– Ma dài! Hanno riaperto Auschwitz? E come mai non ne ho saputo niente?

– Lasciami stare, zio, ho tutto il corpo che mi fa piangere… Voglio solo dormire…

– Eh eh, mio caro giovane, purtroppo non si danno le botte senza prenderle… E la regola della vita…

Per due giorni non ho fatto altro che dormire e, nelle pause tra un sonno e l’altro, mangiare. Ero tutto rotto, e ogni volta che nel letto mi giravo su un lato stringevo i denti. Di tanto in tanto mio padre о mio zio si affacciavano alla porta di camera mia e mi prendevano in giro:

– Adesso si che si sta bene, dopo una ripassata seria… Ma non ti è ancora passata la voglia?

Io non rispondevo niente, facevo soltanto sospiri profondi, e loro ridevano a ogni mio sospiro.

Al terzo giorno il desiderio di tornare alla vita regolare mi ha fatto alzare presto. Erano quasi le sei di mattina, dormivano ancora tutti tranne nonno Boris che si preparava a fare ginnastica. Sentivo fastidio, una sensazione lontana dal dolore che però blocca il corpo, e ogni movimento che fai ti viene con fatica, sei lento, come un anziano che ha paura di perdere l’equilibrio.

Mi sono lavato e ho guardato bene la mia faccia nello specchio del bagno. Il livido non era così grande come credevo, non si vedeva quasi. Invece sulla mano destra avevo due lividi neri, uno aveva chiaramente la forma del tacco di uno stivale. Mentre mi pestavano, uno sbirro doveva avermi schiacciato la mano: lo facevano spesso a scopo preventivo, per causarti delle fratture scomposte che di solito guarivano male, così poi tu non riuscivi più a stringere bene il pugno о a tenere un’arma. Per fortuna erano solamente lividi, non avevo fratture о strappi di legamenti. Avevo un altro grande livido in mezzo alle gambe, proprio sotto il mio orgoglio maschile: sembrava che qualcosa di nero mi si fosse appiccicato al corpo, faceva impressione e soprattutto male, quando svuotavo la vescica.

«Beh, poteva anche andare peggio…» ho concluso, e sono andato a fare colazione. 11 latte caldo con il miele e un uovo fresco mi hanno rimesso al mondo.

Ho deciso di andare a controllare la mia barca al fiume e pacioccare un po’ con le reti, e magari, attraversando il quartiere, chiedere in giro com’erano messi i miei amici.

Uscendo di casa ho trovato mio nonno che faceva ginnastica in cortile. Nonno Boris era una roccia, non fumava e non aveva altri vizi, era un salutista totale. Faceva la lotta, judo e sambo, e ha trasmesso queste passioni a tutto il resto della famiglia. Quando si esercitava di solito non si fermava neanche un secondo: cosi ci siamo salutati solo con lo sguardo. Io gli ho fatto un gesto, facendogli capire che stavo uscendo, e lui mi ha sorriso e basta.

Ho imboccato la via che portava al fiume. Passando ho visto all’angolo, vicino al portone di casa di Mei, la sua figura massiccia. Era nudo, in mutande, stava parlando con un ragazzo della nostra zona, un nostro amico soprannominato «il Polacco». Gli stava facendo vedere tutti i suoi lividi, e gli raccontava quant’era accaduto facendo un casino di gesti e picchiando nell’aria vuota nemici immaginari.

Mi sono avvicinato. Aveva una cucitura sulla testa, una decina di punti. La sua faccia orrenda era segnata da un sorriso e l’ottanta per cento del suo corpo era di colore blu, a volte verde e in alcuni punti profondamente nero. Ma nonostante lo stato fisico era di ottimo umore. La prima cosa che mi ha detto è stata:

– Ma Cristo Santo, povera madre tua! Guarda come ti sei ridotto!

Mi è venuto da ridere. Anche al Polacco: si piegava in due dalle risate, gli uscivano le lacrime dagli occhi.

– Dài, pagliaccio, ma ti sei visto allo specchio? E dici che sono io a essere ridotto male! Vai a vestirti, va’, che andiamo al fiume… – Gli ho dato una leggera spallata e lui ha emesso un grido.

– Ma non puoi essere un po’ più delicato con me? Ne ho prese per tutti voi l’altra sera! – ha detto con vanità.

E corso a vestirsi e siamo andati verso il fiume. Mentre camminavamo mi ha aggiornato sugli altri: stavano tutti bene, un po’ acciaccati ma bene. Gagarin già il giorno dopo la rissa era andato a Caucaso, un quartiere della nostra città, a fare i conti con qualcuno di quelle parti. Lyèza e Besa – che erano miracolosamente riusciti a nascondersi nel parco e non erano stati presi dalla polizia – stavano meglio di tutti, non avevano neanche un graffio.

Arrivati alla mia barca, ho messo il motore in acqua e ho proposto a Mei di fare un giro sul fiume. Tirava un’aria fresca, una bella aria mattutina, il sole si stava alzando sopra la terra e tutto era luminoso e pacifico.

Mei è saltato in barca e si è sdraiato a prua, con la pancia in su, a guardare il cielo senza nuvole: era un sì.

Ho preso un remo e con quello ho allontanato la barca dalla riva, poi ho remato piano stando in piedi: avevo il vento in faccia, era bello e rilassante. A dieci metri dalla riva ho sentito la corrente del fiume diventare sempre più forte, così ho acceso il motore e aumentando piano la velocità sono partito controcorrente verso il ponte vecchio. Ho messo la giacca che tenevo sempre in barca. Mei era ancora sdraiato a prua, non si muoveva, aveva gli occhi chiusi, dondolava so lo leggermente il piede.

Arrivati al ponte ho fatto una curva larga e sono tornato indietro con il motore spento, lasciando che la corrente portasse la barca, remando solo ogni tanto per correggere la direzione. Mentre la barca scendeva lentamente giù per il fiume, di tanto in tanto ci buttavamo in acqua e nuotavamo lì intorno. In acqua mi sentivo protetto, mi lasciavo portare dalla corrente, aggrappandomi alla barca о standole un po’ lontano. Era la migliore medicina del mondo, l’acqua del fiume, avrei potuto starci anche un giorno intero.

Quando abbiamo toccato riva, Mei è saltato giù dalla barca e ha detto che voleva andare a trovare una sua vecchia zia che abitava poco lontano e si lamentava sempre che nessuno andava a trovarla. Io ho deciso di andare da nonno Kuzja, per raccontargli tutto quello che ci era capitato. Insomma, tutti e due avevamo pensato ai nostri vecchi.

Nella comunità degli Urea siberiani viene data la massima importanza al rapporto tra bambini e vecchi. Per questo esistono molte usanze e tradizioni che consentono ai criminali anziani con grande esperienza di partecipare all’educazione dei bambini, anche se non hanno con loro un rapporto di sangue. Ogni criminale adulto chiede a un anziano, di solito uno che non ha famiglia e abita da solo, di aiutarlo nell’educazione dei figli. Manda spesso i bambini da lui, a portargli del cibo о a dargli una mano in casa; in cambio il vecchio racconta le storie della sua vita e insegna ai bambini la tradizione criminale, i principi e le regole del comportamento, i codici dei tatuaggi e tutto quello che in qualche modo è legato all’attività criminale. Questo tipo di rapporto in lingua siberiana viene chiamato «intagliare», per la somiglianza che c’è tra l’educazione di un giovane e la lavorazione di un ceppo di legno, che da grezzo va intagliato per diventare un’opera d’arte о qualcosa di utile.

La parola «nonno» nella società criminale siberiana ha molti significati: i nonni sono naturalmente i parenti, i genitori dei genitori, ma anche le massime autorità del mondo criminale: in questo caso alla parola nonno si aggiunge «Santo»

0 «Benedetto», cosi si capisce subito che si sta parlando di un criminale autorevole. Anche un educatore anziano è chiamato nonno, ma mai nonno e basta: va sempre aggiunto il suo nome о il suo soprannome.

Il mio personalissimo e amatissimo educatore era, come si è capito, nonno Kuzja. Da quando mi ricordo, mio padre mi ha sempre portato da lui. Nonno Kuzja era molto rispettato all’interno della comunità criminale, e si era guadagnato questo rispetto anche grazie al suo destino, pieno di dolori e sacrifici patiti nell’interesse della comunità.

Nonno Kuzja non aveva età. Sua madre era morta quando lui era molto piccolo e suo padre era stato fucilato poco dopo, e le persone che lo avevano adottato non sapevano di preciso quanti anni avesse.

Da giovane nonno Kuzja aveva fatto parte di una banda di Urea guidata da un famoso criminale che si chiamava «Croce», un uomo di vecchia fede siberiana che si era opposto prima al potere dello zar e dopo a quello dei comunisti. In Siberia – mi spiegava nonno Kuzja – nessun criminale ha mai sostenuto una forza politica, vivevano tutti seguendo solamente le loro leggi e combattendo qualsiasi potere governativo. La Siberia ha da sempre fatto gola ai russi perché è una terra molto ricca di risorse naturali: oltre agli animali da pelliccia, che in Russia erano considerati un tesoro nazionale, la Siberia aveva tanto oro, diamanti, carbone; più tardi hanno scoperto pure petrolio e gas. Tutti i governi hanno tentato di sfruttare il più possibile la regione, naturalmente senza fare

1 conti con la popolazione. I russi arrivavano, diceva nonno Kuzja, costruivano le loro città in mezzo al bosco, scavavano la terra, e si portavano via i tesori con i treni e le navi.

I criminali siberiani, che erano rapinatori esperti i cui avi avevano assaltato per centinaia di anni le carovane mercantili provenienti dalla Cina e dall’india, non avevano avuto nessuna difficoltà ad assaltare anche quelle russe.

In quegli anni tra gli Urea siberiani esisteva una filosofia, un modo per intendere la realtà, che si chiamava «Grande patto». Era una specie di piano generale che permetteva a tutti i criminali di esercitare una resistenza attiva contro il governo rapinando in continuazione i treni e i vari mezzi di trasporto. Secondo la vecchia legge criminale, una banda non poteva compiere più di una rapina ogni sei mesi: cosi si teneva alta la qualità dell’attività criminale, perché è chiaro che se un gruppo ha solo una possibilità per rapinare una carovana, deve prepararsi bene e andare sul sicuro, evitando mosse sbagliate. La gente ci teneva a organizzare bene il colpo, altrimenti doveva stare mezzo anno senza mangiare. Il Grande patto ha eliminato questa regola, consentendo alle bande di compiere rapine in continuazione, perché lo scopo non era quello di arricchirsi, ma di cacciare fuori dalla Siberia gli invasori russi. Vecchi criminali si sono uniti ai nuovi, formando bande molto grandi. Le più famose erano quelle di Angelo, di Tigre e di Taiga.

Croce aveva una banda più piccola, una cinquantina di uomini. Rapinavano i treni e le navette che dalle cave di diamanti sul fiume Lena andavano verso il sud della Siberia, nella regione chiamata Altaj. Un giorno hanno fatto l’errore di uscire dal bosco, e si sono imbattuti nelle forze dell’esercito comunista. Hanno cercato di resistere, ma alla fine i comunisti erano di più: li hanno circondati, e sono morti in battaglia quasi tutti.

Gli Urea non si arrendevano mai, era indegno per loro essere catturati, quindi se vedevano che la situazione andava precipitando si salutavano, si auguravano buona fortuna e si buttavano nella lotta, finché il nemico non li uccideva. L’unica possibilità di sopravvivere era essere catturati per via delle ferite: se eri ferito e ti prendevano non era considerata una cosa indegna.

In quella battaglia sono stati catturati tre giovani Urea: uno di loro era Kuzja, aveva una contusione ed era svenuto.

I comunisti, per far vedere a tutti i siberiani come vengono trattati quelli che vanno contro il governo, in quattro e quat-tr’otto hanno organizzato per i prigionieri un bel processo esemplare e «popolare» nella città di Tagil, dove la popolazione si era arresa ai russi che avevano piazzato ovunque brigate militari e distretti di polizia.

In tanti sono andati ad assistere a quel processo, perché molti siberiani volevano bene agli Urea e appoggiavano la loro lotta contro i comunisti.

Il giudice e la sua «giuria», composta da «rappresentanti» del popolo, ovviamente tutti comunisti, hanno dato la pena di morte a tutti e tre. La condanna – diceva la sentenza – doveva essere eseguita il giorno successivo tramite fucilazione davanti ai muri della vecchia stazione ferroviaria.

Il giorno dopo quel luogo era pieno di gente. Tanti avevano portato le icone e messo le croci fuori dalla camicia, per sottolineare l’avversione al regime comunista. Le donne piangevano e chiedevano la grazia, gli uomini pregavano il Signore di accogliere quei suoi tre schiavi che stavano per essere uccisi ingiustamente. L’atmosfera era molto calda, tanto che dal distretto di polizia avevano mandato dei rinforzi destinati a entrare in azione nel caso la gente fosse diventata pericolosa.

Alla fine hanno portato i criminali, li hanno fatti scendere dalla macchina e li hanno costretti a mettersi in piedi, incatenati. Li hanno condotti davanti al giudice e al procuratore, che ha letto loro tutto quello di cui li incolpava il governo sovietico. Poi il giudice ha letto la condanna e ha autorizzato i poliziotti a eseguirla all’istante.

I tre sono stati messi di spalle, con la faccia rivolta al muro, ma nessuno di loro voleva stare cosi, e allora si sono girati verso il plotone di esecuzione. Dalla folla la gente ha cominciato a lanciare ai piedi dei criminali i crocefissi, chiedendo al Signore la grazia.

II comandante del plotone ha dato una serie di ordini ai suoi uomini, e quelli hanno preparato i fucili, mirato i loro bersagli e alla fine sparato. Due condannati sono caduti a terra morti, ma il terzo, quello che era in mezzo, continuava a stare in piedi e a guardare la gente. Aveva tutta la camicia sporca di sangue e otto ferite in corpo, ma non cadeva, stava fermo, respirava a fondo l’aria gelida del mattino. Era Kuzja, giovane Urea siberiano.

Secondo le regole dello Stato sovietico la condanna a morte poteva essere applicata ed eseguita solo una volta, se il condannato sopravviveva doveva essere liberato. Per questo anni più tardi i comunisti avrebbero sparato ai condannati da mezzo metro di distanza e direttamente in testa: per non creare inconvenienti.

La gente era impazzita di gioia, per loro Kuzja era diventato un simbolo, la prova vivente dell’esistenza di Dio, che aveva ascoltato le loro preghiere e mostrato i Suoi poteri. Da quel giorno non c’era siberiano che non conoscesse la storia di Kuzja e non lo chiamasse «il Segnato».

Anche per questa storia miracolosa nonno Kuzja era considerato un’autorità tra i criminali. Ad ascoltare i suoi consigli erano molti criminali onesti e buoni di caste diverse, e dato che lui era saggio e intelligente e non aveva interessi personali, perché la sua vita – come amava ripetere – apparteneva totalmente alla comunità, riusciva a ottenere da tutti collaborazione e amicizia.

Era stato in tante galere della Russia, aveva sancito molte alleanze con diverse società criminali, mediato risoluzioni di conflitti tra bande. Grazie al suo intervento molti criminali avevano siglato delle tregue tra di loro, per vivere in pace e guadagnarci tutti quanti, facendo così prosperare l’intera comunità.

Se da qualche parte della Russia due poteri criminali si scontravano su una certa questione, lui si metteva in viaggio, e usando la propria autorevolezza costringeva la gente a dialogare, a trovare le vie per una soluzione pacifica. Quando gli facevo domande su questo suo ruolo di «uomo di pace», mi rispondeva che la guerra la fa chi non segue i principi veri, chi non ha dignità. Perché non esiste niente a questo mondo che non possa essere condiviso in modo da accontentare tutti.

«Chi vuole troppo è un pazzo, perché un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore riesce ad amare. Tutti vogliono fare affari, vedere le loro famiglie felici e far crescere i propri figli nel bene e nella pace: questo è giusto, solo cosi si può condividere il mondo che Nostro Signore ha creato per noi».

Nonno Kuzja ha passato tutta la vita a preoccuparsi della pace nella comunità criminale, per questo tutti gli volevano bene e non aveva nemici. Mio padre mi raccontava che una volta, quando nonno Kuzja stava in un carcere di massima sicurezza, un gruppo di giovani criminali di San Pietroburgo – gente di «taglio nuovo», che non rispettava le vecchie leggi – aveva rotto una tregua stabilita tempo prima da varie comunità grazie al suo aiuto. Avevano ammazzato tante persone, arrivando a controllare una buona fetta degli affari, dopo di che avevano cercato di dimostrare agli altri, alla gente che seguiva le vecchie regole criminali, che quelle regole non erano più valide e non avevano dietro nessun potere reale. Per farlo avevano bisogno di colpire qualche grande autorità, e hanno scelto la figura di nonno Kuzja perché rappresentava il massimo potere all’interno della comunità siberiana. Hanno escogitato un piano semplice e molto offensivo, mandandogli in prigione – dove lui, ormai vecchio, stava per finire di scontare la sua pena – una lettera d’invito a una riunione che si sarebbe tenuta a San Pietroburgo, avvertendolo che se non si presentava non lo avrebbero più considerato un criminale attivo.

Un ricatto simile è molto grave per un criminale, molto più grave dell’omicidio di un parente о di un’offesa personale, perché è in gioco il prestigio che viene attribuito a un individuo dall’intera comunità, quindi l’offesa si allarga anche su tutta la comunità e i suoi rappresentanti.

Ebbene, nonno Kuzja ha costretto l’amministrazione della prigione a liberare per una settimana lui e altri cinque criminali siberiani autorevoli detenuti in diverse prigioni della Russia, minacciando un suicidio di massa che nessuno di loro avrebbe esitato a compiere.

Nel bel mezzo della riunione, mentre i giovani criminali di San Pietroburgo già pianificavano nei minimi dettagli come costringere tutti i sostenitori delle vecchie autorità a cedergli il controllo della zona, dando per scontato che nessuno si sarebbe presentato, sono arrivati nonno Kuzja e gli altri cinque detenuti.

Dopo quell’incontro i giovani sono spariti, letteralmente dissolti nel nulla: in tanti hanno pensato al vecchio rituale siberiano che prevede che i corpi dei nemici vengano macinati fino alla disintegrazione completa e mischiati con la terra del bosco.

Secondo la legge criminale siberiana, ogni criminale attivo può rinunciare ai suoi incarichi e ritirarsi, diventare una specie di «pensionato». A quel punto lui non ha più possibilità di usare il suo nome о dire la sua parola su questioni legate agli affari criminali о alla risoluzione dei conflitti. La comunità criminale lo sostiene dandogli da vivere, in cambio lui si assume l’incarico di educare i giovani. Diventa, come si è detto, «nonno»: un nome che si dà in segno di grande rispetto. Le persone che vengono chiamate cosi sono considerate dal resto della comunità uomini saggi capaci di dare consigli fondamentali ai criminali più giovani, tanto che di solito le riunioni criminali vengono organizzate a casa loro.

Nonno Kuzja si era ritirato dagli affari – о come dicono da noi aveva «fatto il nodo» – all’inizio degli anni Ottanta, quando sono nato io. Il suo pensionamento aveva creato parecchie tensioni nella comunità criminale: molti temevano che senza di lui sarebbero state rotte tante vecchie tregue e sarebbe scoppiata una guerra.

Nonno Kuzja diceva che con о senza di lui le cose sarebbero cambiate lo stesso, perché erano i tempi e gli individui a essere diversi. Quando ne parlava con me, me la spiegava cosi:

«I giovani vogliono i soldi facili, vogliono prendere senza dare niente in cambio, vogliono volare senza aver prima imparato a camminare. Arriveranno a uccidersi tra di loro. Poi scenderanno a patti con gli sbirri, e quando succederà, spero per te, mio caro, che sarai lontano da qui, perché questo posto diventerà un cimitero dei buoni e degli onesti».

Ovviamente, tutto quello che mi diceva nonno Kuzja io lo consideravo la massima espressione dell’intelligenza umana e delPesperienza criminale.

Parlavamo insieme del futuro, di come sarebbe stata la nostra vita, di come sarebbero state gestite le cose. Lui era molto pessimista, ma non ha mai temuto che io potessi deluder lo, mi considerava diverso dai giovani della nostra comunità.

Dopo il 1992, quando le forze militari della Moldavia hanno cercato di occupare il territorio della Transnistria, la nostra città è stata abbandonata da tutti, siamo rimasti soli con noi stessi, come in realtà eravamo da sempre. Tutti i criminali armati hanno opposto resistenza ai militari moldavi, e dopo tre mesi di battaglie li hanno cacciati via.

Quando il pericolo dello scontro diretto era ormai passato, la Madre Russia ci ha mandato i cosiddetti «aiuti»: la quattordicesima armata, guidata dal carismatico generale Lebed'. Quelli, una volta arrivati nella nostra città che era ormai libera da qualche giorno, hanno applicato la politica della gestione militare: coprifuoco, perquisizioni in casa, arresti ed eliminazione della gente scomoda. In quel periodo molto spesso il fiume portava a riva i corpi delle persone fucilate, le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro e sul corpo segni di torture. Io stesso ho ripescato personalmente quattro cadaveri di persone giustiziate, quindi posso confermare con tutta la mia giovane autorità che le fucilazioni da parte dei militari russi erano una realtà molto praticata in Transnistria.

I russi hanno cercato di sfruttare il momento per piazzare da noi, nella terra dei criminali, i loro rappresentanti governativi, che avrebbero dovuto gestire quello che prima era solamente in mano nostra. Molti criminali siberiani in quel periodo hanno corso un serio pericolo di morte, mio padre ad esempio ha subito tre attentati, si è salvato miracolosamente e per non aspettare il quarto ha lasciato la Transnistria e si è trasferito in Grecia, dove aveva amici per via di vecchi traffici.

I criminali della città hanno cercato di unire le loro forze per combattere i militari russi, però molti membri delle comunità avevano paura ed erano di fatto disposti a collaborare con il nuovo regime. I siberiani hanno rinunciato a qualsiasi contatto con il resto della società, e verso il 1998 erano completamente isolati, non collaboravano con nessuno e non sostenevano nessuno. Altre comunità sono scese a patti con il regime, che aveva proposto un suo uomo come presidente del Paese e garante politico di tutti gli affari. Ben presto, nuove forze governative hanno eliminato le persone coinvolte in quei patti, prendendo in mano la gestione degli affari.

Nonno Kuzja condivideva con me tutto quello che sapeva:

«La nostra legge dice che non si può parlare con gli sbirri: lo sai perché? Mica per divertimento. Perché gli sbirri sono i cani del governo, sono gli strumenti che il governo usa contro di noi. Figlio mio, mi hanno fucilato che avevo ventitré anni, e dopo ho vissuto tutta la vita nell’umiltà, senza possedere niente, niente famiglia, bambini, niente casa: tutta la vita in prigione, a soffrire e condividere le sofferenze con gli altri. E questo il motivo per cui ho potere, perché tanta gente mi conosce e sa che quando io incrocio le mani sul tavolo non parlo per mio interesse, ma per il bene di tutti quanti. Per questo, ragazzo mio, nel nostro mondo tutti si fidano di me. E adesso dimmi, per quale ragione noi dovremmo fidarci di quelli che hanno passato tutta la loro vita ad ammazzare i nostri fratelli, a chiuderci in prigione, a torturarci e trattarci come se non fossimo della razza umana? Come si fa, dimmi tu, a fidarsi di chi vive grazie alla nostra morte? Gli sbirri sono diversi da tutto il resto dell’umanità, perché hanno dentro la voglia di servire, di essere sotto padrone. Non capiscono niente della libertà e hanno paura degli uomini liberi. Il loro pane è il nostro dolore, figlio mio, come si fa a venire a patti con quella gente?»

Tutto quello che mi ha raccontato nonno Kuzja mi ha aiutato a fare i conti con la realtà, a non rimanere schiavo di un’idea sbagliata о di un sogno mai realizzato. Sapevo con certezza che stavo vivendo la morte della nostra società e quindi cercavo di sopravvivere, passando attraverso questo grande vortice di anime, storie umane, da cui mi allontanavo ogni giorno sempre di più.

Ogni volta che andavo da nonno Kuzja, mia madre mi dava una borsa con dentro qualcosa che aveva appena cucinato. Mia madre era un’ottima cuoca, nel nostro quartiere erano leggendari la sua zuppa rossa, il suo pesce siluro ripieno di riso, verdure e mele, il suo pàté di caviale e burro, la sua zuppa di pesce alla povera e, specialmente, i suoi dolci. Nonno Kuzja la chiamava «mammina»: è così che i criminali esprimono massimo rispetto e ammirazione alle donne. Ogni volta che gli portavo qualcosa fatto da'mia madre, lui diceva:

– Lilja, Lilja, mia dolce mammina! Baciarti le mani tutto il tempo, non ci resta nient’altro!

Davanti a casa di nonno Kuzja c’era una vecchia panca di legno. Lui spesso si metteva li e guardava il fiume. Io mi mettevo vicino a lui e stavamo seduti cosi tutto il giorno, a volte fino a sera. Mi raccontava le vicende della sua vita, о le storie degli Urea siberiani che mi piacevano tanto. Cantavamo canzoni. Lui era molto bravo a cantare, e conosceva a memoria tante canzoni criminali. Io avevo una buona memoria, mi bastava sentire una canzone un paio di volte e la ricordavo subito. A nonno Kuzja piaceva, questa cosa, e mi chiedeva sempre prima di cantare:

– Te la ricordi, questa?

– Si che la ricordo! E la mia preferita!

– Bravo, piede scalzo! Allora canta insieme a me! – e cantavamo insieme, spesso facendo tardi per cena.

Più di tutto mi piaceva quando nonno Kuzja mi raccontava della Siberia: le storie degli Urea, di come si erano opposti al regime dello zar e a quello dei comunisti. Era bello, perché in quelle storie si sentiva il filo che teneva insieme la mia famiglia, e legava le persone del passato a quelle del presente. Grazie a questo filo tutto appariva molto più credibile, reale.


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