Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
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Криминальные детективы
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Besa non smetteva mai di preparare questo colpo del secolo, e noi avevamo l’onore di essere inseriti in questo suo progetto come aiutanti. Ne parlava seriamente, e data la particolarità della sua personalità infiammabile nessuno di noi osava contraddirlo.
Intanto, noi continuavamo la nostra umile attività criminale senza fare colpi del secolo, per il momento ci accontentavamo di partecipare a qualche piccolo traffico e cercavamo di tenere Besa sempre nella fase creativa del suo progetto, per non farlo arrivare mai alla fase decisiva, guai a quella esecutiva. Però negli ultimi tempi lui era abbastanza nervoso, perché secondo me cominciava ad accorgersi che noi non avevamo tutta ’sta voglia di fregare la stella del Cremlino.
Fuori dalla Blinnaja, con le pance piene, abbiamo deciso di dividerci. Gagarin andava in macchina con Tomba, Gatto e Gigit a girare per i locali e a parlare con i criminali del quartiere, mentre io, Mei, Muto e Besa avremmo fatto visita a un vecchio amico di mio padre, zio Fedja, che aveva una mega discoteca dall’altra parte della città e sapeva tutto di tutti, e addirittura poteva raccontarti fatti non ancora accaduti, usando la sua sensibilità criminale e la sua conoscenza della natura umana.
Zio Fedja era quello che nella comunità criminale chiamano «Santo». E una definizione di estremo rispetto. Il Santo è una persona che vive secondo regole molto severe di autocontrollo e che cerca, in ogni ambito della sua esistenza, di essere un esempio perfetto d’ideologia criminale. Il Santo vive staccato da tutti, come una specie d’eremita, ed esattamente come le autorità anziane non ha niente di suo, non può possedere nulla: anche i vestiti che indossa non sono suoi, ma un dono degli altri criminali. Ma a differenza delle autorità non ha nessun potere reale sugli altri criminali, a cui si limita a mostrare la sua vita, vissuta nel pieno rispetto delle regole criminali.
Il Santo manda tutti i suoi guadagni in galera: solo lui può distribuire le offerte direttamente a singoli detenuti senza ricorrere aiì’obscak, cioè la cassa comune dei criminali. Cosi i detenuti sono ancora più sicuri di ricevere gli aiuti. Spesso infatti il gestore dell'obscak ha difficoltà ad accontentare tutti, soprattutto nelle grandi prigioni dove ci sono più di trentamila persone e la struttura è divisa in centinaia di blocchi: è vero che in quei casi il gestore divide la cassa tra i suoi vari aiutanti, nelle diverse celle, ma è anche vero che spesso gli aiutanti non sono d’accordo tra loro e nascono delle discussioni e per questo a volte molta gente rischia di rimanere senza un aiuto materiale. A quel punto è sempre il Santo che li sostiene, perché con il suo ruolo può passare oltre qualunque tipo di conflitto interno.
Il Santo non ha nessun diritto di giudicare gli altri criminali e deve rimanere neutrale in tutti i conflitti, ma può contribuire a risolverli comunicando con tutte le parti, senza farsi coinvolgere. Però, a differenza delle autorità anziane, può toccare i soldi e compiere dei crimini personalmente.
Non si può diventare Santo per propria volontà: è un ruo lo che, come tutti i ruoli nella comunità criminale, ti viene dato sulla base delle tue capacità e delle tue doti particolari.
Quelli dei Santi sono gli incarichi più rari in assoluto nella comunità criminale: di fatto sono loro a gestire il più grande giro di denaro. Sono loro a raccogliere i soldi da tutte le comunità e a mandarli nelle prigioni in contanti, о sotto forma di aiuti materiali. Per questo motivo i Santi sono molto protetti.
In tutta Bender c’erano stati solo tre Santi. Il primo, nonno Dimjan detto «Colbacco», è morto di vecchiaia alla fine degli anni Ottanta, ed era un siberiano del nostro quartiere. Il secondo, zio Kostja detto «Bosco», anche lui del nostro quartiere, è rimasto ucciso in una grande sparatoria tra criminali e poliziotti a San Pietroburgo all’inizio degli anni Novanta. Il terzo era appunto zio Fedja, l’ultimo Santo di Bender.
Era una persona solare e molto positiva, sembrava più un monaco che un criminale. Da giovane aveva ammazzato tre poliziotti ed era stato condannato a morte, ma poi la condanna era stata commutata in ergastolo. Dopo trent’anni di carcere a regime speciale lo avevano rilasciato, giudicandolo un «soggetto idoneo al reinserimento nella società». Aveva più di cinquant’anni, a quel punto. Presto è diventato un Santo. Gestiva vari traffici e aveva un gruppo di criminali a lui fedeli, quasi tutti siberiani; vivevano insieme nella stessa casa, senza famiglie: erano completamente al servizio del mondo criminale, aiutavano la gente in galera e quella appena liberata, sostenevano le famiglie dei criminali morti e di quelli anziani. Per guadagnare, gestivano una serie di locali.
Se succedeva qualcosa in città, potevi star certo che gli uomini di zio Fedja lo sapevano. Erano anche in contatto con i carcerati rinchiusi nelle galere più lontane, persino in Siberia, e avevano la possibilità di ottenere le informazioni necessarie in pochissimo tempo.
Data la loro posizione nella nostra società, ritenevo molto importante metterli al corrente di quello che era accaduto. Anche se non avrebbe portato a niente di decisivo per le nostre ricerche, era pur sempre un segno di rispetto da parte nostra, grazie al quale potevamo sperare in un aiuto secondario, a livello di logistica о di elaborazione delle informazioni.
Così, siamo arrivati a casa del Santo. Era una specie di condominio, con un cortile e un bel giardino pieno di tavolini e panchine. Secondo l’antica tradizione, il portone era sradicato e buttato a terra, proprio davanti all’ingresso, come segno che quella casa era aperta a tutti: infatti c’era sempre qualche ospite, la gente veniva da tutte le parti dell’ex Urss a trovare il Santo e i suoi amici.
Anch’io ero stato spesso ospite in quella casa, perché mio padre era un buon amico di zio Fedja, avevano fatto degli affari insieme e avevano la stessa passione per i colombi. Mio padre gli regalava dei colombi perché lui non poteva comprare niente per sé: il Santo li teneva li ma diceva che erano di mio padre, e se parlando mi scappava un complimento a uno dei «suoi» colombi, zio Fedja mi correggeva sempre, dicendo che quei colombi non erano suoi, e che li teneva lui solamente perché a casa nostra non c’era posto.
Zio Fedja era come al solito sul tetto, dove teneva, in una costruzione apposita, «i colombi di mio padre». Mi ha visto e mi ha fatto cenno di salire, io gli ho indicato la mia compagnia e lui ha ripetuto il gesto, invitandoci tutti su. Siamo entrati in casa e abbiamo fatto tre piani di scale, salutando tutte le persone che incontravamo, finché non siamo arrivati alla porta che dava sul tetto. Prima di aprirla ci siamo tolti le armi che avevamo addosso, lasciandole sulla mensola dove c’era il secchio con il cibo per i colombi. Secondo la regola è vietato presentarsi davanti a un Santo armati. Neanche con un coltello, ed è importante sottolinearlo: perché di solito il coltello è trattato come un oggetto di culto tipo la croce, che va portata sempre addosso; eppure anche il coltello dev’essere lasciato da parte quando s’incontra un Santo, per rimarcare la posizione di ogni criminale rispetto al suo potere, che è più grande di quello della forza e del denaro.
Mentre lasciavamo le pistole e i coltelli, Mei mi ha visto posare sulla mensola la Nagant di nonno Kuzja. Ha fatto una faccia tutta stupita, perché di solito Mei sapeva sempre se io avevo un’arma nuova, e scoprire che non gliel’avevo mostrata prima gli ha fatto venire un crampo. Era quasi offeso, quando mi ha chiesto dove l’avevo presa.
– Te lo racconto dopo, – gli ho detto, – è una storia lunga.
Mi sono accorto che il suo unico occhio mi guardava con sommo disprezzo.
Ho aperto la porticina e finalmente siamo saliti per la stretta scala che portava al tetto. Zio Fedja era H, in mezzo ai colombi che stavano becchettando dei chicchi di grano, e teneva in mano una coppia di colombi. Ho notato che erano di razza Baku, quindi volavano e soprattutto «picchiavano» bene, cosi chiamiamo il modo che hanno i maschi di alcune razze di mostrare la loro agilità per attirare l’attenzione delle femmine.
Abbiamo salutato zio Fedja, i miei amici si sono presentati. Come vuole la tradizione, prima dovevo parlare un po’ di cose che non c’entravano niente con la nostra visita: non è solo una regola formale, lo si fa anche per capire lo stato d’animo dell’altro e vedere se quello è il momento giusto per discutere la questione che ti sta a cuore. Così gli ho chiesto della sua salute, ho parlato un po’ di colombi, finché lui non mi ha domandato cosa mi aveva portato lì.
– Sono venuto per una «parolina», – gli ho risposto.
Nei discorsi, soprattutto con persone importanti del mondo criminale, si usa parlare con ironia dei problemi che devi risolvere con il loro aiuto. Allo stesso modo anche le autorità non affrontano mai discorsi sulla loro vita о su qualche questione personale come se fossero cose della massima importanza: trattano se stessi con leggerezza e umiltà. Ad esempio, se chiedi a un criminale come vanno i suoi affari, lui ti risponderà in maniera ironica che i suoi affari sono tutti sot-to indagine da parte della Procura, e che lui si occupa solo di inezie, sciocchezze, cose da nulla.
Per questo ero costretto a presentare il nostro problema con un po’ d’indifferenza, dicendo che ero venuto per una «parolina», una cosa di nessun peso, poco importante.
Lui mi ha sorriso, e mi ha detto che sapeva già tutto. Mi ha chiesto di raccontargli come stavano andando le nostre ricerche. In breve, senza entrare troppo nei particolari, gli ho spiegato la situazione; lui ascoltava tranquillo, con pazienza, ma ogni tanto gli scappava un respiro pesante.
Quando ho finito è stato immobile per un po’, a pensarci su, poi improvvisamente ha detto che era meglio se scendevamo sotto a prendere un cifir seduti attorno al tavolo, perché «difficilmente la verità si trova stando in piedi».
Siamo scesi con lui, al tavolo c’erano già due vecchi criminali che zio Fedja ci ha subito presentato: erano suoi ospiti, venivano da un piccolo villaggio siberiano sul fiume Amur.
Ha avuto inizio la cerimonia del tè.
Zio Fedja si è messo personalmente a preparare il cifir. Aveva tutti i denti scuri, quasi neri: segno inconfondibile dei consumatori appassionati di cifir. Dopo aver scaldato l’acqua sulla stufa a legna, ha tolto il cifirbak dal fuoco, l’ha messo sul tavolo e ci ha buttato dentro un intero pacchetto di tè di Irkutsk.
Aspettando che il cifir fosse pronto, zio Fedja ha raccontato la nostra storia ai suoi ospiti, che lo ascoltavano con tristezza. Uno dei due, un uomo grande e grosso con la faccia tatuata, ogni volta che sentiva nominare Ksjusa si faceva il segno della croce.
Zio Fedja ha versato il cifir nel bicchiere, ha bevuto tre grossi sorsi e l’ha passato a me. Era forte e bollente e «prendeva» bene: si dice cosi quando il cifir fa subito effetto, dando una leggera sensazione di aria in testa. Abbiamo fatto girare il cifir tre volte; Mei ha bevuto l’ultimo sorso, poi ha lavato il bicchiere, come chiede la tradizione.
Alla fine zio Fedja ha messo sul tavolo un piatto pieno di caramelle, perfette per stemperare il forte gusto di cifir che rimaneva in bocca. Le mie preferite erano quelle al gusto di kljucva, una bacca molto acida che cresce su piccoli cespugli nel nord della Russia, esclusivamente nelle zone paludose. Mangiando le caramelle, abbiamo ripreso a parlare.
Zio Fedja ha detto che chi gestiva i suoi locali sapeva già tutto, e che se fosse saltata fuori qualche notizia interessante alla «Gabbia» – che era la più grande e spettacolare discoteca della città, frequentata da tantissima gente – di sicuro lui ce l’avrebbe comunicato immediatamente.
Poi ha messo sul tavolo il suo personale contributo alla causa. Uno dei suoi ospiti l’ha subito imitato, portando un pacco di dollari, ben diecimila; senza dire niente, il gigante siberiano con la faccia tatuata che si chiamava «Zoppo» ne ha aggiunti altri cinquemila.
Zio Fedja ci ha dato anche un paio di dritte: ci ha consigliatoci ripassare dal quartiere Barn.
– E difficile fare un discorso onesto con quella gente, meglio la politica del terrore, – ha detto strizzandomi l’occhio.
– Insomma, se ti scappa qualche colpo, se qualcuno di loro per caso ci rimane secco, non sarà un male, tanto si ammazzerebbero lo stesso tra di loro, prima о poi. Se gli metti paura invece cominceranno a muoversi seriamente, e chissà, in mezzo all’immondizia che abita lì forse troveranno il vostro uomo.
Poi ci ha consigliato di fare più pressione sulla gente del Centro, perché in fondo una parte della colpa ce l’aveva anche chi abitava H, se la ragazza era stata violentata nel loro territorio. Secondo lui (e gente come lui sbagliava raramente), tutti i responsabili del Centro potevano tranquillamente «scrivere le lettere a casa», cioè prepararsi a un violento scontro con l’ignoto.
Zio Fedja non ha approvato la generosa decisione di Gagarin di dare mezza giornata ai ragazzi del Centro per raccogliere informazioni all’insaputa del Guardiano.
– Per amore di Gesù Cristo, – ha commentato, – ma che c’importa se il Guardiano se la prende con loro? Farebbe so lo bene, perché sono degli incompetenti. Questa gente del Centro pensa solo a saltare sulle donne e a giocare a carte, si vestono come delle scimmie, sembrano zingari da quanto oro hanno addosso, e poi, quando nella loro zona succede qualcosa, rimangono con la merda tra le gambe a puzzare davanti a tutta la città… No, voi adesso andate direttamente dal Guardiano e gli dite che se lui non vi porta entro stasera quei deficienti che hanno combinato casino nella sua zona, mentre lui e i suoi dormivano, voi informerete della cosa tutte le autorità… Vedrete che ve li porteranno su un piattino con il bordo azzurro, vedrete…
Mentre diceva tutte ’ste cose, io già m’immaginavo la scena. Neanche voleva riceverci, il Guardiano del Centro, figuriamoci se potevamo arrivare a rimproverarlo e minacciarlo. Però, come diceva sempre la buonanima di mio zio, «chi non rischia, non beve champagne».
Ringraziando zio Fedja per l’accoglienza, i preziosissimi consigli e i soldi per aumentare la taglia, siamo andati a ricongiungerci al resto del nostro gruppo per pianificare l’appuntamento con la gente del Centro.
Il ritrovo con gli altri era al bar del vecchio Prugna, un criminale che da tanto tempo non partecipava più a nessuna attività e gestiva solamente il suo bar, cioè stava sempre seduto a un tavolino, a bere о mangiare qualcosa, mentre due giovani ragazze, le sue nipoti, lavoravano.
Prugna in città era famoso per la vita difficile e piena di dolori che aveva avuto. Non veniva da una famiglia criminale: i suoi genitori erano persone istruite, intellettuali, il padre faceva lo scienziato nel campo delle ricerche chimiche, e la madre insegnava letteratura all’università di Mosca. Alla fine degli anni Trenta, quando il regime di Stalin aveva scatenato un’ondata di terrore, i suoi erano stati arrestati e proclamati nemici del popolo. Il padre lo avevano accusato di avere rapporti con spie americane e inglesi, la madre di propaganda antisovietica. Tutta la famiglia, compresi i due bambini – Prugna, che a quel tempo aveva dodici anni, e la sua sorellina Lesja, che aveva poco più di tre anni —, era stata deportata nel lager di Vorkutà. Li i compagni comunisti, patrioti e costruttori della pace in tutta la terra, praticavano sui prigionieri politici le torture più disumane. Il padre di Prugna, che era molto debole fisicamente, era morto già in treno, per le botte e per via di una forte polmonite. Una volta arrivati a Vorkutà, la madre e i due bambini non erano stati separati, ma solo perché il blocco dei bambini non era ancora stato costruito. Avevano vissuto in quel posto per tanto tempo, vedendo morire molta gente intorno a loro, di freddo, malattie, parassiti, maltrattamenti e denutrizione.
Prugna raccontava che un giorno lui, sua sorella e sua madre erano stati portati in un posto dove operava la cosiddetta «squadra speciale d’indagatori interni»: un branco di macellai che torturavano la gente già condannata, ma non per avere informazioni, per ragioni «rieducative». La madre era stata obbligata a spogliarsi e a svestire i suoi bambini davanti alle guardie, dopo di che quelli avevano cominciato a picchiarla, mettendo i bambini in un angolo e costringendoli a guardare come veniva torturata la loro madre. Poi quegli animali hanno preso Prugna e hanno improvvisato un gioco: gli hanno detto che se la madre non rompeva con le sue mani il mignolo della sorellina, loro avrebbero rotto tutte le dita a lui, una a una. In un lungo e terribile processo di tortura, gli hanno rotto ben sei dita davanti alla madre. Lui raccontava che era terrorizzato e che continuava a urlare che non ce la faceva più, e che a un certo punto la madre, in una crisi di pazzia e disperazione, aveva preso la piccola Lesja, che teneva tra le sue braccia, e le aveva sbattuto la testa contro il muro. Poi aveva tentato di uccidere anche lui, ma gli sbirri erano riusciti a fermarla e l’avevano picchiata brutalmente. Non sarebbe mai più uscita viva da quel blocco.
Prugna era stato buttato fuori, sulla neve, a crepare al freddo, con le dita rotte e mezzo morto. Lui diceva che sperava solamente di morire il più presto possibile, e per questa ragione aveva cominciato a mangiare la neve, per congelarsi più in fretta. Vicino a quel posto in quel momento lavorava un gruppo di prigionieri comuni, criminali, che tagliavano la legna per le costruzioni delle baracche che servivano ad allargare il lager. Quando hanno visto quel bambino nella neve l’hanno raccolto e preso sotto la loro custodia. Le guardie hanno chiuso un occhio perché i prigionieri comuni nei lager – almeno all’inizio, prima che il sistema penitenziario sovietico diventasse una specie di meccanismo perfetto, una catena industriale – venivano trattati diversamente da quelli politici, l’amministrazione li temeva perché erano uniti e mol-to organizzati, e volendo potevano provocare delle vere e proprie rivolte.
Così Prugna è andato a vivere con quelli nelle baracche. Uno di loro gli ha fatto guarire le dita rotte mettendogli delle stecche di legno morbido, e fasciandole accuratamente. I criminali da quel giorno si sono presi cura di lui, l’hanno educato. L’hanno chiamato «Prugna» per il colore della sua faccia, che era sempre blu perché lui aveva sempre freddo.
A quindici anni Prugna è diventato «esecutore» della banda che lo aveva trovato e accolto. All’interno del lager era cominciata una guerra tra criminali: quelli che sostenevano le vecchie autorità – tra cui gli amici di Prugna – e quelli che si autoproclamavano nuove autorità e proponevano delle nuove regole. Questi ultimi erano in maggioranza, arrivavano dalle classi sociali più basse e appartenevano alla generazione degli orfani di guerra; rappresentavano insomma una realtà criminale mai vista prima, lì come in tutta la Russia, dov’erano rispettate caratteristiche come l’ignoranza, la ferocia, l’assenza di leggi morali. Di notte, Prugna e i suoi entravano nelle baracche degli zijani – i criminali giovani e spregiudicati – e li ammazzavano, accoltellandoli nel sonno. Prima che quelli potessero realizzare che cosa stava succedendo, avevano già fatto fuori metà della baracca.
Prugna ha ucciso tante persone; la sparo grossa, ma credo che forse si è salvato proprio per questo. Forse in quel modo, nonostante il gravissimo trauma infantile, è riuscito a restare sano di mente dando sfogo alla sua rabbia.
E stato in tante galere e ha vissuto tanto tempo anche da uomo libero, facendo sempre l’esecutore criminale. Ha sposato una brava donna, ha avuto tre figli e due figlie. Sulla mano destra, dove gli avevano rotto le dita, portava tatuato un teschio con il cappello da poliziotto. Sulla fronte una scritta, «Az vozdam», che in antica lingua russa significa «Mi vendicherò».
Non so se si è vendicato, ma non ha fatto altro che uccidere poliziotti. Aveva una collezione sterminata di distintivi degli agenti di polizia e delle forze dell’ordine che aveva fatto fuori in tutta la sua carriera: li teneva su un grande comò, nell’angolo rosso di casa sua, sotto le icone, dove c’era anche la foto della sua famiglia con una candela sempre accesa davanti.
L’ho vista coi miei occhi, quella collezione. Era impressionante. Tantissimi distintivi di tutti le epoche, dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Ottanta, alcuni sporchi di sangue, altri bucati dalle pallottole. C’erano proprio tutti: poliziotti dei distretti delle varie città della Russia, gruppi speciali di lotta contro la criminalità organizzata, agenti del Kgb, polizia penitenziaria, agenti della Procura.
Prugna diceva che erano più di dodicimila, e che non sempre però era riuscito a recuperarli. Ricordava tutto di ognuno con precisione totale: come e quando lo aveva ucciso. Mentre io li guardavo, lui non smetteva di ripetermi:
«Fissale bene, figliolo, queste facce di assassini… Le lacrime umane non cadono mai per terra, il Signore le raccoglie prima».
Diceva che aveva ordinato alle sue figlie di mandare, dopo la sua morte, quei distintivi al ministero degli Interni a Mosca, accompagnati da una lettera che aveva scritto e riscritto per tutta la vita.
Me l’ha fatta vedere, quella lettera: più che una lettera era un intero quaderno, dove raccontava un po’ di tutto, la sua storia, le ragioni della sua rabbia, il suo modo di capire il mondo. Alla fine rivelava i posti dove aveva nascosto alcuni cadaveri di poliziotti, e scriveva che stava facendo un atto generoso, perché cosi i morti potevano avere la loro tomba, e anche se erano passati tanti anni i loro famigliari sapevano dove andare a piangerli, quando a lui invece non era stata data la possibilità di piangere sulla tomba di suo padre, di sua madre e di sua sorella.
In una sezione di quel quaderno c’erano le sue poesie, molto semplici, ingenue, in qualche modo grezze, se non consideravi la storia che avevano dietro. Ne ricordo una dedicata alla sorellina, a Lesja, forse la più lunga di tutte. La chiamava «innocente angelo del Nostro dolce Signore», diceva che lei sorrideva come «sorride il cielo dopo la pioggia», che i suoi capelli «brillavano come il sole» e avevano il colore di «un campo di grano che chiede di essere raccolto». Raccontava con parole semplici e affettuose, senza seguire regole di rima, quanto le voleva bene, e le chiedeva perdono per non essere riuscito a resistere, quando i poliziotti gli rompevano le dita, perché era «piccolo, solo un bambino che aveva paura del dolore, come tutti i bambini». E le diceva che quello della madre, quando le aveva sbattuto la testa contro il muro, era stato «il gesto generoso di una madre affettuosa che diventa disperata, lo so che tu la capisci e che adesso siete insieme in Paradiso con Nostro Signore».
Da quella poesia si capiva quanto semplice e in molte cose primitiva era l’anima di Prugna, e quanto a suo modo bella e generosa.
Adesso che era vecchio e che sua moglie era morta, Prugna soffriva di solitudine. Al bar cercava sempre la compagnia degli altri, raccontava la sua vita, mostrava il ritratto a grandezza naturale della sua famiglia che teneva li.
Mi piaceva chiacchierare con lui, era sempre pronto a condividere la sua saggezza e a insegnarmi qualcosa.
E stato grazie a lui che ho imparato a sparare bene con la pistola, certo prima mi avevano insegnato mio padre, mio zio e mio nonno, ma io ero troppo magro, e avevo la mano piccola e delicata, così quando sparavo non riuscivo a controllare bene l’arma, la stringevo troppo. Lui mi ha portato sul fiume, dove si poteva sparare tranquilli nell’acqua, sicuri di non far male a nessuno, e mi ha detto:
«Rilassa la mano, ragazzo».
Usavamo la Tokarev 7,62, una pistola abbastanza grossa e potente, ma ben equilibrata e con poco ritorno della forza di sparo nella mano. Più tardi mi ha anche insegnato a sparare con il metodo macedone, molto utile per usare due pistole contemporaneamente, anche in movimento.
Insomma, da lui andavo spesso e volentieri. Anche perché sua nipote era una mia cara amica, e faceva le torte di mele più buone di tutta la città.
Quando siamo arrivati al bar di Prugna, i nostri amici non c’erano ancora. Lui era come sempre al suo tavolo, stava bevendo un tè con la torta e leggeva un libro di poesie. Appena mi ha visto l’ha messo da parte e mi è venuto incontro per abbracciarmi:
– Figliolo, come stai? L’avete preso?
Sapeva già tutto, e ho pensato che era meglio cosi: almeno evitavo di raccontare di nuovo quella storia che mi faceva un casino di male quando si traduceva in parole.
Gli ho detto che stavamo ancora cercandolo, il responsabile, e lui subito mi ha proposto aiuto, soldi e qualche ferro.
Gli ho risposto che ne avevamo già raccolti fin troppi, di soldi, e forse anche di ferri. Ma, come dicono in Siberia, «per non offendere la vecchia tigre sorda, bisogna camminare facendo un po’ di rumore», e allora ho aggiunto:
– Però, se spargi la voce tra i tuoi clienti e tieni le orecchie aperte, può essere utile. E anche la torta di tua nipote con un po’ di tè sarebbe di gran conforto.
Poco dopo eravamo tutti intorno a un tavolo a mangiare la torta e a bere un tè con il limone che era proprio quello che ci voleva dopo il cifir di zio Fedja. E quella torta… appena la mordevi ti si scioglieva in bocca.
Abbiamo commentato tra noi i consigli che ci aveva dato zio Fedja. Eravamo tutti d’accordo con le sue parole, e abbiamo capito che se fossimo andati prima da lui avremmo risparmiato un sacco di tempo.
Nel frattempo sono arrivati gli altri: sembravano stanchi, anzi esausti, Tomba sembrava ancora più morto del solito, e guardandolo mi sono accorto che aveva un leggero livido sotto l’occhio sinistro. Erano chiaramente agitati.
– Che è successo? – ho chiesto.
Gagarin ha raccontato che girando per i locali si erano scontrati naso contro naso con i coglioni di cui ci aveva parlato Mino. Erano in sette, e avevano un fuoristrada nero con targa ucraina. – Gli abbiamo chiesto di parlare, – ha detto, – e per tutta risposta ci siamo beccati una serie di spari. Uno di loro ha anche colpito Tomba in faccia con un affare giapponese.
– Con che? – ha chiesto Besa.
– Ma si, con una specie d’attrezzo da combattimento. Sapete, quelli dei film di arti marziali, quelli che si girano velocissimi tra le mani… Vabbe’, insomma, quando sono ripartiti abbiamo cercato di fermarli, abbiamo sparato sulla macchina, ma è stato inutile…
– Uno però l’ho colpito in testa, potrei giurarci, – ha aggiunto Gigit.
– La Ruota è arrivato con la macchina, ma era troppo tardi, il fuoristrada era già sparito, – ha detto Gagarin. – Allora mi sono fermato in una cabina e ho chiamato casa, ho chiesto ai nostri vecchi di organizzare posti di blocco in tutti i quartieri, di fermare quella macchina prima che abbandoni la città.
Guardando la triste faccia di Tomba picchiato con un arnese da film d’azione nippoamericano, e ascoltando quel racconto di sparatorie e inseguimenti, per un momento ho pensato che stavamo impazzendo tutti. Poi subito dopo mi è venuta voglia di fare qualcosa, di muovermi, agire. Ma, come diceva sempre la buonanima di mio zio, «la gatta non partorisce quando vuole, ma quando arriva il suo tempo».
Ho raccontato a Gagarin quello che aveva detto zio Fedja.
– Parlando con quei due qualche sospetto l’avevo avuto, – ha detto lui. – Non so, nascondevano qualcosa. Volevano sbarazzarsi di noi, gli serviva prendere tempo per fare qualcosa… Ma cosa?
Abbiamo deciso di andare lo stesso nel luogo dell’appuntamento, sotto il ponte vecchio.
– Però, Gagarin, – ho detto io, – per prudenza forse sarebbe meglio se non ci andiamo tutti. Meglio andare in tre, no? E a piedi, per poter scappare in più direzioni se scoppiano casini…
Gagarin era d’accordo:
– Giusto, ma uno di quei tre devo essere io.
– Meglio di no, – ha detto Mei, – tu sei incaricato dai vecchi, sei il responsabile della missione. Se ti succede qualcosa la situazione diventa solo più grave.
Dopo una breve discussione abbiamo deciso di andare io, Mei e Besa; gli altri dovevano aspettare nei paraggi, pronti ad agire in caso di bisogno.
In macchina abbiamo fatto un piano: io dovevo stare in mezzo e tenere sotto controllo la zona davanti e di sinistra, Mei doveva stare a destra e guardare a destra (anche perché aveva solo l’occhio destro), Besa chiudeva la fila un po’ più indietro e ogni tanto doveva chinarsi ad allacciarsi le scarpe, per verificare la situazione dietro le spalle.
Ci siamo fermati in una stradina vicino al ponte, gli altri sono rimasti ad aspettarci in macchina. Ci siamo disposti come eravamo d’accordo e siamo scesi piano verso il ponte, facendo finta di andare a passeggio.
Apposta, per far innervosire la gente che ci aspettava, eravamo in ritardo di dieci minuti.
Ma quando siamo arrivati sotto il ponte, non c’era nessuno. Abbiamo fatto un giro li intorno, poi siamo tornati alle macchine.
Adesso si che era И caso di andare a trovare il Guardiano del Centro e fargli il discorso proposto da zio Fedja. Era evidente che i suoi due aiutanti avevano fatto qualche grande cazzata, e per questo motivo ci avevano preso in giro.
Volavamo verso il Centro, sembravamo una squadriglia di aerei da guerra. Incazzati neri e con le facce truci, immaginavamo già il casino che sarebbe scoppiato in città, a missione conclusa.
Io e Mei discutevamo persino del destino del Guardiano, come se fosse nelle nostre mani.
– Lo ammazzeranno di sicuro, – diceva Mei. – Non può passarla liscia dopo questa dimostrazione di debolezza. Essere preso per il culo dai tuoi aiutanti è peggio che tradire.
– Secondo me lo abbasseranno solo, – dicevo io. – Sarà costretto a trasferirsi a Barn, dove marcirà fino al giorno in cui qualche coglione non lo ammazzerà per rubargli la catenina d’oro.
Non è molto normale che due minorenni facciano ipotesi sul futuro di un criminale autorevole ed esperto.
Nel mondo criminale è meglio riuscire a evitare di finire in certe situazioni: anche se intorno a te tutto è sbagliato e sei sicuro delle tue ragioni, prima di trasformare le tue decisioni in azioni è bene «farsi trenta volte il segno della croce», come diceva mio nonno.