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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

Текст книги "Сибирское воспитание"


Автор книги: Николай Лилин



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Il giorno dopo, senza dire niente a nessuno, Mei si è buttato con un ombrellone parasole dal tetto della biblioteca centrale, un palazzo alto tre piani, con sotto una bella zona verde piena di castagni e betulle. Precipitando su un albero, una betulla, è riuscito a spaccarsi una mano e una gamba, a rimediare un trauma cranico e a infilzarsi la pancia col bastone dell’ombrellone. Un mare di sangue, sua madre disperata, lui quasi per sei mesi da un ospedale all’altro.

Prenderlo in giro mi pareva un buon modo per fargli capire dove poteva portarlo la sua ingenuità. Un’altra volta, quando avevamo già quattordici о quindici anni, Mei era a casa mia, preparavamo il tè da bere nella sauna. Lui improvvisamente se n’è uscito con i Paesi tropicali, dicendo che non sarebbe stato male vivere li, secondo lui potevamo starci bene, perché non faceva mai freddo.

«C’è troppa umidità, – gli ho detto io, – piogge che durano tanto tempo. E uno sputo di terra, che cosa ci facciamo И?»

«Se piove ci ripariamo in una capanna. E pensaci, sulle isole non serve la macchina, si può girare in bici e c’è sempre una barca a disposizione. E gli indiani…»

Erano tutti indiani per lui. Indiani d’America. Pensava che gli indigeni di qualunque Paese girassero sempre a caval lo con le piume colorate in testa e le facce dipinte.

«… gli indiani, – ha continuato, – sono gente in gamba.

Sarebbe bello diventare come loro».

«E impossibile, – l’ho provocato io, – portano i capelli lunghi come gli omosessuali».

«Ma che dici? Non sono omosessuali. E solo che non hanno le forbici per tagliarsi i capelli. Guarda, – mi ha detto, tirando fuori dalla tasca un soldatino di plastica dai colori sbiaditi che portava sempre con sé, un guerriero indiano in posizione di combattimento, con un coltello in mano. – Vedi? Se ha il coltello non può essere un omosessuale, altrimenti non gli avrebbero permesso di offendere un’arma!»

Era bello vedere come lui applicava le nostre regole siberiane agli indiani. Era vero, da noi un «gallo», cioè un omosessuale, è un reietto: se non lo ammazzano gli tolgono la possibilità di ogni contatto con la gente, ma soprattutto gli vietano di toccare oggetti di culto come la croce, il coltello, le icone.

Non avevo nessuna intenzione di smontargli le sue fantasie sulla favolosa vita eterosessuale degli indiani. Volevo so lo divertirmi. Così sono passato a lavorarlo ai fianchi, punzecchiandolo sull’argomento che per lui era sacro: il cibo.

«Non fanno la zuppa rossa», ho detto in un fiato.

Mei si è fatto molto attento. Il suo collo si è allungato:

«Come non c’è la zuppa… E che si mangia allora?»

«Beh, in effetti non hanno tanto da mangiare, lì fa caldo, non gli servono i grassi per resistere al freddo, si accontentano della frutta che cresce sugli alberi, di qualche pesce…»

«Il pesce fritto non è male», ha tentato di difendere la cucina tropicale.

«Scordati il pesce fritto, lì non fanno cuocere niente, mangiano tutto crudo».

«E i frutti?» ha chiesto sconsolato.

«Noci di cocco».

«E come sono?»

«Buone».

«E tu come fai a saperlo?»

«Mio zio ha un amico di Odessa che fa il marinaio. Una settimana fa mi ha portato un cocco con il latte dentro».

«Il latte?»

«Latte, sì, solo che non viene preso dalla mucca ma dall’albero, sta dentro il frutto».

«Ma dai, fammelo vedere!» Si è acceso in cinque secondi e con tutto il suo aspetto mi faceva capire che stava ingoiando la mia esca. Dovevo solo tirare la corda.

«Purtroppo il frutto l’abbiamo già mangiato, però se vuoi provarlo mi è rimasto ancora un goccino di latte».

«Sì, fammelo assaggiare!» Saltava sulla sedia, tanto voleva ’sto latte.

«E va bene, te lo do, l’ho messo in cantina, al fresco. Aspettami due secondi e te lo porto!»

Ridendo come un bastardo sono uscito di casa e sono andato nella casetta degli attrezzi dove mio nonno teneva tutto l’utile e l’inutile per la casa e l’orto. Ho preso una tazza di ferro, ci ho messo dentro un po’ di stucco bianco e un goccio di gesso. Per dare al liquido la giusta densità, ho aggiunto un po’ d’acqua e un po’ di colla per piastrelle. Ho girato il tutto con il bastoncino di legno che mio nonno usava per pulire i nidi dei colombi dalla loro merda. Poi, con affetto, ho portato la magica pozione a Mei.

«To’, ma non berlo tutto, lasciane anche per gli altri».

Come non detto: appena ha preso la tazza in mano, Mei l’ha svuotata in quattro sorsi. Poi ha fatto una smorfia e nell’occhio buono gli è apparsa una timida ombra di dubbio.

«Forse è andato un po’ a male in cantina, non so, all’inizio era buonissimo», ho detto tentando di salvare la situazione.

«Già, dev’essere andato a male…»

Da quel giorno ho cominciato a chiamarlo «Cunga-Canga», e lui non ha mai capito perché.

Cunga-Canga era un cartone molto amato dai bambini in Unione Sovietica. Era disegnato abbastanza male, con una tecnica tipo quella usata nei manifesti di propaganda comunista: tutti colori forti, figure piene e senza sfumature, molto stilizzate, proporzioni non rispettate apposta, per creare un effetto da teatro di marionette.

In quel cartone si promuoveva l’amicizia tra i bambini del mondo con la storia di un bimbo sovietico che va a trovare un bimbo di colore su un’isola, che si chiamava appunto Cunga-Canga. Il bimbo sovietico aveva uno sguardo molto deciso (come tutti i comunisti e i loro parenti), una nave a vapore, un cagnolino di dimensioni ridotte ma anche lui dall’aspetto comunista, ed era vestito da marinaio. Il bimbo di colore era nero come la notte senza luna e aveva addosso solamente una specie di gonnellino di foglie, i suoi amici erano una scimmia e un pappagallo; poi apparivano anche il coccodrillo, l’ippopotamo, la zebra, la giraffa e il leone, che ballavano tutti insieme tenendosi per le zampe, formando un cerchio.

Il cartone durava in tutto un quarto d’ora, e più di dieci minuti erano riempiti da tre canzoni, con qualche cortissimo dialogo nello spazio tra l’una e l’altra. La canzone che ha fatto storia, amata da tutti i bambini dell’Urss, era l’ultima. Lì, accompagnata da una musichetta allegra e commovente, una voce femminile raccontava della vita felice e senza problemi nell’isola Cunga-Canga:

 
Cunga-Canga, un’isola meravigliosa
Vivere li è facile e semplice
Vivere H è facile e semplice
Cunga-a-a-Canga-a-a!
Cunga-Canga, il cielo è sempre azzurro
Cunga-Canga, allegria continua
Cunga-Canga, la nostra felicità è imparagonabile
Cunga-Canga, noi non conosciamo le difficoltà!
La nostra felicità è senza fine
Mastica il cocco e mangia le banane
Mastica il cocco e mangia le banane
Cunga-a-a-Canga-a-a!
 

Dopo i magazzini alimentari cominciavano finalmente le prime case del quartiere Ferrovia. Un quartiere che apparteneva al Seme nero, dove c’erano regole diverse dalle nostre. Dovevamo comportarci bene, altrimenti potevamo anche non uscirne vivi.

I ragazzi di lì erano molto crudeli, cercavano di guadagnarsi il rispetto degli altri con la violenza più estrema. Il potere tra i minorenni aveva un valore simbolico, alcuni potevano comandare su altri, ma nessuno di loro veniva considerato dai criminali adulti. Così, è chiaro, i ragazzi non vedevano l’ora di crescere, e per farlo più in fretta molti diventavano perfetti imbecilli, sadici e ingiusti. Nelle loro mani le regole criminali venivano deformate fino a diventare assurde, perdevano di senso, ridotte a puri pretesti. Ad esempio, loro non portavano niente di rosso, lo definivano il colore dei comunisti: se qualcuno si metteva qualcosa di rosso quelli di Seme nero potevano arrivare a torturarlo. Ovvio, nessuno di quel li nati lì, sapendo questa regola, metteva mai qualcosa di rosso, ma se ce l’avevi con uno bastava nascondergli in tasca un fazzoletto rosso e gridare forte che era un comunista. Il malcapitato veniva subito perquisito, e se il fazzoletto saltava fuori nessuno più ascoltava le sue ragioni, per tutti era già una persona fuori dal mondo.

Questo spirito di lotta senza sosta per il potere, о come la chiamava nonno Kuzja «la gara dei bastardi», girava nell’aria del quartiere. Per essere una perfetta autorità tra i minorenni di Ferrovia bisognava saper tradire sempre i tuoi, non avere legami d’amicizia con nessuno e stare attento a non essere tradito a tua volta, saper leccare il culo ai criminali adulti e non avere nessuna educazione ricevuta da qualunque forma di contatto umano ritenuto buono.

Quei ragazzi erano cresciuti pensando di avere intorno so lo nemici, cosi l’unico linguaggio che conoscevano era quello della provocazione.

Se si arrivava alla rissa, però, si comportavano diversamente. Alcuni gruppi si picchiavano con dignità e con molti di loro eravamo amici. Altri invece cercavano sempre di «colpire da dietro l’angolo», come si dice da noi: attaccare alle spalle, insomma, e non rispettavano nessun patto; potevano tranquillamente spararti anche se prima si era fatto l’accordo di non usare le armi da fuoco.

Erano organizzati in gruppi che a differenza di noi non chiamavano «bande», parola che ritenevano un po’ offensiva, ma kontora, che significa «forze dell’ordine». Ogni kontora aveva un suo capo, о come lo chiamavano loro un bugor, e cioè «la collina».

Io avevo una vecchia grana con un bugor di quel quartiere: aveva un anno più di me e si faceva chiamare «l’Avvoltoio». Era un buffone bugiardo, arrivato quattro anni prima nella nostra città spacciandosi come il figlio di un famoso criminale soprannominato «Bianco». Mio zio lo conosceva benissimo, Bianco, erano stati insieme in carcere e mi aveva raccontato la sua storia.

Era un criminale della casta Seme nero, ma della vecchia guardia. Rispettava tutti, non era mai prepotente, sempre umile, diceva mio zio. Negli anni Ottanta, quando un gruppo di giovani di Seme nero ha scalzato le autorità più anziane (con l’unico obiettivo di far soldi e riciclarsi come uomini d’affari nella società civile), molti vecchi hanno cercato con tutte le loro forze d’impedirlo. Così i giovani hanno cominciato ad ammazzare i loro vecchi: a quei tempi accadeva un po’ dappertutto.

Bianco è finito vittima di un attentato. Stava scendendo con i suoi uomini da una macchina, quando da un’altra macchina in corsa hanno aperto il fuoco su di lui. Mentre quelli sparavano con i Kalasnikov, per strada passava tanta gente e alcune persone sono rimaste ferite. Bianco poteva rifugiarsi dietro la macchina blindata, ma ha visto nel raggio di fuoco una donna e si è buttato per coprirla con il suo corpo. E stato ferito gravemente, ed è morto in ospedale qualche giorno dopo. Prima di morire, ha chiesto ai suoi di cercare quella donna, di chiederle perdono da parte sua per quanto era accaduto e di farle avere del denaro. Questo suo gesto ha avuto una forte risonanza nella società criminale, tanto che i suoi assassini si sono pentiti e hanno chiesto scusa ai vecchi, ma poi hanno continuato ad ammazzarsi tra di loro, e come diceva mio zio «a quel punto solo Cristo sapeva che cosa c’era dentro ’sta insalata».

Insomma, nella nostra comunità parlavano proprio bene di Bianco. Così, quando ho sentito dire che suo figlio era arrivato in città e che aveva dovuto abbandonare il suo paese perché dopo la morte del padre tanta gente voleva vendicarsi su di lui, ho pensato che non vedevo l’ora d’incontrarlo. L’ho detto subito a mio zio, ma lui mi ha risposto che Bianco non aveva figli e non aveva famiglia, perché viveva secondo le regole vecchie, che impedivano ai membri di Seme nero di sposarsi e tirare su i figli. «Era solo come un palo nella steppa», mi ha giurato.

Dopo qualche tempo ho incontrato PAvvoltoio, e senza girarci tanto intorno sono andato al dunque e l’ho smascherato. Ci siamo picchiati, e io ho avuto la meglio, ma da quel giorno l’Avvoltoio ha cominciato a odiarmi, e ha cercato di vendicarsi in tutti i modi.

Una sera d’inverno, nel ’91, stavo tornando a casa tutto sbronzo da una festa. Ero con Mei, ubriaco più di me. Verso mezzanotte, al confine tra il nostro quartiere e il Centro, è spuntato l’Avvoltoio con tre suoi amici; ci hanno superato con le bici, si sono fermati davanti a noi chiudendoci la strada e Г Avvoltoio ha tirato fuori dalla giacca una doppietta calibro 16 tagliata, e mi ha sparato due colpi addosso. Mi ha centrato al petto, le cartucce erano caricate con chiodi sminuzzati. Per mia fortuna però quelle cartucce erano state caricate male: in una avevano messo troppa polvere da sparo e pochi chiodi, e avevano spinto il tappo troppo in fondo; cosi è esplosa dentro, e il fuoco di ritorno ha bruciacchiato la mano e un po’ la faccia di ’sto povero imbecille. Con l’altra avevano fatto l’errore opposto: avevano messo troppi chiodi e poca polvere, ed evidentemente non avevano stretto bene il tappo, cosi i chiodi sono partiti a velocità ridotta e mi hanno solo strappato un po’ la giacca; veramente uno è arrivato fino alla pelle, ma non mi ha fatto niente, tanto che me ne sono accorto solo un paio di giorni dopo quando ho visto una bolla un po’ rossa. Mei si è buttato contro di loro a mani nude ed è riuscito a stenderne uno e a spaccargli la bici, cosi quelli se ne sono andati via.

Dopo quell’episodio, con l’aiuto di tutta la banda ho beccato l’Avvoltoio e gli ho dato tre coltellate sulla coscia, come si usava fare da noi in segno di disprezzo. Lui non si è arreso e ha continuato a dire in giro che voleva vendicarsi. Ma a quei tempi non era ancora nessuno, solo uno dei tanti minorenni malviventi di Ferrovia. Più tardi l’Avvoltoio era riuscito a fare una grandiosa carriera, e adesso era a capo di un branco d’imbecilli con cui combinava cose per le quali a noi nella nostra comunità avrebbero come minimo tagliato le palle.

Quel giorno di febbraio, entrando nel quartiere Ferrovia, pensavo solamente a fare in fretta e non beccare ’sto coglione di nemico che avevo. Per non preoccupare Mei con quella storia e non mettergli ansia, che era una cosa gravissima vederlo in ansia, cercavo di parlargli della festa di compleanno che avrei fatto quella sera, dei piatti che aveva preparato mia mamma per noi. Lui ascoltava con attenzione, e dal suo aspetto era evidente che era già H, al tavolo, a mangiarsi tutto da solo.

Anche a Ferrovia, come da noi, i minorenni facevano le sentinelle, seguivano tutti i movimenti di chi entrava e usciva e poi li segnalavano agli adulti. Cosi siamo stati subito individuati da un gruppetto di bambini tra i sette e i dieci anni. Stavamo attraversando il primo cortile del quartiere e loro erano seduti li in un angolo, una zona strategica dove si vedevano bene tutte e due le strade che dal parco portavano al quartiere. Uno di loro, il pili piccolo, ha ricevuto un ordine da un altro più grande, dopo di che si è alzato e si è messo a correre come una pallottola verso di noi. Nel nostro quartiere non si faceva così: se bisognava avvicinarsi a qualcuno che stava entrando si andava in gruppo, non si mandava mai uno solo, tanto meno il più piccolo. E di solito non si andava proprio incontro a nessuno, dovevi fare in modo che fossero gli altri a venire da te, così fin dall’inizio ti mettevi in una posizione di superiorità.

Il ragazzino aveva una faccia da piccolo tossico, era magro e con due cerchi blu intorno agli occhi, chiaro segno che respirava colla: molti bambini di Ferrovia usavano sballarsi a quel modo. Noi li prendevamo per il culo, chiamandoli «fidanzati del sacchetto», perché si portavano sempre dietro un sacchetto di nylon. Ci mettevano dentro un po’ di colla e poi infilavano la testa nel sacchetto. Molti morivano cosi, asfissiati, perché non avevano neanche pili la forza di togliersi il sacchetto dalla testa; li trovavano in quantità pazzesca sparsi in vari buchi della città, nelle cantine о nei locali delle caldaie, che loro trasformavano in rifugi.

Insomma, ’sto ragazzino si è piazzato davanti a noi, s’è asciugato sulla manica della giacca il naso che gli colava e con la voce rovinata dai residui di colla ha detto:

– Ehi, fermatevi, dove state andando?

Per fargli capire chi eravamo gli ho fatto un corso accelerato d’educazione.

– Ma dove hai messo le buone maniere, le hai lasciate in tasca insieme al tuo fidanzato di nylon? Non ti hanno insegnato che ci sono posti dove per non aver salutato la gente si può finire come un baklan[9]9
  Nome dispregiativo con cui vengono chiamati coloro che non rispettano le norme che regolano il comportamento tra criminali.


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? Torna dai tuoi amici, e digli che vengano tutti e si presentino come si deve, se vogliono parlare. Altrimenti andremo avanti facendo finta di non averli visti!

Alle mie ultime parole già si vedevano i suoi tacchi alzare la neve.

Presto è arrivata tutta la delegazione con il capo in testa, un ragazzetto sui dieci anni che per darsi un tocco criminale si girava in mano il cetki, un attrezzo fatto di pane usato dai borseggiatori per allenarsi le dita, renderle pili agili e sensibili.

Ci ha guardati un po’ e poi ha detto:

– Mi chiamo «Barba», buon giorno, dove state andando? – Nella sua voce si sentiva una nota spenta. Doveva essere anche lui rovinato dalla colla.

– Io sono Nicolai «Kolima», – ho risposto. – Lui è Andrej «Mei», siamo di Fiume Basso. Abbiamo una lettera da portare a uno dei vostri vecchi.

Barba si è come risvegliato.

– Conoscete di persona quello a cui dovete portarla? – ha chiesto con tono improvvisamente gentile. – Sapete la strada о avete bisogno di qualcuno che vi accompagna?

Strano, ho pensato. Mai successo che qualcuno di Ferrovia si offra di accompagnarti, sono famosi per la loro scortesia. Forse, mi sono detto, hanno ricevuto qualche ordine che gli impedisce di lasciare andare da soli quelli che entrano nel quartiere. Ma ci sarebbe da impazzire a seguire tutti, dovrebbero andare avanti e indietro giorno e notte.

Noi non conoscevamo né il destinatario né la strada.

– La lettera è per uno che si chiama Fédor «il Dito», se ci spiegate la strada lo troveremo da noi, grazie —. Cercavo di liberarmi dalla sua proposta di accompagnarci, non so perché ma sentivo qualcosa di poco buono in quell’offerta.

– Allora ve la spiego, – ha detto Barba, e ha cominciato a dire che dovevamo andare di là, svoltare di li, e poi ancora di là, e di nuovo di H. Insomma, mi sono accorto dopo pochi secondi, visto che conoscevo bene quel quartiere, che voleva farci fare un sacco di strada inutile. Però non riuscivo a capire il perché, e cosi ho continuato ad ascoltarlo fino alla fine facendo finta di niente. Poi ho detto apposta, come a dargli ragione:

– Eh già, sembra proprio complicato. Non troveremo mai la strada da soli.

Lui si è illuminato come una moneta appena uscita dallo stampo:

– Ve l’ho detto, senza l’aiuto di una guida…

– Allora aggiudicato, – ho concluso io sorridendo. – Andiamo, facci strada!

L’ho chiesto proprio a lui per valutare la gravità della situazione. Ogni capo di un gruppo che sorveglia un quartiere non abbandona mai la sua postazione, nel caso manda uno dei suoi. La mia era una specie di prova: se rifiutava di accompagnarci bene, potevo stare tranquillo, se invece accettava voleva dire che aveva l’ordine di portarci da qualche parte, e che stavamo per finire in un brutto guaio.

– Perfetto, andiamo! – ha risposto lui quasi cantando.

– Dico solo due parole alla mia kontora e arrivo.

Mentre Barba parlava in un angolo con i suoi, ho condiviso con Mei le mie preoccupazioni.

– Io li gonfio, – ha tagliato corto lui.

Gli ho detto che non mi sembrava una gran buona idea. Se li gonfiavamo, poi dovevamo abbandonare subito il quartiere senza consegnare la lettera. E che figura ci facevamo davanti al nostro Guardiano?

– Una figura da imbecilli, Mei, da veri imbecilli. Che gli diciamo? «Non abbiamo consegnato la lettera perché sospettavamo qualcosa di strano, e allora abbiamo massacrato di botte dei bimbi di nove anni che neanche stavano in piedi, storditi com’erano dalla colla»?

Gli ho proposto un piano diverso, più rischioso: farci accompagnare da Barba e al primo posto comodo «spaccarlo», che nel nostro gergo significa tirare fuori con la violenza la verità che nasconde una persona.

Dovevamo capire cosa c’era in gioco contro di noi – spiegavo a Mei – e farci dare l’indirizzo giusto di questo Dito. Se scoprivamo che c’era un rischio grosso, potevamo tornare indietro e raccontare tutto al nostro Guardiano; se invece il rischio era basso consegnavamo la lettera, e tornando a casa raccontavamo tutto lo stesso, cosi diventavamo gli eroi del quartiere.

L’ultima parte del mio discorso gli è piaciuta moltissimo. L’idea di tornare a Fiume Basso con una storia gloriosa da raccontare lo attirava decisamente. Già batteva le mani, per applaudire alla mia geniale strategia. Io sorridevo e lo rassicuravo che sarebbe andato tutto bene, ma dentro di me avevo qualche dubbio in proposito.

I ragazzini di Barba intanto stavano radunati in cerchio intorno a lui, a qualcuno scappava una risata, guardandoci. Per loro eravamo già finiti in trappola e tutto era stato così facile…

Ho detto a Mei di comportarsi come se nulla fosse, e quando Barba è tornato da noi Mei gli ha fatto un sorriso così largo e falso che mi sono sentito sprofondare.

Siamo partiti. Barba camminava tra noi due, parlavamo del più e del meno. Abbiamo superato una decina di cortili vuoti: con il freddo che faceva la gente se ne stava in casa.

Siamo passati vicino a una vecchia scuola, chiusa e semidistrutta, dove d’estate si radunavano i ragazzi di Ferrovia per fare casino tutti insieme. Lì due anni prima era stata brutalmente ammazzata una ragazza minorenne, una povera sventurata senza famiglia, costretta a prostituirsi per sopravvivere. Erano proprio i suoi amici, altri minorenni come lei, a costringerla a prostituirsi per loro, e poi le prendevano quei pochi soldi che guadagnava. L’hanno ammazzata perché voleva uscire dal giro e andare a vivere in un altro quartiere, dove aveva trovato lavoro come aiuto sarta.

La storia era sconvolgente, perché l’avevano violentata e torturata per quasi tre giorni di fila, tenendola legata a un vecchio telaio di un letto senza la rete: lei era sempre lì, sospesa, i polsi e le caviglie non avevano retto il peso del suo corpo e si erano spezzati. L’hanno trovata con tagli ovunque e segni di bruciature di sigarette in faccia, nell’ano le avevano infilato una chiave idraulica di grosse dimensioni, e nella vagina un bollitore elettrico con cui l’avevano ustionata poco alla volta, per farla soffrire di più.

Nei primi tempi la gente di Ferrovia aveva cercato di nascondere quest’orribile assassinio, ma presto tutta la città aveva saputo e le autorità criminali erano intervenute. Avevano ordinato al Guardiano di Ferrovia di trovare in pochi giorni tutti i responsabili, ammazzarli di botte a bastonate e appendere i loro corpi sulla scena del delitto per una settimana, poi seppellire i cadaveri in una tomba senza croce e nessun segno di riconoscimento.

E così era stato. Anche noi eravamo andati a guardare i corpi dei bastardi assassini appesi per le gambe sulla veranda della scuola vuota, erano gonfi come palloni e tutti neri dalle botte. Io avevo distolto lo sguardo, che poi mi era caduto sui muri: erano molto spessi; avevo pensato che mentre la ragazza veniva torturata nessuno aveva sentito le sue urla. Dev’essere difficile e terrificante morire in quel modo, sapendo che a due passi dall’inferno in cui ti trovi la gente sta rilassata in casa sua, fa le sue cose di sempre e non immagina neanche un minimo di quel dolore che stai provando. Mi veniva da piangere al pensiero di questo dettaglio: «Tutto il rumore che si può fare qui dentro rimane qui», e questo era niente di fronte a tutto quello che doveva aver subito quella povera anima.

Davanti alla scuola, ho dato una leggera gomitata a Mei, facendogli capire che toccava a lui dare inizio alle danze.

– Non ce la faccio più, ragazzi, – ha detto subito lui, – devo proprio svuotarmi il sacco. Andiamo un attimo in un posto dove posso «aspettare il treno» tranquillo.

Barba ha guardato prima Mei e poi me con la faccia un po’ preoccupata, forse voleva controbattere qualcosa ma non l’ha fatto per non insospettirci, e si è limitato a dire:

– Vabbe’, dai, ti faccio vedere io un posto. Qui, dentro la scuola.

Appena siamo entrati, Mei gli ha dato una spinta sulla schiena e Barba è caduto sul pavimento gelato a pancia in giù. Si è girato verso di noi con una faccia terrorizzata:

– Che fate, siete impazziti? – ha chiesto con voce tremolante.

– Il pazzo sei tu, se credi di poterci prendere come due troie… – ho detto, mentre Mei a scopo dimostrativo apriva e chiudeva il suo coltello a scatto; se lo rigirava in mano quasi con tristezza e una specie di nostalgia, così che la lama faceva mille riflessi sui muri sporchi e pieni di scritte volgari.

Io camminavo piano verso Barba e lui indietreggiava sul pavimento alla mia stessa velocità, finché non è arrivato contro il muro. Continuavo a parlargli fingendo di sapere tutto, per farlo sentire inutile e in pericolo:

– Siamo venuti qui apposta per farla finita con tutta questa storia… Vedrai, non è bello cercare di fregare quelli di Fiume Basso.

– Non fatemi del male, io non c’entro niente! – Barba ha cominciato a cantare prima del previsto. – Non so nulla della vostra storia, eseguo solo un ordine dell’Avvoltoio…

– Che ordine? – gli ho chiesto premendogli la punta del lo stivale sul fianco.

– Che se si presenta la gente di Fiume Basso, noi dobbiamo portarla subito da lui! – Era quasi al limite dell’isteria, parlava con una vocetta gracchiante.

Mei si è avvicinato e ha cominciato a sfiorarlo con il coltello, spingendo poco alla volta la lama sotto i vestiti, e a ogni sua mossa quello piangeva sempre più forte, con gli occhi chiusi, implorando di non ammazzarlo. Implorava me, a dire il vero, perché pensava che Mei volesse ucciderlo a tutti i costi.

Io ho aspettato un po’, per cuocerlo a dovere, e quando ho capito che era arrivato al punto in cui non poteva rifiutarmi niente ho fatto la mia proposta:

– Dimmi dove possiamo trovare Dito, noi gli consegna-mo la lettera e tu ti salvi. Ma non provare a prenderci in giro, conosciamo bene il vostro buco di merda, e se ci mandi in un posto sbagliato ce ne accorgiamo. E se per caso non troviamo Dito ti facciamo secco, ma non con il coltello: ti ammazziamo di botte, rompendoti prima tutte le ossa…

In pochi secondi le sue parole hanno disegnato nell’aria, davanti ai miei occhi, la strada giusta per la casa di Dito.

Abbiamo deciso di chiudere Barba nella scuola perché non ci giocasse brutti scherzi. Nel seminterrato abbiamo trovato una porta che si poteva bloccare da fuori, mettendo un asse di legno contro la maniglia di ferro. La stanza era fredda e buia, un vero buco. Perfetto per Barba, che attendeva con umiltà di conoscere la sua sorte.

– Ti chiudiamo qui, e nessuno se ne accorgerà prima dell’estate. Se hai mentito e noi abbiamo problemi, se per caso ci seccano о ci fanno del male, rimani a marcire qui, muori da solo. Se tutto finirà bene, diremo a qualcuno dove sei e ti verranno a liberare. Chiaro? Potrai vivere, e ricordarti questa lezione personale che ti abbiamo fatto gratis.

Mei lo ha spinto dentro il buio, poi ha chiuso e sprangato la porta. Da dietro è partito un pianto disperato:

– Non lasciatemi qui, vi prego, non lasciatemi qui!

– Sta’ zitto, sii uomo. E prega il Signore per noi, altrimenti sei morto!

La casa di Dito era lontanuccia, a un quarto d’ora di cammino. Dovevamo cercare di non attirare l’attenzione, ma pili c’inoltravamo nel quartiere più ci allontanavamo dalla possibilità di uscire bene da quella storia.

Intanto facevo mille ipotesi su cosa poteva averci riservato ’sto imbecille dell’Avvoltoio, e stranamente diventavo sempre pili curioso. Volevo assolutamente scoprire di che morte mi volevano far morire a Ferrovia. Non ero spaventato, ma agitato, come se stessi giocando a un gioco d’azzardo. Mei camminava tutto tranquillo e non mostrava nessun segno di dialogo interno. Aveva la sua solita espressione vuota, ogni tanto mi guardava e si faceva una piccola ghignata.

– Cazzo ridi, non capisci che siamo nella merda? – dicevo io, cercando di mettergli un po’ di paura. Non per cattiveria, così, per muovere le acque.

Ma niente da fare, era imperturbabile, sorrideva ancora di pili. – Li roviniamo tutti, Kolima, – gongolava. – Faremo un macello, un mare di sangue!

A dirla tutta, il macello era esattamente ciò che volevo evitare.

– Purché il sangue non sia nostro… – gli ho risposto, ma lui non mi sentiva neanche, camminava come uno che ha deciso di sterminare mezzo mondo.

Poi siamo arrivati a casa di Dito, e siamo saliti al secondo piano, fermandoci davanti alla sua porta. Mei ha alzato la mano per suonare il campanello, ma io l’ho fermato. Prima ho guardato dal buco della serratura, che era bello largo. Si vedeva un corridoio tutto sporco, con una lampadina accesa che dondolava in basso, come se qualcuno l’avesse tirata giù apposta. In fondo al corridoio, davanti a un televisore acceso, un uomo magro, con i capelli corti, si stava tagliando le unghie dei piedi con una lametta, come si fa in carcere.

Mi sono staccato dalla serratura e ho detto a Mei:

– Controlla se la lettera è a posto, poi suona. Quando Dito apre, lo saluti e ti presenti, poi presenti me. Non dire subito della lettera…

Non sono riuscito a finire che Mei mi ha interrotto:

– Magari m’insegni anche come andare al cesso? Non è la prima lettera che porto, so come comportarmi!

Mei ha premuto il campanello. Il suono era strano, s’interrompeva in continuazione, come se i cavi non facessero bene contatto. Abbiamo sentito lo scricchiolio del pavimento di legno a ogni passo di Dito. La porta si è aperta senza nessun rumore di serratura, non era chiusa a chiave. Davanti a noi è apparso un uomo di quarantanni, tutto coperto di tatuaggi e con i denti di ferro che gli luccicavano in bocca come gioielli. Era vestito con una canottiera e dei pantaloni leggeri, aveva i piedi nudi sul pavimento gelato.

Nell’appartamento faceva tanto freddo che potevamo vedere il suo respiro condensarsi in vapore bianco. Ci guardava tranquillo, sembrava un tipo regolare. Aspettava.

Mei non smetteva di fissarlo senza dire niente, e l’uomo ha alzato la mano e si è grattato il collo, come per far capire che il nostro silenzio lo metteva a disagio.

Ho dato un leggero calcio a Mei e lui è partito subito, sputando le parole come un mitra sputa le pallottole. Ha fatto tutto secondo le regole, dopo le presentazioni ha detto che portava una lettera.


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