355 500 произведений, 25 200 авторов.

Электронная библиотека книг » Николай Лилин » Сибирское воспитание » Текст книги (страница 2)
Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

Текст книги "Сибирское воспитание"


Автор книги: Николай Лилин



сообщить о нарушении

Текущая страница: 2 (всего у книги 24 страниц)

Spesso a tredici-quattordici anni i minori siberiani hanno già precedenti penali e quindi esperienza del carcere minorile: un’esperienza che è molto importante, anzi fondamentale, per la formazione del carattere e della visione del mondo individuale. A quest’età molti siberiani hanno già alle spalle traffici criminali, un omicidio о almeno un tentato omicidio. E tutti sono capaci di comunicare all’ interno della comunità criminale, di seguire, trasmettere e salvaguardare le basi e i principi della legge criminale siberiana.

Una volta, mio padre mi ha chiamato in giardino:

– Vieni qua, piede scalzo! E porta con te un coltello!

Ho preso un coltello da cucina, quello che di solito usavo per ammazzare le oche e le galline, e sono corso in giardino. Sotto un grande e vecchio albero di noce erano seduti mio padre, il suo amico zio Aleksandr, che tutti chiamavano «Osso», e mio zio Vitalij. Stavano parlando di colombi, la passione di ogni criminale siberiano. Zio Vitalij stringeva fra le mani un colombo, gli apriva l’ala e la mostrava a mio padre e a Osso, spiegando qualcosa.

– Nicolai[2]2
  Si è scelto di mantenere in tutto il libro la grafia «Nicolai», anziché la corretta traslitterazione dal russo «Nikolaj», poiché è questo il nome che l’autore usa quotidianamente e che compare anche nei suoi documenti italiani [N.d.R],


[Закрыть]
, figliolo, ammazza una gallina e portala a tua madre. Dille di pulirla e fare una zuppa per stasera, che zio Osso rimane da noi a parlare un po’.

«Parlare un po’» significa che i maschi della famiglia stanno insieme a bere e mangiare tutta la notte fino all’esaurimento fisico, finché non crollano esausti uno dopo l’altro. Quando i maschi parlano un po’ nessuno li disturba, tutti fanno le loro cose fingendo che il posto dove si svolge la riunione non esista.

Io sono corso nel pollaio in fondo al giardino e ho preso il primo pollo che ho trovato. Era un pollo normale, rossiccio, abbastanza robusto e molto tranquillo. L’ho stretto tra le mani e mi sono diretto verso un ceppo di legno poco lontano, che usavamo per tagliare la testa ai polli come lui. Non tentava di fuggire e non aveva l’aria preoccupata, anzi si guardava intorno come se stesse facendo una gita turistica. L’ho preso per il collo posandolo sul ceppo, e quando ho alzato il coltello in aria, per eseguire il mio movimento mortale, il pol lo ha cominciato a fare una violenta serie di movimenti vitali, fino a quando è riuscito a liberarsi dalla mia presa dandomi pure una forte beccata in testa. Ho perso l’equilibrio e sono caduto sul sedere: ero stato sconfitto da un pollo. Subito dopo ho notato che mio padre e gli altri stavano guardando lo spettacolo. Zio Vitali] rideva, anche Osso aveva sulla faccia una specie di sorriso, mio padre invece era più serio che mai, si era alzato e ora stava venendo verso di me.

– Alzati, assassino! Dammi ’sto coltello, te lo faccio vedere io come si fa! – E andato verso il pollo, che nel frattempo stava scavando un buco in terra a pochi metri dal punto in cui era avvenuta la commedia. Arrivato vicino al pollo, mio padre si è inarcato tutto, come una tigre che sta per acchiappare la preda; il pollo se ne stava tranquillo, continuava a scavare la terra per ragioni che sapeva solo lui. A un certo punto, mio padre ha fatto una mossa veloce per prenderlo, ma il pollo ha ripetuto l’azione di prima, e con un movimento rapidissimo ha evitato la presa di mio padre e lo ha colpito in faccia, proprio sotto l’occhio.

– Madonna Santissima! Mi ha centrato l’occhio! – ha urlato mio padre, e a quel punto mio zio e Osso si sono alzati dalla panchina sotto il noce e sono corsi verso di lui. Zio Vitalij prima ha rimesso in gabbia il colombo e poi ha appeso la gabbia a qualche metro da terra, per tenerla lontana dalla nostra gatta Murca che amava molto ammazzare i colombi, ragion per cui stava sempre vicina a zio Vitalij che trafficava con loro tutto il giorno.

Gli adulti hanno cominciato a fare attentati al pollo, il quale mantenendo sempre la calma e in maniera decisamente efficace riusciva ogni volta a sfuggire. Dopo un quarto d’ora d’inutili tentativi, i tre uomini erano senza fiato, e guardavano il pollo che con la stessa determinazione di prima continuava a scavare la terra e a farsi i suoi affari da pollo. Mio padre mi ha sorriso, dicendo:

– Lasciamolo vivere, questo pollo. Non ammazziamolo mai: che stia qui, in giardino, libero di fare quello che vuole.

La sera ho raccontato a mio nonno quello che era successo. Lui ha riso tanto, e poi mi ha chiesto se io ero d’accordo con la decisione di mio padre. Gli ho risposto con una domanda:

– Perché liberare quel pollo e non gli altri?

Nonno mi ha guardato con un sorriso e ha detto:

– Solo chi apprezza veramente la vita e la libertà, e combatte fino in fondo, merita di vivere libero… Anche se è un semplice pollo.

10 ci ho pensato un po’ su e gli ho chiesto:

– E se tutti i polli un giorno diventano come lui?

Dopo una lunga pausa nonno ha detto:

– Allora bisognerà abituarsi a cenare senza zuppa di pollo…

11 concetto della libertà è sacro per i siberiani.

Quando avevo sei anni, mio zio Vitali] mi ha portato a trovare un suo amico che io non avevo mai visto, perché quand’ero nato stava già in prigione, a scontare una lunga condanna. Si chiamava Aleksandr, ma mio zio lo chiamava «Riccio».

Riccio era stato liberato proprio quel giorno, dopo quindici anni di galera. Si usava da noi siberiani che i primi ad andare a trovare un galeotto appena rilasciato si portassero dietro i bambini: era una forma di buon augurio, un portafortuna per la vita futura, libera e criminale. La presenza dei bambini serve per far capire alle persone che sono state a lungo escluse dalla società che il loro mondo ha comunque un futuro, e che quello che loro hanno fatto, i loro ideali e Г educazione criminale, non sono stati e mai saranno dimenticati. Io, ovviamente, non capivo niente di tutto questo e sentivo solo la curiosità di conoscere ’sto personaggio.

Nel nostro quartiere ogni giorno qualcuno finiva in prigione о ne usciva, e quindi a noi ragazzini non faceva strano vedere un uomo che era stato in prigione, eravamo cresciuti per essere pronti a finirci anche noi, ed eravamo abituati a parlare di galera come di una cosa assolutamente normale, come altri ragazzini parlano del servizio militare о di cosa faranno da grandi. Però in alcuni casi le figure di certi galeotti prendevano nei nostri racconti una forma eroica, diventavano i modelli a cui volevamo somigliare a tutti i costi: volevamo vivere le loro vite avventurose che brillavano di fascino criminale, quelle vite che noi sentivamo raccontare dagli adulti e poi ci raccontavamo tra di noi, spesso e volentieri modificando i particolari, rendendo quelle storie simili a fiabe e a racconti fantastici. Riccio era questo: un mito, una di quelle figure di cui si nutriva la nostra giovane immaginazione. Di lui si diceva che era ancora minorenne quand’era stato accolto come rapinatore in una delle bande più famose della nostra comunità, composta da criminali siberiani anziani e autorevoli e gestita da un altro personaggio leggendario, conosciuto da tutti noi come «Taiga».

Taiga era un esempio perfetto di criminale siberiano puro: figlio di genitori criminali, da piccolo aveva partecipato a rapine di treni blindati portavalori e aveva ucciso molti agenti di polizia. Sul suo conto esistevano un sacco di storie favolose in cui lui appariva come un saggio e potente criminale in grado di svolgere in maniera perfetta le attività fuorilegge, e al tempo stesso, essendo molto umile e umano, di aiutare i più deboli e punire ogni tipo d’ingiustizia.

Taiga era già vecchio quando aveva incontrato Riccio, che allora era un ragazzo orfano. Lo aveva aiutato alla sua maniera, insegnandogli la legge e la morale criminale, e molto presto Riccio era diventato per lui come un nipote. Del resto Riccio aveva saputo guadagnarsi la sua stima.

Una volta era stato circondato dalla polizia insieme ad altri cinque criminali; non c’era via di scampo, tutti quelli della sua banda erano di vecchia fede siberiana e quindi non si sarebbero lasciati prendere vivi, avrebbero resistito fino alla vittoria о alla morte. Per pietà verso di lui, cosi giovane, i suoi compagni gli avevano proposto di scappare, offrendogli una sicura via di fuga, ma lui per rispetto verso di loro aveva rifiutato. Erano certi che sarebbero morti tutti, i poliziotti non mollavano l’assedio, ma a un certo punto Riccio aveva fatto una cosa furba: aveva nascosto dietro la schiena il mitra, e con urla di spavento era uscito verso i poliziotti chiedendo aiuto, come se lui fosse stato una semplice vittima estranea alla faccenda tra criminali e polizia. Gli sbirri lo avevano fatto passare dietro le loro schiene e lui, appena finito li, aveva tirato fuori il mitra e li aveva seccati tutti. Grazie al suo gesto i vecchi si erano salvati, e Riccio era diventato membro fisso della loro banda, con tutti i diritti di un criminale adulto. Per noi ragazzini era un esempio: un minorenne che riesce a far valere la sua parola come quella di un adulto è merce rara.

Riccio poi era finito in galera più tardi, verso i trent’anni, per tentato omicidio di poliziotto. Mancavano le prove e i testimoni, però era stato incastrato sfruttando l’articolo della «partecipazione a gruppo criminale», per dimostrare il quale bastavano un paio di pistole sequestrate dall’abitazione e un po’ di precedenti penali: facendo un accordo con gli sbirri, il giudice poteva tirare la condanna fino a venticinque anni con vari regimi punitivi. La giustizia in Urss non era affatto cieca, anzi a volte sembrava che ci guardasse tutti attraverso un microscopio.

Mio zio era amico di Riccio, in galera stavano nella stessa «famiglia»: visto che mio zio era uscito prima di lui, un giorno era andato a casa del vecchio Taiga, ormai moribondo, per portargli i saluti di suo nipote adottivo. Prima di morire Taiga aveva benedetto mio zio e aveva detto che il primo figlio maschio che sarebbe nato nella nostra famiglia avrebbe dovuto portare il nome di mio bisnonno Nikolaj, che da giovane era suo amico, e poi era stato fucilato dalla polizia all’età di ventisette anni. Il primo a nascere, dopo cinque anni, sono stato io.

Io e zio Vitali] siamo andati a piedi, la strada non era lunga, una mezz’ora di cammino. Riccio non aveva una casa, era ospite di un vecchio criminale di nome «Bollito» che abitava ai margini del nostro quartiere, vicino ai campi dove il fiume faceva una curva larga e si perdeva nei boschi.

Il cancello era aperto. Era estate, e faceva parecchio caldo; nel cortile, sotto un pergolato d’uva che faceva una bella ombra, erano seduti Bollito e Riccio. Stavano bevendo «kvas», una bevanda dissetante a base di pane nero e di lievito. L’odore di kvas era fortissimo, e si sentiva subito, nell’aria ferma e calda.

Non appena siamo entrati, Riccio si è alzato dalla sedia ed è corso verso mio zio: si sono abbracciati e baciati tre volte sulle guance, come si usa da noi.

– Allora, vecchio lupo, sei ancora capace di mordere? Gli sbirri non ti hanno rotto tutti i denti? – ha chiesto Riccio, come se a essere appena uscito di galera fosse stato mio zio e non lui.

Ma io sapevo perché lo diceva. Mio zio nell’ultimo anno di carcere aveva passato un brutto guaio. Aveva aggredito una guardia per questioni di onore, per difendere un vecchio criminale che era stato pestato da uno sbirro, e le guardie si erano vendicate con torture disumane, lo avevano picchiato forte e a lungo, e dopo lo avevano bagnato e lasciato per una notte all’aperto in pieno inverno. Lui si era ammalato e per fortuna era sopravvissuto, ma la sua salute ne aveva risentito, aveva un’asma cronica e gli stava marcendo un polmone, tanto che mio nonno scherzava sempre dicendo che aveva ritirato dalla galera la metà di suo figlio, mentre l’altra metà era rimasta li a marcire per sempre.

– E tu non sei più giovane, sei diventato un brutto vecchio! Dove hai lasciato i tuoi anni migliori? – gli aveva risposto mio zio guardandolo con affetto. Era evidente che quei due erano buoni amici.

– Ma chi è questo piede scalzo, sarà mica figlio di Jurij? – Riccio mi fissava con un sorriso sghembo.

– SI, è mio nipote. Lo abbiamo chiamato Nicolai come ha chiesto il vecchio Taiga, che la terra gli sia morbida come piuma…

Riccio intanto si era chinato su di me, la sua faccia era davanti alla mia, mi guardava con attenzione negli occhi, e io guardavo lui. Aveva occhi molto chiari, quasi bianchi, con una leggera traccia di azzurro; non sembravano umani, m’incuriosivano molto e continuavo a fissarli come se da un momento all’altro dovessero cambiare colore.

Poi Riccio mi ha messo una mano sulla testa e mi ha agitato i capelli, e io gli ho sorriso come a uno di famiglia.

– Sarà un assassino, questo, è della nostra razza, che il Signore lo aiuti.

– E sveglio… – ha detto mio zio con una forte nota di orgoglio nella voce, – … Kolima, ragazzo, recita a zio Riccio e zio Bollito la poesia dell’annegato!

Era la poesia preferita di zio Vitalij. Ogni volta che era ubriaco e voleva partire per ammazzare qualche sbirro, i miei nonni per fermarlo mi mandavano da lui come una specie di terapia a recitare quella poesia. Io la recitavo e lui si calmava subito, cominciava a parlarmi, mettendo via la pistola:

«Va bene, non fa niente, li ammazzerò domani quegli infami schifosi, dimmela un’altra volta…», e cosi io ricominciavo da capo ancora e ancora, finché non si addormentava. Solo a quel punto entravano nella stanza i miei nonni e gli portavano via la pistola.

Si trattava della poesia scritta dal mitico Puskin. Racconta di un povero pescatore nelle cui reti è finito il corpo di un annegato. Per paura delle conseguenze il pescatore ributta in acqua il corpo, ma il fantasma dell’annegato comincia a fargli visita ogni notte: finché il suo corpo non sarà sepolto in terra sotto una croce, lo spirito non potrà riposare in pace.

Era una storia molto bella e insieme terrificante, non so proprio perché piacesse cosi tanto a mio zio.

Comunque io non mi vergognavo a recitare le poesie davanti agli altri, anzi mi piaceva, mi sentivo importante e protagonista.

Cosi ho preso un po’ d’aria nei polmoni e ho cominciato a declamare, cercando di farlo nel modo più impressionante possibile, cambiando tonalità e aiutandomi anche con i gesti:

– «Sono entrati i bambini in casa, in fretta hanno chiamato il loro padre: «Padre, padre! Le nostre reti hanno pescato un morto!  «Cosa dite, diavolacci, – ha risposto il padre. – Ah, questi ragazzi! Ve lo do io il morto… Moglie, dammi il cappotto, vado a vedere. Ebbene, dove sarebbe questo morto?» «Eccolo H, padre! E difatti, lungo il fiume, dov’e-ra stesa ad asciugare la rete, sulla sabbia c’era un cadavere: il corpo orribile e sformato, bluastro e tutto gonfio…»

Quando ho finito, mi hanno applaudito. Mio zio era più contento di tutti, mi accarezzava la testa dicendo:

– Che vi dicevo? E un genio.

11 vecchio Bollito ci ha chiesto di accomodarci al tavolo sotto il pergolato ed è andato a prendere due bicchieri per noi.

Riccio mi ha chiesto:

– Di’ un po’, Kolima, hai per caso una picca?

Alla parola «picca» i miei occhi hanno cominciato a brillare e sono diventato attento come una tigre a caccia: io non avevo ancora una picca, nessuno dei miei amici ce l’aveva, di solito la si ha più tardi, verso i dieci-dodici anni.

La picca, così viene chiamata la storica arma dei crimina li siberiani, è un coltello a scatto con una lama lunga e sottile, ed è legato a molte usanze e cerimonie tradizionali della nostra comunità criminale.

Una picca non si può comprare о avere per propria volontà, si deve meritare.

Ogni criminale giovane può ricevere in regalo una picca da un criminale adulto, purché non sia un parente.

Una volta regalata, la picca diventa una specie di personale simbolo di culto, come la croce nella comunità cristiana.

La picca ha anche poteri magici: moltissimi.

Quando qualcuno è malato e soprattutto soffre, gli mettono sotto il materasso una picca aperta, con la lama di fuori, così secondo le credenze la lama taglia il dolore e lo assorbe come una spugna. Inoltre, quando un nemico viene colpito da quella lama, il dolore raccolto sgorga dentro la ferita, facendolo soffrire ancora di più.

Il cordone ombelicale dei neonati viene tagliato con una picca, che prima però è stata lasciata aperta per una notte nel posto dove dormono i gatti.

A suggellare patti importanti fra due persone – tregue, amicizie о fratellanze – i criminali s’incidono la mano con la stessa picca, che poi viene conservata da una terza persona, una specie di testimone del loro patto: chi tradirà la tregua verrà ammazzato con quella picca.

Quando un criminale muore, la sua picca viene rotta da qualcuno dei suoi amici: una parte, la lama, si mette nella tomba, di solito sotto la testa del morto, il manico invece lo conservano i parenti stretti. Quando è necessario comunicare con il morto, chiedergli un consiglio о un miracolo, i parenti tirano fuori il manico e lo mettono nell’angolo rosso, sotto le icone. Cosi il morto diventa una specie di ponte diretto tra i vivi e Dio in persona.

Una picca conserva i suoi poteri solo se si trova nelle mani di un criminale siberiano che la usa rispettando le regole della comunità criminale; se una persona indegna si appropria di una picca non sua, quella gli porterà sfortuna: da qui il nostro modo di dire «rovinare qualcosa come la picca rovina un cattivo padrone».

Quando un criminale è in pericolo, la sua picca lo può avvertire in molti modi: la lama scatta improvvisamente da sola, о diventa calda, о vibra; qualcuno ritiene che sia persino in grado di emettere un fischio.

Se una picca si rompe, significa che da qualche parte c’è un morto che non trova pace e allora si fanno offerte alle icone о si ricordano nelle preghiere parenti e amici morti, si visitano i cimiteri, si ricordano i morti parlando di loro in famiglia, raccontando di loro soprattutto ai bambini.

Per tutte queste ragioni, alla parola «picca» mi si sono accesi gli occhi. Possederne una significa essere premiati dagli adulti, avere qualcosa che ti lega per sempre al loro mondo.

La domanda che mi aveva fatto Riccio era un chiaro segnale che stava per succedermi una cosa pazzesca, a me, un bambino di sei anni. Un mitico criminale stava per regalarmi una picca, la mia prima picca. Non speravo, non potevo neanche immaginare una cosa del genere, e invece cosi, all’improvviso, avevo davanti a me la possibilità di possedere quel simbolo sacro, che per la gente che ha ricevuto l’educazione criminale siberiana è una parte dell’anima.

Cercando di nascondere l’agitazione, ho fatto una faccia indifferente, però non credo che mi è riuscita bene, perché tutti e tre mi guardavano sorridendo. Pensavano di sicuro alla loro prima volta, alla loro prima picca.

– Non ce l’ho, – ho detto con la voce durissima.

– Allora aspetta un momento che arrivo… – con queste parole Riccio è entrato in casa. Io stavo esplodendo dalla felicità, dentro di me suonava un’orchestra, sparavano fuochi d’artificio e si sentivano miliardi di voci d’euforia. Ero come ubriaco, stavo per scoppiare.

Riccio è tornato subito, si è avvicinato, mi ha preso la mano e ci ha messo dentro una picca. La picca.

– Questa è tua, che il Signore ti aiuti e la tua mano diventi forte e decisa…

Da come mi guardava, era evidente che era contento anche lui.

10 invece guardavo la mia picca e non credevo fosse vera. Era più pesante e più grande di quanto avessi immaginato.

Ho tolto la sicura, abbassando una specie di piccola leva, e poi ho schiacciato il bottone. Il rumore del meccanismo era musica per le mie orecchie, era come se il metallo prendesse voce. La lama scattava secca, in un attimo, con una forza immensa, e rimaneva subito ferma e dritta, stabile e fissa. Era scioccante il momento in cui quell’oggetto strano, che da chiuso sembrava un attrezzo di cancelleria dell’inizio del secolo, aprendosi prendeva una chiara, semplice e definitiva forma di arma bellissima e graziosa, sottile, con una certa nobiltà e fascino.

11 manico era di osso nero – cosi da noi chiamano le corna del cervo reale, marroni scure, quasi nere – con al centro un intarsio di osso bianco a forma di croce ortodossa. Il manico era così lungo che dovevo prenderlo con due mani, come la spada dei cavalieri medievali. Anche la lama era lunghissima, affilata da un lato e tutta lucidata a specchio. Era un’arma fantastica e io mi sentivo in paradiso.

Da quel giorno la mia autorità tra i miei amici è cresciuta a dismisura. Per una settimana ho dovuto accogliere frotte di bambini che venivano da tutto il quartiere per vedere la mia picca, casa mia era diventata una specie di luogo sacro e loro erano i pellegrini. Mio nonno li faceva entrare in cortile, offriva a tutti delle bevande fresche. Mia nonna non faceva in tempo a preparare il kvas che già era finito, allora io ho sparso la voce che erano gradite offerte in forma liquida e preferibilmente fresche, cosi chiunque voleva venire a vedere il primo ragazzo di sei anni felice proprietario di una vera picca si doveva portare dietro da bere.

Io mi sentivo veramente orgoglioso e fiero di me stesso, ma dopo un po’ mi ha preso una strana forma di depressione, mi ero stancato di raccontare la stessa storia cento volte al giorno e mostrare la picca a tutti quanti. Cosi sono andato a trovare nonno Kuzja, come ogni volta che avevo un problema о un dolore.

Nonno Kuzja era un criminale anziano che abitava nel nostro quartiere in una piccola casa davanti al fiume. Era un vecchio molto forte, aveva ancora tutti i capelli neri ed era pieno di tatuaggi ovunque, persino sul viso. Di solito mi portava in giardino per farmi vedere il fiume, e mi raccontava fiabe e varie storie della comunità criminale. Aveva una voce forte, ma parlava piano, tranquillo, così che sembrava che la sua voce arrivava da lontano, e non da dentro di lui. La cosa più impressionante erano i suoi occhi. Di colore blu, però sporco, paludoso, con un leggero accento di verde, sembravano non appartenere al suo corpo, come non farne parte. Erano profondi, e quando con calma, senza nervosismo, te li puntava addosso, sembrava che ti stesse facendo i raggi x: nel suo sguardo c’era davvero qualcosa d’ipnotico. La faccia piena di rughe era attraversata a sinistra da una lunga cicatrice, ricordo di gioventù criminale.

Insomma, sono andato a trovarlo e gli ho raccontato tutto, mettendo in chiaro che mi piaceva avere la picca, che però i miei amici mi trattavano diversamente da prima. Anche il mio caro amico Mei, con cui eravamo, come dicono da noi, «tagliati con la stessa ascia», si comportava come se fossi un’icona religiosa davanti alla quale bisognava sempre essere buoni e gentili.

Nonno Kuzja si è messo a ridere, ma senza cattiveria, e mi ha detto che non ero della taglia giusta per essere una celebrità.

Poi mi ha fatto un lungo discorso dei suoi. Mi ha consigliato di comportarmi come mi veniva. Mi ha detto che il fatto di aver avuto una picca non mi rendeva diverso dagli altri, che ero stato semplicemente fortunato a trovarmi nel momento giusto al posto giusto, e se cosi aveva voluto Nostro Signore io dovevo essere pronto per la responsabilità che mi aveva dato. Dopo il suo discorso, come sempre, mi sono sentito meglio.

Nonno Kuzja mi ha insegnato le vecchie regole di comportamento criminale, che nei tempi moderni aveva visto cambiare sotto i suoi occhi. Era preoccupato, perché diceva che tutto comincia sempre dalle piccole cose che sembrano poco importanti, e alla fine si arriva alla totale perdita della propria identità.

Per farmelo entrare nella zucca mi raccontava spesso una fiaba siberiana, una specie di metafora, il cui senso era proprio la perdita di dignità degli uomini che seguono una via sbagliata, attirati da falsi benefici.

Quella fiaba parlava di un branco di lupi che erano messi un po’ male perché non mangiavano da parecchio tempo, insomma attraversavano un brutto periodo. Il vecchio lupo capo branco però tranquillizzava tutti, chiedeva ai suoi compagni di avere pazienza e aspettare, tanto prima о poi sarebbero passati branchi di cinghiali о di cervi, e loro avrebbero fatto una caccia ricca e si sarebbero finalmente riempiti la pancia. Un lupo giovane, però, che non aveva nessuna voglia di aspettare, si mise a cercare una soluzione rapida al problema. Decise di uscire dal bosco e di andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo provò a fermarlo, disse che se lui fosse andato a prendere il cibo dagli uomini sarebbe cambiato e non sarebbe più stato un lupo. Il giovane lupo non lo prese sul serio, rispose con cattiveria che per riempire lo stomaco non serviva a niente seguire regole precise, l’importante era riempirlo. Detto questo, se ne andò verso il villaggio.

Gli uomini lo nutrirono coi loro avanzi, e ogni volta che il giovane lupo si riempiva lo stomaco pensava di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però poi lo prendeva il sonno e lui rimandava ogni volta il ritorno, finché non dimenticò completamente la vita di branco, il piacere della caccia, l’emozione di dividere la preda con i compagni.

Cominciò ad andare a caccia con gli uomini, ad aiutare loro anziché i lupi con cui era nato e cresciuto. Un giorno, durante la caccia, un uomo sparò a un vecchio lupo che cadde a terra ferito. Il giovane lupo corse verso di lui per portarlo al suo padrone, e mentre cercava di prenderlo con i denti si accorse che era il vecchio capo branco. Si vergognò, non sapeva cosa dirgli. Fu il vecchio lupo a riempire quel silenzio con le sue ultime parole:

«Ho vissuto la mia vita come un lupo degno, ho cacciato molto e ho diviso con i miei fratelli tante prede, cosi adesso sto morendo felice. Invece tu vivrai la tua vita nella vergogna, da solo, in un mondo a cui non appartieni, perché hai rifiutato la dignità di lupo libero per avere la pancia piena. Sei diventato indegno. Ovunque andrai, tutti ti tratteranno con disprezzo, non appartieni né al mondo dei lupi né a quel lo degli uomini… Così capirai che la fame viene e passa, ma la dignità una volta persa non torna più».

Questa parte finale era la mia preferita, perché quelle parole del vecchio lupo erano un autentico distillato di filosofia criminale, e mentre nonno Kuzja le pronunciava ci rispecchiava dentro la sua vita vissuta, il suo modo di vedere e capire il mondo.

Mi sono tornate in mente qualche anno dopo, mentre con un treno mi stavano portando in un carcere minorile. Una guardia aveva deciso di sua volontà di distribuire dei pezzi di salame. Avevamo fame, e tanti si erano buttati avidamente su quel salame per divorarlo. Io l’avevo rifiutato, un ragazzo mi avevo chiesto perché e io gli avevo raccontato la storia del lupo indegno. Lui non mi aveva capito, ma quando siamo arrivati a destinazione la guardia che aveva distribuito il salame ha annunciato sul piazzale principale, davanti a tutti, che prima di darcelo lo aveva messo nel cesso.

Per questo motivo, secondo la regola criminale, tutti quel li che lo avevano mangiato erano stati «contagiati», e quindi erano passati nella casta più bassa della comunità criminale, automaticamente disprezzati da tutti ancora prima di entrare in carcere. Questo era uno dei giochetti che gli sbirri facevano spesso per sfruttare le regole criminali come un’arma contro i criminali stessi; gli riuscivano meglio con i minori, che spesso non sapevano che dalle mani di uno sbirro un criminale onesto non può prendere niente. Come diceva mio zio buonanima:

«Un criminale degno prende dagli sbirri solamente le botte, e pure quelle le ridà indietro, quando arriva il momento giusto».

Dunque, grazie all’improvviso aumento della mia autorità tra i miei amici, avevo iniziato a fare una specie di propaganda dell’educazione che ricevevo da nonno Kuzja. Lui era contentissimo, perché così riusciva a inquadrare tutti noi, attraverso uno solo dava a tanti la giusta base educativa per sviluppare il rapporto siberiano con la vita, per poter tramandare idee e ideali. Non a caso noi ragazzi del quartiere Fiume Basso venivamo chiamati da tutti gli altri «Educazione siberiana». Questo era il nome che era stato dato ai siberiani in esilio per via della loro fedeltà alle tradizioni criminali, per il loro spirito estremamente conservatore, a differenza di quello di altre comunità.

Nella nostra città ogni comunità criminale, soprattutto se composta da gente giovane, si distingueva dalle altre per qualche capo di abbigliamento particolare о per un modo diverso di portarlo. Si usavano anche dei simboli, che subito ti identificavano come appartenente a quella banda, quel quartiere о quel gruppo di connazionali. Molte comunità usavano marchiare il proprio territorio con disegni о scritte, ma questo mezzo di comunicazione sociale era parecchio malvisto dalle comunità potenti e antiche. Ad esempio i nostri vecchi ci avevano sempre vietato di scrivere о disegnare sui muri qualsiasi cosa, perché dicevano che era vergognoso e maleducato. Nonno Kuzja una volta mi aveva spiegato che la nostra comunità criminale non ha bisogno di affermare in nessuna maniera la sua presenza: esiste e basta, e la gente lo sa non perché vede ogni giorno delle scritte sui muri di casa sua, ma perché sente la nostra presenza, ed è certa di poter contare sempre sull’aiuto e la comprensione di noi criminali. Lo stesso discorso vale per un criminale singolo: anche se è un personaggio leggendario, si comporta come il più umile di tutti.

In altri quartieri era tutto diverso. I membri delle bande del Centro portavano dei ciondoli d’oro con una forma ben precisa, da cui si sentivano rappresentati. Ad esempio la banda gestita da un giovane criminale soprannominato «Pirata», che aveva costruito intorno a sé una specie di culto della personalità, si distingueva dalle altre per i ciondoli con il teschio e due ossa, come nella bandiera dei pirati. Un’altra banda del quartiere Ferrovia obbligava tutti i suoi membri a portare vestiti neri, per sottolineare la loro volontà di far parte della casta Seme nero. Gli ucraini del quartiere Balka invece si vestivano all’americana, о più spesso come gli afroamericani. Cantavano canzoni che sembravano senza senso, perché le parole venivano pronunciate cosi veloci che non si capiva un accidenti. E disegnavano dappertutto cose strane con bombolette spray; uno di loro una volta nel quartiere Riva aveva disegnato qualcosa sul muro di casa di una persona anziana, un vecchio galeotto, e per questo un criminale giovane, suo vicino, gli aveva sparato. Mi ricordo di aver commentato la cosa con nonno Kuzja: gli ho detto che secondo me ammazzare per un simile reato è ingiusto, si può chiedere un risarcimento per l’offesa e il dispetto, e poi si può sempre picchiare, dopo le botte una persona di solito capisce qualcosa. Lui non era d’accordo con me e mi ha detto che ero troppo umano, troppo umano e troppo giovane. Mi ha spiegato che quando i ragazzi prendono una strada sbagliata e non vogliono ascoltare i loro vecchi, nella maggior parte dei casi danneggiano se stessi e quelli che gli stanno intorno. I ragazzini ucraini stavano mettendo a rischio molti giovani di altri quartieri, che li avrebbero imitati, perché fare i maleducati è sempre più facile e più affascinante che seguire la strada della buona educazione: quindi gli ucraini, comportandosi così, avevano messo in dubbio il potere criminale e l’ordine nella nostra città. Per questo era necessario trattarli con crudeltà e severità totale, per far capire a tutti dove può portare la via della disobbedienza alle tradizioni. E aggiungeva:


    Ваша оценка произведения:

Популярные книги за неделю