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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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Nelle feste, e ogni volta che si beveva insieme, il pianto improvviso di Tomba era un segnale sicuro che in breve tempo lui avrebbe cercato di fare i conti con la propria esistenza: allora, secondo un regolamento da noi stabilito e approvato da Tomba stesso (che da sobrio nonostante tutti i suoi problemi psicologici aveva una grande voglia di vivere), gli toglievamo l’alcol, e in casi estremi arrivavamo anche a legarlo con una corda alla sedia.

Cosi anche quella volta, al Fischietto, mentre Tomba cercava di smettere di piangere pulendosi la faccia con un fazzoletto, Gagarin ha fatto un gesto al Gatto, che ha subito sostituito la bottiglia di vodka di fronte a Tomba con una bevanda dolce frizzante chiamata Burattino, una specie di Coca-Cola sovietica. Tomba ha smesso di piangere e si è scolato la bottiglia di Burattino, facendo alla fine un lungo e triste rutto.

Gagarin stava parlando con i nostri autisti, Makar chiamato «Lince» e Ivan detto «la Ruota». Avevano poco più di vent’anni, e tutti e due avevano appena terminato di scontare una condanna di cinque anni. Erano amici per la pelle, come si dice in Italia. Insieme avevano fatto molte rapine, e nell’ultima, dopo una sparatoria con la polizia, la Ruota era rimasto ferito e Lince non aveva voluto abbandonarlo: si era fatto arrestare anche lui, pur di restargli a fianco. Nella nostra missione, secondo le regole, loro non potevano aiutarci a comunicare con i criminali delle varie zone della città, ed era un peccato: sarebbe stato molto utile visto che eravamo tutti minorenni, e i criminali che non abbracciavano la nostra fede siberiana prendevano come un’offesa personale l’idea di trattare con i minori. Però Lince e la Ruota potevano consigliarci come muoverci, come trattare con gente che seguiva regole diverse dalle nostre, come sfruttare le particolarità di ogni persona e delle differenti comunità. Era importante, faceva parte della nostra educazione questo rapporto continuo tra giovani e adulti che spiegavano ogni singola situazione secondo la legge seguita dai nostri vecchi.

Mentre Gagarin ascoltava quello che avevano da dirgli Lince e la Ruota, gli altri hanno cominciato a parlare tra di loro: forse il pianto di Tomba ci aveva risvegliati tutti, e in qualche modo ci era servito per tornare a essere uniti e presenti.

All’improvviso Mei si è messo a raccontarmi una storia che ripeteva da quando aveva dieci anni ogni volta che era ubriaco; una sua fantasia infantile. Aveva conosciuto – sosteneva lui – una ragazza in riva al fiume, e le aveva promesso di portarla al cinema. Poi avevano fatto l’amore, e quando arrivava a quel punto della storia commentava sempre con le parole:

«Era come scopare una principessa». Poi partivano le descrizioni dettagliate del loro rapporto sessuale, dove Mei si presentava come un amante vigoroso ed esperto. La storia finiva con lei che piangeva sulla sua spalla e gli chiedeva di restare ancora un po’, e lui che, suo malgrado, doveva abbandonarla, perché faceva tardi per la pesca.

La balla più incredibile e stupida del mondo, ma dato che Mei era un amico lo ascoltavo con finto interesse e vera pazienza.

Mi parlava con tale trasporto che il suo unico occhio diventava sottile come una cicatrice. Accompagnava quel racconto con ampi gesti delle sue gigantesche mani, e ogni volta che una sua mano passava sopra la bottiglia di vodka io dovevo tenerla, per non farla cadere.

Osservando la nostra cena, mi sentivo come poteva sentirsi Giuda stando alla stessa tavola con Gesù Cristo. Anzi, no, mi sentivo inutile, un demente, un buono a nulla. Ero anch’io abbastanza ubriaco.

La cena, come succedeva sempre, si è trasformata in una specie di riunione di ubriachi. Non la smettevamo più di bere, e nonna Masa, per non farci ubriacare troppo, continuava a portarci i piattini con i cibi che da noi si usano come accompagnamento alla vodka.

Verso mezzanotte è tornato Begunok, con una notizia: un gruppo di ragazzi del quartiere Caucaso, proprio nelle ore in cui Ksjusa era stata violentata, aveva visto girare in Centro degli sconosciuti.

– Gente che, vicino alle cabine telefoniche, – ha detto Begunok serio, – dava fastidio a una ragazza.

Senza aspettare altro, siamo corsi alle macchine.

Caucaso era un quartiere vecchio quasi quanto il nostro. Si chiamava cosi perché molti dei suoi abitanti venivano dal Caucaso, ma anche per la sua posizione: stava su una serie di colline. I criminali di Caucaso appartenevano a diverse comunità, ma a governare su tutte era la cosiddetta «Famiglia Georgiana». Poi venivano gli armeni, che formavano il Kamascatoj, la criminalità organizzata armena, e infine gente di molte regioni: Azerbaigian, Cecenia, Daghestan, Kazakistan e Uzbekistan.

Georgiani e armeni andavano d’accordo, uniti anche dal fatto di essere due popoli caucasici di religione cristiana ortodossa, invece gli altri abitanti della zona erano musulmani о atei, ma di tradizione islamica. La comunità criminale dei georgiani e degli armeni aveva una struttura famigliare: per diventare un’autorità non c’era bisogno di guadagnarsi il rispetto degli altri come tra noi siberiani, bastava nascere nella famiglia giusta. I clan erano composti dai membri delle famiglie, e si occupavano di vari affari criminali, traffici illeciti, racket, piccoli furti e omicidi.

Per il loro modo di gestire le cose i georgiani non erano ben visti dalla nostra comunità: spesso i nostri criminali rifiutavano di comunicare con loro solamente perché quelli si presentavano come figli о parenti di qualche persona autorevole. Tra i siberiani un comportamento così è inaccettabile, perché da noi ognuno è valutato per quello che rappresenta come persona, le sue radici vengono al secondo posto; in Siberia ci si appella alla protezione della famiglia quando proprio non puoi farne a meno, solamente in caso di vita о di morte.

Insomma, per questi e altri motivi noi avevamo parecchie grane con la gente di Caucaso: se ci beccavamo da qualche parte in città, finiva in rissa e ogni tanto ci scappava qualche morto.

Due anni prima un nostro amico, Mitja detto «Giulie», che in gergo significa «piccolo criminale», ha accoltellato un georgiano perché quello lo aveva offeso parlando la lingua georgiana in sua presenza. Giulie lo aveva avvertito, dicendogli che stava comportandosi in maniera oltraggiosa, e quello gli aveva fatto capire che intendeva continuare a parlare georgiano perché disprezzava i russi, che aveva chiamato «occupanti». Era una provocazione di tipo politico, Giulie ha reagito accoltellandolo e lui più tardi è morto in ospedale. Dopo la sua morte i georgiani si sono rivolti ai vecchi criminali di Seme nero per ottenere giustizia, però il verdetto è stato contro di loro, perché secondo la legge criminale il georgiano aveva commesso due gravi errori: primo, si era dimostrato scortese con un altro criminale senza nessun motivo; secondo, si era permesso di fare un discorso politico, condannato dal regolamento criminale come una grave forma di offesa all’intera comunità criminale, perché la politica è roba da sbirri, e i criminali non devono avere niente a che a fare con quella merda.

Dopo quel verdetto i georgiani però non si sono per nulla calmati, hanno cercato di vendicarsi un paio di volte: prima hanno sparato a un nostro amico di nome Vasja, che per fortuna se l’è cavata, e poi in una delle discoteche della città hanno cercato di ammazzare Giulie. Hanno provocato una rissa per spingerlo a uscire fuori dalla discoteca, dove poi lo hanno aggredito in tanti. Quella volta per fortuna eravamo con lui, e ci siamo buttati in mezzo al casino coprendogli le spalle.

Mentre ci picchiavamo, abbiamo notato che contro Giulie continuavano a mandare dei «torpedo»: così si chiama un sistema per ammazzare una persona in particolare durante una rissa, fingendo che si tratti di un incidente. Alcuni, due о tre, vanno addosso come per sbaglio a quella persona – la vittima, definita «cliente» – e nella confusione danno la possibilità a un altro – il torpedo – di colpirla con precisione per ucciderla, dopo di che tutti si buttano di nuovo nella mischia e alla fine, se il torpedo è stato abile, nessuno si è accorto di niente e tutto è stato eseguito in modo veloce e professionale. La morte del cliente viene trattata come una normale conseguenza della rissa, e quindi dimenticata subito dopo, perché la rissa è considerata un modo estremo di ottenere soddisfazione e ogni partecipante sa fin dall’inizio i rischi che corre. Però se durante il casino qualcuno viene scoperto mentre manda avanti un torpedo, secondo il regolamento deve essere ucciso per aver violato le regole della rissa: quel gesto insomma viene letto come un autentico assassinio. L’omicidio premeditato di un collega, un criminale, è considerato una vigliaccheria. La dignità criminale dell’omicida muore in quel preciso momento e, come dice la legge criminale, «quando muore la dignità criminale, muore anche il criminale stesso».

Quella volta eravamo molti meno di loro. Volevano massacrarci e mandare il torpedo contro Giulie ma, purtroppo per loro, dopo un paio di minuti di questo circo accuratamente preparato per noi, sono intervenuti i ragazzi del Centro, il quartiere dove ci trovavamo. Esercitando il diritto di «proprietari» della zona, hanno ordinato di porre fine alla rissa.

Proprio in quel momento il torpedo dei georgiani si è buttato contro Giulie davanti a tutti, cercando di accoltellarlo, ma Giulie è riuscito a parare il colpo. Il torpedo è caduto a terra e si è messo a urlare qualcosa nella sua lingua, ignorando le richieste dei padroni della zona di calmarsi e mettere via il coltello. Alla fine ha persino tagliato la mano a un ragazzo del Centro, che gli aveva semplicemente chiesto di dargli il suo coltello.

A quel punto, diciamo dopo tre secondi, i georgiani sono stati attaccati in massa dalla gente del Centro, una trentina, e massacrati senza pietà.

Noi ci siamo scusati, spiegando la situazione, e ci siamo ritirati in buon ordine, portando a casa un sacco di botte e numerosi tagli.

Una volta arrivati a Fiume Basso abbiamo raccontato tutto al Guardiano. Per ottenere giustizia sui georgiani serviva un testimone esterno, non uno di noi. Per fortuna tre persone del Centro hanno testimoniato davanti alle vecchie autorità di aver visto il torpedo con i loro occhi.

Cosi dopo una settimana i siberiani hanno mandato nel quartiere Caucaso una spedizione punitiva, finita con la morte di otto georgiani che avevano partecipato al complotto contro Giulie.

Ovviamente questa brutta storia ha peggiorato parecchio i nostri rapporti con i georgiani, che già erano difficili.

I georgiani hanno cominciato a dire in giro che noi siberiani eravamo degli assassini e delle persone ingiuste.

Noi sapevamo di aver ragione e che la situazione si era risolta a nostro favore; del resto non ce ne fregava più di tanto.

A differenza dei georgiani, gli armeni erano nostri buoni amici. Erano molto più umili e semplici dei georgiani, chissà, forse anche per ragioni storiche, visto che sono stati sempre dominati da qualcuno; anche i loro nobili, che appartenevano a famiglie importanti, non erano arroganti о accecati dall’orgoglio. Con molti di loro facevamo affari. Gli armeni avevano grandi traffici, gestivano una parte del mercato delle pietre preziose insieme alla comunità criminale ebraica.

Io personalmente avevo legami con un ragazzo armeno di nome Spartak, nipote di un vecchio criminale chiamato Armen, buon amico di mio nonno, erano stati per molto tempo insieme nello stesso lager in Siberia.

Con le macchine ci siamo diretti verso un locale del quartiere Caucaso che si chiamava «Labirinto». Era una specie di bar-trattoria, con una sala dove si poteva giocare a biliardo e a carte.

Begunok era stato preciso: ci aveva detto che le persone che gli avevano raccontato la storia delle cabine telefoniche erano i figli del gestore di quel locale. Ed erano georgiani.

Siamo arrivati al Labirinto verso le due di notte, davanti era pieno di macchine e si sentivano fin da fuori le grida dei giocatori d’azzardo. Erano urla in georgiano, mescolate a una valanga di parolacce russe con finali modificati alla georgiana.

Siamo usciti dalle macchine – i nostri autisti ci avevano detto che avrebbero tenuto i motori accesi per sicurezza – e siamo entrati tutti insieme.

A ripensarci adesso mi viene la pelle d’oca: un branco di minorenni, di mocciosi, che non solo se ne vanno in giro spavaldamente in un quartiere pieno di gente che vuole la loro morte, ma che entrano pure in un locale stracolmo di criminali veri, ben pili pericolosi di loro. Eppure in quel momento non avevamo nessun timore: avevamo un compito da svolgere.

Appena abbiamo messo piede nel Labirinto ci è venuto incontro il figlio maggiore del gestore, un ragazzo di nome Mino. Lo conoscevo di vista, sapevo che era un tipo tranquil lo che si faceva gli affari suoi. Ci ha salutati, stringendo le mani a ciascuno di noi, poi ci ha invitato ad accomodarci a un tavolo. Ci siamo seduti e lui ha chiesto a una ragazza di portare vino e pane georgiano, offriva lui. Senza che neanche glielo chiedessimo ha cominciato a raccontarci quello che aveva visto in Centro.

Era con degli amici, tra cui tre ragazzi armeni, uno dei quali gestiva un banchetto di fiori al mercato, non lontano da lì. Stavano vicino alle cabine telefoniche (dove di solito la gente si dà appuntamento per incontrarsi), quando hanno visto una decina di giovani, ubriachi о drogati, che davano fastidio a una ragazza, attaccando briga in maniera molto maleducata e minacciosa. Uno degli armeni gli ha chiesto di smetterla e di lasciarla in pace, ma loro l’hanno insultato e uno gli ha pure mostrato la pistola, ordinandogli di levarsi dai piedi.

– A quel punto, – ci ha detto Mino, – abbiamo preferito ritirarci. E vero, abbiamo lasciato la ragazza nelle mani di quei balordi, ma solo perché non sapevamo bene chi erano. Avevamo paura che poi veniva fuori che magari erano legati alla gente del Centro, e chissà, potevano anche togliere il banchetto di fiori al mio amico…

Secondo la descrizione di Mino, però, la ragazza non sembrava essere la nostra Ksjusa.

Intanto la cameriera ci aveva portato al tavolo vino georgiano con il pane tipico, cotto in modo particolare, appiccicato ai muri del forno. Era buono, e noi abbiamo bevuto e mangiato con grande piacere insieme a Mino, parlando di tante cose. Anche dei rapporti tra noi e i georgiani.

Lui sosteneva che avevamo ragione noi, e che i suoi connazionali si erano comportati in maniera vergognosa, da traditori.

– E poi siamo tutti cristiani, no? – diceva. – Crediamo in Gesù Cristo. E siamo tutti criminali, anche, e la legge criminale vale per tutti, georgiani, siberiani, armeni…

Ci ha raccontato che la comunità georgiana da un po’ di tempo era spaccata in due. Una parte appoggiava un ricco e giovane georgiano di famiglia nobile che si faceva chiamare «il Conte». Questo Conte seminava l’odio verso i russi, impediva ai georgiani di sposarsi con russi e armeni, per sostenere la razza pura. Mino lo chiamava «Hitler» ed era molto arrabbiato con lui, diceva che aveva indebolito l’intera comunità. Il resto dei georgiani sosteneva invece un vecchio criminale che conoscevamo anche noi, perché veniva spesso a Fiume Basso: nonno Vano. Era un uomo saggio, aveva fatto tanta galera in Siberia ed era molto rispettato dalla comunità criminale. Piaceva soprattutto ai vecchi: tra i giovani non era tanto popolare perché impediva di godersi la bella vita, e faceva discorsi contro il nazionalismo che ai ragazzi non piacevano per niente.

Dal racconto di Mino abbiamo capito che la situazione era pili difficile di quanto poteva sembrare a prima vista, perché il distacco passava attraverso le famiglie, e molti figli, fratel li e padri si erano schierati da parti diverse della barricata. Una guerra in quelle condizioni era impossibile, allora tutto era come sospeso, il che secondo Mino era ancora più pericoloso di una guerra aperta.

A un certo punto nel locale sono entrate cinque persone. Erano giovani, non avevano più di venticinque anni, e si sono rivolti a Mino in georgiano. Lui si è alzato subito ed è andato da loro.

Sembravano abbastanza incazzati, e un paio di volte ho notato che c’indicavano. Prima hanno detto delle cose tutti insieme, poi si è messo a parlare il loro capo, un ragazzo magro con gli occhi che schizzavano fuori dalle orbite ogni volta che alzava la voce.

Mino però era tranquillo, stava appoggiato al bancone con un bicchiere di vino in mano e li ascoltava guardando il pavimento con faccia indifferente.

Il capo ha improvvisamente finito di parlare e se ne sono andati via tutti e cinque. Mino allora è corso verso il nostro tavolo e ci ha spiegato con voce spaventata che erano giovani della banda del Conte:

– Hanno detto che se non lasciate subito il quartiere tornano in tanti e vi ammazzano.

Dopo la calda accoglienza di Mino, quella minaccia sembrava una cosa irreale.

Muto, uno di noi, prima di alzarsi dal tavolo ha detto:

– Posso scommetterci la mano destra, fuori ci hanno preparato un’imboscata.

Muto era soprannominato cosi perché non parlava mai, ma quando parlava diceva quasi sempre cose vere. Una volta sono stato con lui tre giorni a pescare, e in tre giorni non ha pronunciato neanche un suono, giuro, neanche uno.

Gagarin ha dato il segnale di «prepararsi» a uscire dal locale. Tutti hanno messo le mani sotto il tavolo e uno dopo l’altro si sono sentiti i rumori dei caricatori delle pistole.

Mei mi ha dato una spinta, chiedendomi di prendere la pistola che mi stava allungando, ma io con la faccia indifferente l’ho rifiutata.

– Quando ti ammazzeranno, – ha commentato, – t’infilerò il tuo inutile coltello nel culo.

10 ho misteriosamente sorriso.

Abbiamo salutato Mino, che ci supplicava di usare l’uscita di sicurezza, ma noi siamo usciti dall’ingresso principale, da dove eravamo entrati.

Nel piazzale davanti al locale c’erano una quindicina di persone che ci aspettavano, riunite sotto il faro.

Mel e Gagarin sono andati avanti; dopo di loro с’ero io con Muto, poi gli altri. Ho visto Mei tirar fuori la sua Tokarev e contemporaneamente Gagarin nascondere dietro la schiena la mano con la sua Makarov. Io stringevo nella tasca della giacca la Nagant di nonno Kuzja.

Ci avevano bloccato la strada verso le macchine. I nostri autisti erano usciti fuori, e si erano messi a fumare tranquillamente seduti sul cofano.

Ci siamo fermati a qualche metro dai georgiani.

11 ragazzo magro, il loro capo, è venuto avanti, sfidandoci:

– Per voi è finita, non avete via di scampo.

Parlava con grande sicurezza. Nelle sue mani ho visto una pistola e dietro di lui c’era un altro con una doppietta.

– Se non volete guai, avete una sola possibilità: lasciare le armi e arrendervi.

Poi s’è messo anche a scherzare:

– Non siete un po’ troppo piccoli per giocare con le pistole?

In tutta tranquillità Gagarin gli ha spiegato il motivo della nostra visita, e ha sottolineato che non aveva niente a che fare con i rapporti tra georgiani e siberiani.

– E comunque, – ha ricordato Gagarin, – secondo la legge criminale in casi simili vengono pure fermate le guerre.

Ha fatto l’esempio di San Pietroburgo, quando per la caccia a un pedofilo che violentava e uccideva i bambini, si era fermata la sanguinosa guerra tra due bande – quella del quartiere Ligovka e quella dell’isola Vasil'ev – che si erano unite per la caccia al maniaco.

I georgiani a quel punto erano abbastanza confusi.

Ho notato che mentre Gagarin parlava al loro capo, molti avevano abbassato le armi e le loro facce erano diventate un po’ pensierose, vero segno dell’inizio di una sconfitta ottenuta solo con le parole, senza usare le armi.

Il georgiano però non si dava per vinto.

– E allora, – ha chiesto improvvisamente, – perché non vi siete rivolti al nostro Guardiano? Perché siete venuti di nascosto come serpenti?

Da una parte aveva ragione, dovevamo presentarci al loro Guardiano, perché fare le ricerche alle sue spalle era contro il regolamento criminale. Ma non teneva conto di due cose.

Primo: eravamo minorenni, e secondo la legge a noi «non c’era da chiedere niente», solo altri minorenni avrebbero potuto «chiederci», gli adulti non avevano nessun diritto su di noi. Per rispetto e piacere personale, noi potevamo anche seguire le regole e la legge criminale degli adulti, ma finché non eravamo maggiorenni, non facevamo parte della comunità criminale. Se un Guardiano, per dire, avesse portato il nostro caso a una vecchia autorità, questo gli avrebbe riso in faccia: tra siberiani in casi simili si usa dire che «i ragazzi sono come i gatti, vanno dove vogliono».

Il secondo errore che aveva commesso il georgiano era molto più grave, e rivelava che lui era una persona poco esperta nelle trattative, assolutamente incapace di applicare la diplomazia criminale. Ci aveva insultati.

L’insulto viene considerato da tutte le comunità un errore tipico della gente debole e poco intelligente, priva di dignità criminale. Per noi siberiani ogni tipo d’insulto è un reato, in altre comunità si fanno anche delle distinzioni, ma in generale un insulto è la via più diretta per la lama del coltello.

L’insulto contro una singola persona può essere «approvato»: cioè, se io ho insultato qualcuno e per questo mi hanno portato davanti a un anziano autorevole, dovrò spiegargli il motivo per cui l’ho fatto, e lui deciderà come sarò punito. La punizione avviene in ogni caso, ma se l’insulto è approvato non mi ammazzano e non mi «abbassano», cioè rimango me stesso e me la cavo con un avvertimento. L’insulto è approvato se ti è scappato per ragioni personali e in forma non grave: se ad esempio hai chiamato «stronzo» uno che ha fatto un danno alla tua proprietà. Se invece hai offeso il nome di sua madre, molto facilmente ti faranno saltare sulla lama.

Sono perdonati gli insulti fatti in stato di furia о di disperazione, quando qualcuno è accecato da un forte dolore, tipo se gli muore la madre о il padre о un amico molto vicino. In questo caso non si parla neanche di giustizia, si dice «era fuori di sé» e la cosa finisce li.

L’insulto però non è approvato quando si litiga per motivi di gioco d’azzardo о affari criminali, о per amore, о per relazioni d’amicizia: in quei casi l’uso di parolacce e frasi offensive può portare alla morte sicura.

Ma l’insulto più grave in assoluto è quello chiamato baklanka, quando viene offeso un gruppo о una comunità intera. Non ci sono spiegazioni che tengano: ti meriti la morte о l’abbassamento, cioè il trasferimento definitivo nella comunità degli abbassati, dei contagiati, come quelli che vivevano nel quartiere Barn.

Cosi fin da piccoli noi abbiamo imparato a «filtrare le parole», ad avere sempre il controllo di quello che ci usciva di bocca, per non commettere, neanche involontariamente, un errore. Perché secondo la regola siberiana, la parola volata via non può più tornare indietro.

L’insulto che ci aveva rivolto quel georgiano era abbastanza grave: aveva detto «siete venuti come serpenti», e quindi aveva offeso tutti quanti.

Cosi abbiamo recitato la tipica scena che in gergo si chiama «acquisto». E uno dei tanti trucchi che si usano tra criminali per concludere in modo favorevole una trattativa; noi siberiani siamo maestri in questi trucchi. Il principio dell’«acquisto» è quello di convincere l’avversario del suo torto, e farlo cedere piano piano, per poi terrorizzarlo definitivamente e prendere il totale controllo sulla situazione, che in gergo si dice appunto «acquistare».

Tutta la nostra banda, seguendo l’esempio di Gagarin, ha dato le spalle ai georgiani. Questo gesto li ha fatti disperare, perché significava che gli avevamo tolto tutti i diritti della comunicazione criminale, anche quello di far scoppiare una rissa.

Si usa dare la schiena alle persone definite «rifiuti», ai poliziotti о agli infami. Insomma, a quelli che disprezzi a tal punto da pensare che non meritano nemmeno una pallottola. Ma se dai la schiena a un altro criminale, è un’altra storia: stai lanciando un segnale preciso, gli stai dicendo che il suo comportamento lo ha espulso dalla dimensione della dignità criminale.

D’altra parte girarsi è sempre un rischio, perché un vero criminale non aggredirà mai qualcuno che gli sta dando le spalle, ma se è uno che s’intende poco di relazioni criminali, о se è un infame, ti puoi beccare una pallottola nella schiena.

Stando sempre voltati, Gagarin ha spiegato ai georgiani che avevano commesso un grave errore di comportamento: avevano offeso i minorenni di un altro quartiere mentre stavano svolgendo un compito sacro per la loro comunità, un compito che doveva essere rispettato da ogni comunità criminale.

– Rinuncio alla responsabilità di condurre trattative con voi, – ha aggiunto. – E se volete spararci alla schiena fate pure. Altrimenti ritiratevi. Nei prossimi giorni presenteremo la questione alle autorità di Fiume Basso, per chiedere giustizia.

Gagarin ha concluso con un colpo da maestro: ha chiesto i loro nomi. In questo modo ha sottolineato un altro errore commesso dai georgiani, poco grave ma abbastanza significativo. I criminali dignitosi si presentano, si salutano e si augurano ogni bene anche prima di ammazzarsi.

Il georgiano non ha risposto subito: era evidente che l’acquisto stava funzionando. Poi si è presentato come il fratel lo di un altro, un criminale giovane molto vicino al Conte, e ha detto:

– Per questa volta vi lascio andare, ma solo per non complicare le relazioni già difficili tra le nostre comunità.

– Beh, – l’ha rimbeccato Gagarin con ironia, – mi pare che tu hai fatto già abbastanza per appesantire la situazione: tua e di chi sta sopra di te.

Senza salutarli siamo andati verso le nostre macchine. Quando siamo ripartiti erano ancora lì, sotto il faro, a parlottare tra di loro. Evidentemente non riuscivano ancora a capire cos’era successo.

Ma tutto gli si sarebbe chiarito ben presto.

Per l’esattezza tre giorni dopo, quando Gagarin, io, Mei e Muto abbiamo fatto formalmente «richiesta» a nonno Kuzja per offesa del gruppo e minacce.

Dopo le trattative diplomatiche con i criminali di varie zone della città, quei balordi sono stati puniti dagli stessi georgiani, stanchi del pesante boicottaggio da parte delle comunità di altri quartieri. So di preciso che della gente del Centro ha minacciato di chiudere tutti i negozi che i georgiani gestivano nella loro zona.

Il ragazzo magro che aveva parlato con noi è scomparso nel nulla. Qualcuno diceva che era stato sepolto in una doppia tomba: era cosi che si nascondevano i cadaveri scomodi, mettendoli nella stessa tomba di un altro. Era un modo sicuro per far sparire la gente. Nella tomba di un vecchietto qualsiasi potevano esserci più persone date per disperse dalla loro stessa comunità.

Lasciato Caucaso, abbiamo puntato verso il Centro, dove volevamo raccogliere altre informazioni sugli strani aggressori visti da Mino e dai suoi amici. Bisognava scoprire se c’entravano qualcosa con il nostro tristissimo e disperato caso.

La strada tra Caucaso e il cuore di Bender passava da un quartiere chiamato Balka, che in russo significa semplicemente «trave di legno», ma in gergo criminale vuol dire cimitero. Si era guadagnato quel nome per il semplice fatto che una volta li si trovava il vecchio cimitero ebraico polacco. E proprio attorno al cimitero – mi raccontava mio nonno – era nato e poi si era allargato, dagli anni Trenta in poi, il quartiere ebraico.

Non potevo passare per Balka senza ricordare ogni volta la storia bellissima e terribile che mi raccontava mio nonno. E che adesso racconto a voi.

La guida spirituale della comunità ebraica di Balka era un anziano che si chiamava Moisa. Secondo la leggenda era stato il primo ebreo ad arrivare in Transnistria, e grazie al suo carattere e alla forte personalità si era guadagnato la stima di tutti. Aveva tre figli maschi e una figlia femmina, come si dice da noi «da sposare», cioè una giovane donna che non aveva nessun compito sociale tranne quello di badare alla casa e imparare a obbedire al futuro marito, crescere i suoi figli e, sempre come diciamo noi, a «tossire nel pugno», cioè dimostrare sottomissione totale.

La figlia del rabbino si chiamava Zilja, ed era una ragazza molto bella, con due grandi occhi azzurri. Aiutava la madre a gestire un negozio di stoffe in Centro, e parecchi clienti entravano solo per la gioia di stare un attimo con lei. Molte famiglie ebraiche avevano fatto al rabbino domanda di matrimonio per i loro figli, ma lui non accettava nessuno, perché tanti anni prima, quando Zilja era appena nata, aveva già promesso la sua mano a un giovane di Odessa, figlio di un suo amico.

Tra ebrei si usava fare matrimoni combinati, su iniziativa dei padri delle famiglie interessate a unire la loro stirpe; in queste tristi occasioni gli sposi non sapevano niente l’uno dell’altra, e raramente erano d’accordo con la scelta dei loro genitori, ma non osavano contraddirli e soprattutto non osavano andare contro le tradizioni: anche perché chi lo faceva sarebbe stato espulso dalla comunità per sempre. Così accettavano con grande dolore il loro destino, e tutta la loro vita diventava un’eterna tragedia. Era un’usanza così nota che anche tra noi siberiani ironizzavamo sull’infelicità delle donne ebree, chiamando qualunque situazione disperata e triste «moglie ebrea».

Zilja sembrava già bell’e convinta. Come un’ebrea perfetta accettava, senza ribellarsi al padre, l’idea del matrimonio con un uomo che aveva vent’anni più di lei e – a quanto si diceva – anche molti difetti.

Finché un giorno nel negozio non è entrato Svjatoslav', un giovane criminale siberiano appena arrivato in Transnistria. Faceva parte della banda di un famoso criminale chiamato «Angelo», che per più di dieci anni aveva terrorizzato i comunisti rapinando treni in Siberia. Svjatoslav' era rimasto ferito in uno scontro a fuoco, e i suoi amici lo avevano mandato in Transnistria per la convalescenza. Gli avevano dato del denaro per la comunità dei siberiani, che lo aveva accolto senza problemi. Svjatoslav' non aveva famiglia, i suoi genitori erano morti. Per farla breve, Svjatoslav' si è innamorato di Zilja, e anche lei si è innamorata di lui.


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