Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
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Per non andare contro le regole umane, si è presentato a casa del rabbino Moisa e gli ha chiesto la mano di sua figlia, ma quello lo ha trattato male, pensando che era un poveraccio perché aveva un aspetto modesto, e seguendo la legge siberiana non manifestava il suo benessere.
Dopo aver subito quelPumiliazione, Svjatoslav' si è rivolto al Guardiano di Fiume Basso, che a quei tempi era un criminale di nome Sidor, chiamato «Zampa di lince», un anziano Urea siberiano. Dopo aver ascoltato la questione, Zampa di lince ha pensato che l’ebreo poteva essersi comportato cosi perché forse aveva avuto dei dubbi sulle possibilità economiche di Svjatoslav', e allora gli ha suggerito di non disperarsi, di tornare dal rabbino con dei gioielli da offrire in regalo alla figlia.
L’usanza siberiana vuole che sia lo sposo stesso a fare domanda di matrimonio, ma accompagnato da qualcuno di famiglia о in casi estremi da un vecchio amico. Cosi, per rispettare la legge, Zampa di lince ha proposto a Svjatoslav' di accompagnarlo lui stesso in quel suo secondo tentativo. Si sono presentati a casa del rabbino con molti gioielli preziosi, e hanno spiegato nuovamente la questione, ma per la seconda volta il rabbino li ha maltrattati, permettendosi persino di offender li. Prendendo i gioielli in mano ha fatto finta di bruciarsi il palmo, facendoli cadere per terra, e quando gli ospiti gli hanno domandato che cosa Г aveva scottato, lui ha risposto:
«Il sangue umano di cui sono coperti».
I due siberiani se ne sono andati, sapendo già cosa fare. Zampa di lince ha dato a Svjatoslav' il permesso di portare a vivere nel quartiere siberiano la figlia del rabbino, se lei era d’accordo.
La bella Zilja è fuggita di casa la notte stessa. Per la legge siberiana non doveva portare nessun bene dalla casa del padre all’infuori di se stessa, cosi Svjatoslav' le aveva procurato persino dei vestiti per la fuga.
II giorno dopo il rabbino ha mandato dei criminali ebrei a trattare con i siberiani. Zampa di lince ha spiegato a quegli uomini che secondo la nostra legge ogni persona che raggiunge i diciotto anni è libera di fare quello che vuole, ed è un grande peccato opporsi, soprattutto quando si parla della formazione di una nuova famiglia e di amore, che sono due cose volute da Dio. Gli ebrei hanno voluto dimostrare la loro prepotenza e hanno minacciato di morte Zampa di lince. A quel punto lui non ci ha più visto, ne ha ammazzati tre all’istante con una sedia di legno; all’ultimo ha rotto un braccio e lo ha mandato dal rabbino Moisa con queste parole:
«Chi nomina la morte non sa che quella è più vicina a lui».
Dopo, si è scatenato l’inferno. Moisa, trovandosi davanti a siberiani di cui non sapeva niente, se non che erano assassini e rapinatori molto uniti tra loro, non aveva possibilità di sfidarli sul loro terreno, così ha chiesto aiuto agli ebrei di Odessa.
I capi della comunità ebraica di Odessa, gente molto ricca e potente, hanno organizzato una riunione per scoprire da quale parte stava la verità, e come poteva essere fatta giustizia. A quella riunione erano presenti tutti, compreso Svjatoslav', Zilja e Moisa.
Dopo aver ascoltato le due parti, gli ebrei hanno provato a dare la colpa a Svjatoslav', accusandolo di aver rapito la figlia di Moisa, ma i siberiani hanno risposto che secondo la legge siberiana lei non era stata rapita, perché se n’era andata di sua volontà, e a dimostrarlo era il fatto che aveva lasciato nella casa paterna ogni cosa che la legava a quel posto.
Moisa ha replicato che invece una cosa se l’era portata via: un nastrino colorato con cui si legava i capelli. Era vero, Zilja aveva dimenticato di toglierselo, e la moglie di Moisa l’aveva notato.
Un particolare così piccolo è riuscito a girare la situazione contro i siberiani. Secondo le nostre regole, ora bisognava restituire subito la ragazza al padre. Ma c’era un ma.
Zilja – hanno detto i siberiani – si era già sposata con Svjatoslav', e per farlo si era convertita alla fede ortodossa ed era stata battezzata con la Croce Siberiana: quindi, stando alle nostre leggi, su di lei non potevano più allargarsi i poteri dei genitori, visto che erano di fede diversa dalla sua.
Però, se Moisa voleva convertirsi anche lui alla fede ortodossa, la sua parola a quel punto avrebbe avuto un altro peso…
In preda alla rabbia, Moisa ha tentato di colpire Svjatoslav' con un coltello, ferendolo.
E li ha commesso un errore gravissimo: ha violato la pace in una riunione criminale, cosa che andava punita con l’impiccagione immediata.
Moisa, per togliersi la vita, ha deciso di usare quel nastro di stoffa che sua figlia portava nei capelli. E morto maledicendo Zilja e suo marito, augurando ogni male ai loro figli, ai figli dei loro figli e a tutti quelli che gli volevano bene.
Poco dopo, Zilja si è ammalata. Stava sempre peggio, nessuna medicina riusciva a guarirla. Svjatoslav' allora l’ha portata in Siberia, per farla vedere a un vecchio sciamano della tribù dei Nency, popolo di aborigeni siberiani che con i criminali siberiani, gli Urea, avevano legami molto stretti.
Lo sciamano ha detto che la ragazza soffriva perché uno spirito cattivo la teneva sempre nel gelo della morte, togliendole il calore della vita. Per fermare lo spirito, bisognava bruciare il posto che lo legava ancora a questo mondo. Così Svjatoslav', tornato in Transnistria, ha dato fuoco con l’aiuto di altri siberiani alla casa del rabbino Moisa, e in un secondo tempo anche alla sinagoga.
Zilja è guarita e loro due hanno vissuto ancora per tanto tempo nel nostro quartiere. Hanno avuto sei figli: due assassini di poliziotti, che sono morti in galera da giovani; un ragazzo che è andato a vivere a Odessa, e con il tempo ha messo in piedi un grande traffico di vestiti contraffatti (questo è stato il più fortunato di tutti i suoi fratelli); gli altri tre invece vivevanovnel nostro quartiere, si occupavano di rapine, e il più piccolo, Zora, faceva parte della banda guidata da mio padre.
Da vecchi, Svjatoslav' e Zilja sono andati a finire la loro vita nella Taiga, come da sempre avevano desiderato.
Dopo l’incendio alla sinagoga da parte dei siberiani, molti ebrei hanno abbandonato il quartiere. Gli ultimi di loro sono stati deportati dai nazisti ai tempi della Seconda guerra mondiale, e di quella comunità è rimasto solamente il vecchio cimitero.
Abbandonato a se stesso per anni, è diventato un posto desolato, dove si buttava l’immondizia, e i ragazzini andavano ad azzuffarsi. Le tombe sono state saccheggiate da alcuni rappresentanti della comunità moldava, che arrivavano a fare quest’oltraggio ai morti solamente per ricavare ornamenti di pietra da usare come decorazioni dei cancelli delle loro case: da questa usanza è nato un modo di dire molto offensivo, secondo cui «l’anima di un moldavo è bella come il cancello di casa sua».
Negli anni Settanta dentro il vecchio quartiere ebraico hanno cominciato a costruire le case gli ucraini. Li vivevano molte ragazze leggere, con cui spesso facevamo dei festini. Per possedere una ragazza di Balka bastava offrirle da bere, perché non avendo un’educazione rigida come le ragazze di Fiume Basso quelle prendevano i rapporti sessuali come un divertimento, ma come spesso succede in questi casi il loro comportamento troppo aperto si trasformava in una forma di malessere, e molte di loro rimanevano intrappolate nella loro stessa libertà sessuale. Di solito cominciavano ad avere rapporti all’età di quattordici anni, о anche prima. Verso i diciotto ognuna di loro era già conosciuta da tutta la città, agli uomini faceva comodo avere donne sempre pronte ad andare a letto con loro, senza chiedere niente in cambio. Era un gioco, che durava finché l’uomo non si stufava di una e passava a un’altra.
Diventando adulte, molte delle ragazze di Balka si rendevano conto della loro situazione e sentivano un grande vuoto, desideravano formare anche loro una famiglia, trovare un marito e diventare come tutte le altre donne, però ormai non era più possibile: la comunità le aveva marchiate per sempre, nessun uomo degno avrebbe mai potuto sposarle.
Quelle povere anime, accorgendosi che non potevano più provare le emozioni positive date da una vita semplice, si suicidavano in una quantità spaventosa. Questo fenomeno delle ragazze suicide era abbastanza scioccante per la nostra città, e quando molti uomini si sono accorti dell’origine di quella disperazione, hanno rifiutato di avere rapporti con loro, per non partecipare al processo di distruzione di quelle vite.
Conoscevo un vecchio criminale del Centro chiamato Vitja, detto «Canguro» perché in gioventù era stato ferito alle gambe in una sparatoria e da allora aveva una camminata tutta particolare, fatta di tanti piccoli salti. Era proprietario di numerosi night in varie città della Russia, e da sempre aveva un debole per le ragazze di Balka. Ebbene, dopo i primi casi di suicidio Canguro è stato il primo a intuire la vera portata del problema, e ha promesso davanti a molte persone di non cercare più la loro compagnia, proponendo anche di parlarne apertamente con i famigliari delle ragazze. Ma gli ucraini avevano una strana idea della dignità: lasciavano che le loro figlie si mettessero in situazioni compromettenti, poi però facevano finta di non saperne niente e s’incazzavano se qualcuno gli diceva la verità. Per questo motivo molti di loro hanno preso male l’iniziativa di Canguro e di quelli che la pensavano come lui, dicendo che si trattava di un complotto per portare disonore nel loro quartiere. In seguito ci sono stati pessimi sviluppi: alcuni padri sono arrivati a uccidere con le loro stesse mani le figlie, solamente per far vedere agli altri che non accettavano nessun tipo d’interferenza.
La situazione non faceva che peggiorare, anche a causa dello spaventoso consumo di alcol della gente del quartiere. Gli ucraini bevevano tanto, come tutto il resto della popolazione sovietica, certo, ma loro in maniera particolarmente smodata, senza il filtro della tradizione e senza l’ombra di una moralità. In Siberia l’alcol si beve seguendo regole ragionevoli per non danneggiare in modo irreparabile la propria salute: per questo la vodka siberiana è fatta solamente di grano, ed è purificata dal latte, che trattiene i residui della lavorazione, in modo che il prodotto finale abbia una purezza perfetta. Inoltre la vodka dev’essere bevuta solamente mangiando (in Siberia si mangia tanto e i piatti sono molto conditi, perché si bruciano parecchi grassi per resistere al freddo e conservare le vitamine durante l’inverno): se si mangiano i piatti giusti, si può arrivare a consumare un litro di vodka a persona senza problemi. Invece in Ucraina bevono vodka di diverse qualità, estraggono l’alcol dalle patate о dalla zucca, e le sostanze zuccherine rendono subito ubriachi. I siberiani non si ubriacano mai troppo, non svengono e non vomitano, gli ucraini invece si ubriacano fino a perdere i sensi, e ci mettono anche due giorni a riprendersi da una sbornia.
Cosi, il modo di vivere di Balka – il quartiere un tempo ebraico e poi ucraino – somigliava a una festa continua, però una festa dall’aria triste, con dentro una nostalgia per qualcosa di semplice e umano che quella gente non riusciva più ad avere.
Mio nonno diceva sempre che questo succede quando gli uomini vengono dimenticati da Dio: rimangono vivi, ma non sono più vivi. Io invece pensavo che si trattava di una forma estrema di degrado sociale di cui soffriva l’intera comunità. Forse perché i giovani arrivati a vivere nella nostra città si erano staccati violentemente dai loro genitori ed erano rimasti abbandonati a se stessi: senza nessuna forma di controllo, si erano bruciati dandosi a ogni vizio. E senza l’appoggio dei vecchi, educavano male i loro figli.
I figli maschi degli ucraini infatti avevano una brutta reputazione di mammoni, e di persone incapaci di fare qualcosa di utile per sé о per gli altri. A Bender nessuno si fidava di loro perché avevano l’abitudine di raccontare un sacco di bugie per farsi belli, ma lo facevano con tale goffaggine che nessuno poteva cascarci: ci limitavamo a trattarli come dei poveri scemi. Alcuni di loro hanno persino tentato di prosperare inventandosi delle leggi inesistenti: ad esempio che un fratello poteva costringere la sorella a prostituirsi. Lo sfruttamento della prostituzione era da sempre considerato un reato indegno di un criminale: la gente processata per quel tipo di crimine veniva ammazzata in galera; spesso anche in libertà, a dire il vero, ma era raro che uscissero vivi dalla prigione. Gli ucraini non capivano nemmeno questo fatto, giravano per i quartieri della città cercando inutilmente di entrare nei locali: tutte le porte per loro erano sempre chiuse, dato che i soldi che volevano spendere erano guadagnati in maniera indegna. Loro tiravano avanti senza chiedersi niente, creando un distacco sempre più profondo tra la loro comunità e il resto della città.
II quartiere Balka era attraversato da una sola strada, dove c’era il chiosco di un vecchio criminale ucraino di nome Stepan che vendeva sigarette, bevande e ogni tanto qualche droga, di solito roba da fumare. Da lui si potevano comprare anche armi e munizioni provenienti dalle basi militari ucraine, che si procurava con l’aiuto di suo fratello maggiore, militare di carriera.
Stepan era paralizzato a metà, perché una volta aveva bevuto alcol chimico destinato a uso tecnico. Raccontava sempre quel giorno terribile scherzandoci sopra: mentre sentiva che la parte sinistra del suo corpo stava per perdere la sensibilità – diceva – aveva fatto in tempo a spostare il suo «membro onorario» sul lato destro, salvandolo.
10 mi fermavo spesso a fare due chiacchiere con lui, perché mi faceva piacere vedere come riusciva a mostrare la sua voglia di vivere e il suo buon umore anche nella sua abbastanza disperata situazione. Restava seduto tutto il giorno sulla sedia a rotelle, sotto un grande ombrellone, davanti al chiosco, a parlare con la gente che passava. Aveva una figlia – forse l’unica brava ragazza che c’era in quel quartiere – che lo accudiva, e che studiava per diventare architetto. Sua moglie lo aveva lasciato poco prima che lui rimanesse paralizzato; era scappata con il suo amante, un infermiere giovane. Io rispettavo Stepan per il semplice fatto che era riuscito a educare sua figlia rimanendo se stesso, una persona semplice e ignorante, ma a giudicare dai risultati una brava persona, capace di trasmettere la sua bontà naturale agli altri.
11 suo chiosco era sempre aperto, di giorno lo gestiva lui, ogni tanto con l’aiuto della figlia, di notte c’era il suo fedele aiutante, un ragazzo di nome Kiril, che tutti chiamavano «Nixon» perché era fissato coi presidenti americani. Molti dicevano che era ritardato, ma io credo che lui semplicemente si prendeva il suo tempo per fare le cose. Stepan lo pagava con cibo e sigarette. Nixon fumava, e lo faceva in modo spettacolare: sembrava un attore. Aveva anche un cane, un bastardino brutto, piccolo e assolutamente antipatico, che con un muso umile e buono ti mordeva le caviglie quando meno te l’aspettavi. Nixon lo chiamava «il mio segretario», о in alcune occasioni «caro signore»; altro nome, quel cane non aveva.
Se attaccavi discorso con Nixon, lui prendeva a parlare male dei comunisti, diceva che volevano distruggere il suo Paese, li chiamava «sporchi terroristi», sosteneva che non si fidava di nessuno tranne che del suo «segretario», che in quelle occasioni dimostrava la sua fedeltà sbattendo contro la gamba del padrone la sua piccola coda schifosamente spelacchiata.
«Gli arabi hanno rotto i coglioni, – diceva, – e Fidel Castro bisognerebbe ammazzarlo ma è impossibile. E lo sai perché? Quello si è nascosto in Siberia protetto dai comunisti. A Cuba hanno messo un sosia che non gli assomiglia per niente, perché ha la barba troppo finta e fuma i sigari senza inspirare il fumo».
Nixon era fatto così. «E la bandiera americana lo sai cosa rappresenta? – chiedeva. – Te lo dico io, un comunista morto. Le stelle sono il suo cervello andato in pezzi dopo che gli hanno sparato in testa, e le strisce bianche e rosse sono la sua pelle insanguinata».
Ce l’aveva anche con i neri, diceva che la loro presenza aveva fermato il progresso della democrazia, e confondeva Martin Luther King con Michael Jackson, sostenendo che «era un negro buono, gli piaceva ballare e cantare», ma altri negri lo avevano ucciso solo perché quello un giorno aveva voluto diventare bianco.
Quando ci siamo avvicinati al chiosco, abbiamo trovato Nixon seduto come sempre sulla sua poltrona presidenziale, che giocava a Tetris. Sono uscito dalla macchina per primo, e lui, quando mi ha visto, si è messo a correre verso di me per salutarmi, come faceva con quelli che gli stavano simpatici. L’ho abbracciato e gli ho chiesto di svegliare Stepan, visto che si trattava di una cosa urgente. Lui allora si è subito messo a correre verso casa sua, che era a poche decine di metri da H.
Va detto che Nixon non sopportava la presenza del mio amico Mei: per motivi inspiegabili diceva che era una spia, una volta gli aveva anche dato due botte con una spranga, perché era spaventato a morte da lui. Cosf avevo detto a Mei di restare in macchina e di non farsi vedere, per non creare casini nel cuore della notte. Però, mentre Nixon era andato a chiamare Stepan, Mei era uscito dalla macchina per fare i suoi bisogni nei cespugli vicini. E mentre Mei urinava, pro-ducendo un rumore simile a quello di una seria cascata, Nixon è arrivato, spingendo la sedia a rotelle dov’era seduto Stepan, ancora mezzo addormentato.
Siccome io conoscevo Stepan meglio degli altri, a parlare con lui sono rimasto solo io, insieme a Muto; gli altri aspettavano nelle macchine о bevevano birra davanti al chiosco.
Stepan doveva aver capito che era in gioco una cosa importante, perché non scherzava come al solito. Mi sono scusato per averlo svegliato a quell’ora, e gli ho raccontato la nostra triste storia. Mentre parlavo vedevo la metà viva della sua faccia diventare una specie di maschera, come quelle che usano i giapponesi per rappresentare i loro demoni.
Era arrabbiato. Quando ho accennato alla ricompensa, lui ha fatto un gesto di disprezzo con la mano e ha detto che aveva qualcosa da darci. Ha chiamato Nixon e gli ha dato un ordine: quello è sparito ed è tornato dopo qualche minuto con una scatola di cartone tra le mani. Stepan me l’ha passata, dicendo che lui era una persona umile e povera e non poteva darci niente di più, però nel suo piccolo questa era la cosa più bella e utile che avesse.
Ho aperto la scatola: dentro c’era una Steckin con silenziatore e stabilizzatore, e sei caricatori pieni. Un’arma magnifica e abbastanza cara: l’unica pistola fatta in Urss che potesse sparare a raffica, con venti colpi nel caricatore.
L’ho ringraziato e gli ho detto che se lui era d’accordo gliela pagavo volentieri, ma Stepan ha rifiutato dicendo che andava bene cosi, purché raccontassi del suo gesto ai nostri vecchi. Mi ha promesso che avrebbe tenuto le orecchie aperte, e che se sentiva qualcosa d’interessante mi faceva sapere subito. Prima di andarmene, ho tentato almeno di pagare quello che avevano consumato i ragazzi al suo chiosco, qualche birra, sigarette e roba da mangiare, ma di nuovo non c’è stato verso. Allora ho infilato un po’ di soldi nella tasca di Nixon, che tutto contento ci ha salutato con la mano come un bambino, mentre noi salivamo sulle macchine.
Duecento metri più avanti ci aspettava Mei, che per evitare lo scontro con Nixon era passato attraverso i cespugli ed era arrabbiato, perché nel buio si era graffiato tutta la faccia.
La pistola di Stepan non la voleva prendere nessuno, perché – come è saltato fuori – ognuno ne aveva già con sé almeno un paio. Allora l’ho presa io.
Ci stavamo avvicinando al Centro, e il buio della notte diventava sempre più trasparente: stava spuntando il giorno, il secondo giorno delle nostre ricerche.
In macchina ho dormito un po’, senza sognare niente di preciso, come se fossi caduto in un vuoto. Quando mi sono svegliato eravamo già in Centro, le macchine erano ferme nel cortile di una casa. Tranne me e Mei, che stava ancora dormendo, i ragazzi erano tutti fuori, parlavano con due persone vicino a un portone.
Sono uscito dalla macchina e mi sono avvicinato agli altri. Ho chiesto a Tomba che stava succedendo e lui mi ha risposto che quei due con cui stava parlando Gagarin erano aiutanti del Guardiano del Centro.
– E cos’hanno detto?
– Che non sanno niente di quello che è successo davanti alle cabine telefoniche. Che non hanno mai sentito parlare di sconosciuti che hanno importunato una ragazza nel loro quartiere.
Poco dopo i due si sono allontanati.
– E allora? – ho chiesto a Gagarin.
– Per loro a questo punto è una sfida, ammettere di non saperne niente è come ammettere di essere fuori dai giochi. Possono anche pagarla cara, se le cose stanno cosi. Insomma, ci hanno chiesto di dargli il tempo per verificare tutto. E di non informare il Guardiano, per ora. Hanno assicurato la loro completa collaborazione. Abbiamo appuntamento per mezzogiorno sotto il ponte vecchio.
Cosi siamo risaliti in macchina e abbiamo deciso di andare a fare colazione in un locale chiamato «Blinnaja» nel quartiere La Riva.
La Riva si trovava nella parte più bella della città, dove c’era un grande parco sul fiume con spiagge e posti dove ti potevi rilassare e trascorrere piacevolmente le ore. I ristoranti, i locali e i night più cari della città stavano tutti IL C’era anche una bisca clandestina, dove si entrava solamente su invito.
Il quartiere era gestito da vari criminali di Bender, ed era una specie di attrazione turistica: veniva molta gente da Odessa, ricchi ebrei e vari commercianti, perché andava molto di moda respirare un po’ di profumo di criminalità esotica. Ma ai veri criminali della città era vietato risolvere questioni personali alla Riva; se qualcuno creava qualche problema о faceva un po’ di casino era solo una sceneggiata fatta apposta per gli ospiti, per fargli credere di essere finiti in un posto malfamato: un modo per farli sentire un po’ in pericolo, giusto per alzargli l’adrenalina. In realtà, nessuno ha mai fatto niente di serio in quel quartiere.
Alla Blinnaja facevano le crepe più buone di tutta la città. Le crepe in Russia si chiamano blinì, e ognuno li fa a modo suo: i più buoni sono quelli dei cosacchi del Don, che aggiungono lievito nell’impasto e poi bruciano velocemente il tutto sulle padelle roventi, unte con il burro, così i blini vengono spessi e molto grassi, croccanti e con un gusto indimenticabile.
Lì alla Blinnaja si mangiavano alla maniera siberiana, con la panna acida mischiata col miele, bevendo tè nero con il limone.
Eravamo abbastanza stanchi, nel locale c’era un po’ di gente, abbiamo ordinato una cinquantina di blini, tanto per iniziare (un russo consuma in media almeno quindici blini alla volta, e quelli come Mel e Gagarin anche il triplo). In tre minuti il piatto era vuoto. Li abbiamo riordinati più volte. Prendevamo il tè direttamente dal samovar fisso sul tavolo, ogni tanto passava il cameriere ad aggiungerci l’acqua. Da noi è così: il tè in molti locali si beve a volontà, ogni persona, indipendentemente da quello che ordina, può bere tanto tè quanto ce ne sta dentro di lui, ed è gratis.
Mangiando e bevendo, abbiamo fatto il punto della situazione. Il morale del gruppo era abbastanza alto, come del resto il nervosismo e il desiderio di giustizia.
– Non vedo l’ora di spezzargli la colonna vertebrale, a quel bastardo che l’ha violentata, – ha detto Muto.
Ho pensato che la nostra situazione doveva essere davvero particolare, visto che era la seconda volta in due giorni che Muto parlava.
E subito dopo ho pensato che eravamo proprio una strana compagnia. Ho pensato alle storie che ognuno di noi aveva alle spalle. Gigit e Besa, soprattutto.
Gigit era figlio di un criminale siberiano e di una donna armena, morta quando lui aveva poco più di sei anni, ammazzata da uno dei suoi fratelli, perché sposando un criminale siberiano aveva offeso il nome della famiglia.
Era un ragazzo in gamba, con un forte senso della giustizia: nelle risse si buttava sempre tra i primi e per questo aveva addosso un sacco di cicatrici. Un paio di volte era rimasto ferito abbastanza gravemente, e una di quelle volte gli avevo donato il mio sangue, che è compatibile con tutti i gruppi: da allora aveva la fissa che eravamo diventati fratelli di sangue e cercava di guardarmi le spalle in ogni occasione, nei momenti di bisogno spuntava sempre. Eravamo amici, ci capivamo con mezza parola. Era uno tranquillo, gli piaceva leggere, con lui si poteva parlare anche di letteratura. Tranquil lo fino a un certo punto, però. Aveva ucciso a martellate un ragazzo del Centro perché quello aveva cercato di abbassar lo agli occhi di una ragazza su cui voleva far colpo, una con cui Gigit aveva avuto un rapporto prima di amore e poi di buona amicizia.
Besa era un vero duro. Aveva un anno meno di me, ma ne dimostrava parecchi di più, perché aveva già molti capel li bianchi. Non era nato nella nostra zona, veniva dalla Siberia. Sua madre, zia Svetlana, era a capo di una piccola banda di rapinatori, con cui faceva tumej, e cioè rapine da una città all’altra. Rapinavano la gente ricca, i politici locali, ma soprattutto i cosiddetti «industriali nascosti»: gente che si occupava di produzione e commercio illegale, legata ai direttori delle grandi fabbriche. Il fatto che fosse una donna a gestire una banda era abbastanza comune in Siberia: le donne con un ruolo criminale sono dette con affetto «mamma», «mamma gatta», «mamma ladrona», e vengono ascoltate sempre; il loro parere è considerato una soluzione perfetta, una specie di pura saggezza criminale.
La madre di Besa era finita parecchie volte in galera, e Besa era nato nel carcere femminile a regime speciale di Magadan, in Siberia. Nato in galera, aveva visto per la prima volta la libertà a otto anni. La sua educazione carceraria era molto evidente, e aveva lasciato un segno indelebile: un bagaglio di rabbia, soprattutto.
Besa non aveva mai conosciuto suo padre. La madre diceva di avere trascorso una notte, per pietà, con un condannato a morte, quand’era stata trasportata con un treno nella prigione di Kurgan. Era stata messa in un blocco speciale, e appena arrivata in cella aveva ricevuto una lettera dalla cella vicina: un giovane ragazzo soprannominato «Besa», che significa «diavoletto», le chiedeva di passare la notte con lui. Per compassione e una specie di solidarietà criminale, la donna aveva accettato la richiesta del condannato a morte, e dopo aver pagato le guardie era stata portata nella sua cella. Era rimasta incinta. Trascorso qualche mese, attraverso la posta segreta dei carcerati aveva saputo che il padre biologico del figlio che portava in grembo era stato giustiziato una settimana dopo il loro incontro. Così aveva deciso di dargli il suo nome. Di quell’uomo sapeva solo che era un assassino di poliziotti, che era bello e aveva molti capelli bianchi, e Besa doveva averli ereditati, perché – come diceva sua madre – «somigliava al padre come Adamo al Dio creatore».
Da quando lo conoscevo, Besa aveva una fissa. In prigione dov’era cresciuto aveva sentito da qualche altro bambino la storia della stella del Cremlino, quella sopra la torre principale, dove c’è anche il gigantesco orologio. Secondo il racconto, quella stella pesava cinquecento chili ed era d’oro massiccio, ma ricoperta per prudenza di vernice rossa. Tra i bambini dei criminali, e soprattutto nelle carceri minorili, girano un casino di storie simili: sempre su un tesoro molto grande, nascosto in qualche posto famoso, sotto gli occhi di tutti, eppure difficilissimo da rubare; ma se ce la fai, sei a posto per sempre. La storia dei diamanti che la zarina Caterina II avrebbe nascosto nel Ponte della speranza a Mosca, insieme al corpo della sua governante, uccisa da lei stessa perché voleva rubarglieli. La storia dell’armatura d’oro del cavaliere Elja di Murom, sepolta sotto il monumento allo zar Alessandro III in un monastero vicino a Mosca.
Tutte ’ste favole venivano raccontate per far passare il tempo e per inventare qualche mistero, ma sempre legato all’attività criminale, in modo che nessuno potesse dire alla fine che era stata una perdita di tempo. Perché dopo due ore d’intrighi tra la borghesia, di descrizioni della vita al palazzo dello zar, di guerre, eroi, cavalieri, fantasmi, ladri misteriosi e omicidi eseguiti con tecniche sofisticate, c’era comunque sempre un tesoro da rubare: un tesoro che aspettava so lo che qualcuno lo andasse a prendere.
Dopo un racconto simile, nove volte su dieci gli ascoltatori chiedevano:
«Scusa, ma perché tu che sai questo segreto non lo sfrutti? Perché non metti le mani su quel tesoro?»
La risposta più spettacolare in genere era:
«Sono un criminale onesto, mi basta che mi offriate da fumare per questo racconto».
Tutti offrivano qualcosa e poi cominciavano a progettare il modo di recuperare il tesoro distruggendo i monumenti dell’architettura nazionale. Besa non faceva eccezione: anche lui aveva messo a punto un piano per smontare la stella dalla torre del Cremlino. Ogni tanto tornava su quel piano per migliorarlo un po’: ad esempio prima non sapeva neppure che nel Cremlino non si poteva entrare liberamente, e quando l’ha scoperto (grazie a me) ha deciso di falsificare i documenti delle guardie, sequestrare cinque sorveglianti prima che si presentassero sul posto di lavoro e poi entrare nel Cremlino travestiti da guardie. In un primo tempo aveva pensato di smontare la stella con una gru, che intendeva rubare in qualche cantiere. Poi ha deciso di rischiare: l’avrebbe tagliata a mano, legata a delle corde, e quindi l’avrebbe fatta cadere giù (tanto a noi non ce ne fregava niente dell’estetica, dopo la facevamo a pezzi lo stesso, per ricavarne oro), infine l’avrebbe raccolta da terra e caricata in macchina, per uscire dal Cremlino. Per evitare che la stella cadendo facesse troppo rumore bisognava – secondo il piano di Besa – coprirla con tanti stracci.