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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

Текст книги "Сибирское воспитание"


Автор книги: Николай Лилин



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Mentre lui raccontava, sottolineava quasi sempre il collegamento tra i personaggi e la gente che incontravamo ogni giorno per strada, per farmi capire che anche se i tempi erano cambiati, i valori erano rimasti gli stessi.

Nonno Kuzja era stato tra i primi siberiani ad arrivare in Transnistria. Raccontava quel trasferimento con dolore, e si vedeva che dentro di lui aveva tanti sentimenti bui, legati a quel tempo.

«I militari sono arrivati al villaggio di notte. Tanti, tutti armati, con i fucili a baionetta, come se stessero andando in guerra… Io ero ancora piccolo, avevo una decina d’anni, i miei genitori erano morti da tempo, abitavo con gente buona che mi allevava come un figlio. Gli uomini erano tutti via, nella Taiga, al villaggio c’erano solo i vecchi e le donne con i bambini. Ricordo che sono entrati in casa senza bussare e senza togliersi gli stivali. C’era un uomo vestito con la giacca e i pantaloni di pelle nera. Ricordo l’odore di quella pelle, era nauseante, insopportabile. Ci ha guardato e ha chiesto a Pelagea, la padrona di casa:

«Sai qualcosa di tuo marito, sai dov’è?»

«E andato nella Taiga a cacciare, non so quando torna…» «Lo immaginavo. Va bene, vestitevi pesante, prendete so lo quello che è necessario, uscite di casa e mettetevi in fila con gli altri». Quell’uomo era un comandante, aveva l’aria di uno che sapeva di avere il potere tra le mani.

«Ma cosa succede, perché dobbiamo coprirci e uscire di casa? E notte, i bambini stanno dormendo…» Pelagea era agitata e le sue labbra tremavano mentre parlava.

L’uomo si è fermato un attimo, ha guardato bene la stanza e si è avvicinato all’angolo rosso, dove c’erano le icone: ne ha presa una e l’ha tirata contro il muro. L’icona si è spaccata in due. Ha preso altre icone, le ha messe nella stufa e ha detto:

«Tra dieci minuti bruceremo tutto il villaggio, se volete rimanere ed essere bruciati vivi, fate pure…»

Pelagea aveva cinque figli, il più piccolo aveva quattro anni, il più grande tredici. E poi si occupava di me e di una ragazzina di quattordici anni, Varja, rimasta anche lei senza genitori. Era una donna buona e molto coraggiosa. Ha spiegato con calma a noi bambini che non c’era da avere paura, che era tutto nelle mani del Signore. Ci ha fatti vestire per bene, ha preso l’oro che teneva al sicuro e lo ha nascosto nei nostri vestiti. Ha preso un po’ di cenere dalla stufa e ha sporcato la faccia di Varja; l’ha fatto apposta, per renderla brutta, perché temeva che i soldati la violentassero.

«Se vi chiedono qualsiasi cosa non parlate, non guardateli in faccia, lasciate che parli io. Andrà tutto bene».

Ha preso un grande sacco pieno di pane e carne secca e siamo usciti.

Fuori c’era tanta gente, i militari stavano saccheggiando le case, rompevano porte e finestre e portavano via vari oggetti, soprattutto le cornici d’oro delle icone. Avevano fatto un fuoco in mezzo alla via, dove buttavano icone e crocefissi.

Tutti stavano davanti alle loro case e assistevano impotenti a quel disastro.

Un ufficiale passava in rassegna con un soldato le persone in fila, e quando vedeva un vecchio ordinava al soldato: «Quello, fuori!» e subito la persona indicata veniva colpita con la baionetta. Eliminavano tutti quelli che avrebbero potuto rallentare il cammino.

Una giovane donna, madre di tre figli, è stata portata da un gruppo di soldati dentro una casa dove l’hanno violentata. A un certo punto lei è scappata fuori, nuda, urlando dalla disperazione, e dalla finestra della casa un soldato le ha sparato alla schiena: è caduta sulla neve, morta. Uno dei suoi figli, il più grande, è corso verso di lei gridando; un soldato vicino lo ha colpito in testa con il calcio del fucile, e il ragazzo è caduto a terra privo di sensi.

A quel punto un ufficiale ha gridato con rabbia:

«Chi ha sparato? Chi è stato?»

Il soldato che aveva sparato dalla finestra è uscito fuori con la testa bassa:

«Sono stato io, compagno!»

«Ti sei bevuto il cervello? L’ordine era di sparare solo in caso di estrema necessità! Usa la baionetta, piuttosto: non voglio sentire rumore di spari! Se quelli nel bosco ci sentono, non arriveremo mai al treno! «Era agitato e subito dopo ha ordinato a un sottoufficiale: «Sbrigarsi, dare fuoco alle case e mettere la gente in fila, dare inizio alla marcia!»

I soldati hanno spinto tutti in mezzo alla strada, formando una colonna, poi ci hanno ordinato di camminare. Andavamo via, pieni di odio e di paura, ogni tanto ci guardavamo indietro e vedevamo le nostre case bruciare nel buio come scatoline di carta.

Abbiamo camminato tutta la notte, finché non siamo arrivati alla ferrovia in mezzo al bosco: lì ci aspettava un treno con i vagoni di legno, senza finestre. Ci hanno ordinato di salire, e una volta sopra ci siamo resi conto che quel treno era già pieno di persone che venivano da diversi villaggi. Hanno raccontato la loro storia, che era una copia della nostra. Qualcuno diceva di aver sentito che il treno era diretto in una regione lontana, al sud della Russia; avrebbe attraversa-to la Siberia ancora per una settimana, raccogliendo la gente dei vari villaggi incendiati.

Ci hanno distribuito la legna, da bruciare nelle piccole stufe che c’erano nei vagoni, e un po’ di pane e acqua gelata. Il treno è partito e dopo quasi un mese di terribile viaggio siamo arrivati a destinazione, e cioè qui, nella regione chiamata Transnistria, che alcuni chiamavano anche Bessarabia.

Quando il treno si è fermato, abbiamo realizzato che non c’erano più i soldati, solo i macchinisti e alcuni ferrovieri.

Qui non conoscevamo nessuno, avevamo solamente un po’ di oro con noi, tanti erano riusciti a portarsi dietro anche le armi.

Siamo andati a vivere al fiume, eravamo cresciuti sui fiumi siberiani, sapevamo pescare e navigare bene: cosi è nato il nostro quartiere Fiume Basso».

Nella Russia di adesso non si sa quasi niente dell’esilio dei siberiani in Transnistria, qualcuno ricorda i tempi della collettivizzazione comunista, quando per il Paese passavano i treni pieni di povera gente che veniva spostata da una parte all’altra per ragioni note solo al governo.

Nonno Kuzja diceva che i comunisti avevano pensato di separare gli Urea dalle loro famiglie in modo da far morire la nostra comunità, invece, per ironia del destino, forse l’avevano salvata.

Dalla Transnistria tanti giovani sono andati in Siberia, per partecipare a modo loro alla guerra contro i comunisti: rapinavano i treni, le navi, i magazzini militari e creavano tante difficoltà ai comunisti. Sistematicamente tornavano in Transnistria a leccarsi le ferite, о per stare un po’ con la famiglia e gli amici. Nonostante tutto, questa terra è diventata una seconda patria a cui i criminali siberiani hanno legato le loro vite.

Nonno Kuzja non mi educava facendo lezioni, ma parlando, raccontando le sue storie e ascoltando le mie ragioni. Grazie a lui ho imparato tante cose che mi hanno permesso di sopravvivere. Il suo modo di vedere e capire il mondo era molto umile, non parlava della vita dalla posizione di uno che osserva dall’alto, ma da quella di un uomo che sta in piedi sulla terra e cerca di restarci il più a lungo possibile.

– Tanta gente cerca disperatamente quello che non è capace di trattenere e di capire, per questo è piena di odio e sta male per tutta la vita.

Mi piaceva il suo modo di pensare, perché era molto facile da comprendere. Non dovevo mettermi nei panni di un altro, bastava ascoltarlo restando me stesso per capire che tutto quello che usciva dalle sue labbra era vero. Aveva una saggezza che veniva dal profondo, non sembrava neanche umana, come se arrivasse da qualcosa di più grande e forte dell’uomo.

– Guarda come siamo messi, figliolo… Gli uomini nascono felici, però si autoconvincono che la felicità è qualcosa che devono trovare nella vita… E cosa siamo? Un branco di animali senza istinto, che seguono idee sbagliate, cercando quel lo che già hanno…

Una volta, mentre eravamo a pesca, parlavamo proprio di felicità. A un certo punto, lui mi ha chiesto:

– Guarda gli animali, secondo te loro ne sanno qualcosa della felicità?

– Beh, penso che anche gli animali ogni tanto si sentono tristi о felici, solo che non riescono a esprimere i loro sentimenti… – ho risposto io.

Lui mi ha guardato in silenzio e poi ha detto:

– E lo sai perché Dio ha dato all’uomo una vita più lunga di quella degli animali?

– No, non ci ho mai pensato…

– Perché gli animali vivono seguendo il loro istinto e non fanno sbagli. L’uomo vive seguendo la ragione, quindi ha bisogno di una parte della vita per fare sbagli, un’altra per poterli capire, e una terza per cercare di vivere senza sbagliare.

Io lo andavo a trovare sempre, nonno Kuzja, specialmente quando stavo un po’ male о ero preoccupato per qualcosa, perché lui mi capiva al volo e riusciva a farmi passare tutti i brutti pensieri.

Quel mattino, dopo essere stato picchiato dai poliziotti, avevo un tale peso nell’anima che quasi mi faceva male respirare. Se ripensavo a quello che mi era successo mi veniva da piangere, giuro, dalla disperazione e dall’offesa che sentivo addosso. Il giro in barca con Mei mi aveva fatto bene, ma adesso avevo proprio bisogno di nonno Kuzja e delle sue calde parole. Camminavo verso casa sua come uno che cammina nel sonno, senza accorgersi di dove va: era una specie di istinto a guidarmi in quel momento.

Nonno Kuzja si svegliava sempre molto presto, quindi non appena sono arrivato al cancello della casa di sua sorella, dove lui abitava, l’ho trovato già sul tetto, che lanciava in aria i primi colombi. Mi ha visto e mi ha fatto il gesto di salire anch’io. Cosi ho preso una vecchia scala tutta storta a cui mancavano due pioli, l’ho appoggiata al tetto e ho cominciato a salire. Nonno Kuzja nel frattempo stava guardando come si allontanava in cielo una colomba, era già abbastanza in alto. Poi ha abbassato gli occhi verso di me e mi ha detto:

– Vuoi farlo volare tu questo? – mostrandomi un bel colombo che teneva nella mano destra.

– Si, ci provo… – ho risposto io. Sapevo bene come si lanciano i colombi, nella mia famiglia ne avevamo tanti, mio nonno Boris era famoso per i suoi colombi, girava mezza Russia per cercare nuove razze, poi le mischiava e selezionava i più forti.

Nonno Kuzja non aveva tanti colombi, una cinquantina, non di pili, però erano tutti esemplari eccezionali, perché le molte persone che venivano a trovarlo da tutte le parti del Paese portavano in regalo i migliori colombi che avevano.

Il colombo che teneva in mano nonno Kuzja era di razza asiatica, veniva dal Tagikistan: un colombo molto forte e anche bello, uno dei più cari sul mercato. L’ho preso in mano e stavo già per lanciarlo, ma nonno Kuzja mi ha fermato:

– Aspetta, lascia che lei salga ancora un po’…

Aspettare significava rischiare di perderla: se salgono troppo in alto, molte colombe cadono giù, morte. Sono abituate a stare in coppia col maschio: senza il maschio che le aiuta a scendere, loro da sole non sono capaci di tornare a terra, devono essere guidate. Quindi bisogna lanciare il colombo nel momento giusto: il maschio sale e la femmina, sentendo come quello batte le ali e fa capriole in aria, comincia a scendere verso di lui. Ma la nostra colomba era già molto lontana.

– Dài, Kolima, adesso! – ha detto nonno Kuzja, e io subito ho fatto un movimento studiato, lanciando con forza il colombo.

– Bene, bravo figliolo, che Gesù Cristo ti benedica! – nonno Kuzja era contento, guardava i colombi avvicinarsi l’uno all’altro in aria. Abbiamo assistito insieme a quella spettacolare unione: il colombo si è esibito in più di venti capriole, e la colomba faceva giri sempre più stretti intorno a lui, toccandolo quasi con le ali. Erano una coppia bellissima.

Alla fine i due si sono uniti nell’aria e uno vicino all’altro hanno cominciato a scendere sempre più in basso, con giri larghi. Nonno Kuzja mi ha guardato in faccia, indicando il mio livido.

– Dài, facciamoci un cifir… – Siamo scesi dal tetto e andati in cucina. Nonno Kuzja ha messo sul fuoco l’acqua per il cifir.

Il «cifir» è un tè molto forte, si prepara e viene bevuto seguendo un antico rituale. Ha un potente effetto stimolante: berne una tazza è come bere di colpo mezzo litro di caffè. Lo si prepara in un pentolino, il cifirbak, che non si usa per nient’altro e che non va mai lavato con i detersivi, ma solo sciacquato in acqua fredda. Se il cifirbak è nero, sporco di residui di tè, è più apprezzato, perché il cifir viene più buono. Quando l’acqua bolle, si spegne il fuoco e si mette dentro tè nero in foglie, non sminuzzato, e rigorosamente proveniente da Irkutsk, in Siberia: li coltivano un tè particolare, il pili forte e gustoso che ci sia, amato dai criminali di tutto il Paese. Ben diverso dal famoso tè di Krasnodar, che piace molto a tutte le casalinghe: un tè debole, diffuso soprattutto a Mosca e nella Russia del sud, buono per la colazione. Per un cifir come si deve si mette fino a un mezzo chilo di foglie di tè. Le foglie devono essere lasciate in infusione per non più di dieci minuti, altrimenti il cifir diventa acido e cattivo. Sul pentolino va messo un coperchio, per non far uscire il vapore; è consigliato avvolgere il tutto con un asciugamano, per mantenere la temperatura. Il cifir è pronto quando non ci sono più foglie galleggianti in superficie: non a caso si dice che il cifir è «caduto» per dire che è pronto. Si filtra tutto con un colino: le foglie di tè non si buttano, si mettono in un piatto e si lasciano lì ad asciugare, serviranno per fare poi un tè normale, che si può bere con zucchero e limone, mangiando un dolce.

Il cifir va bevuto in un grande bicchiere di ferro о d’argento, che contiene più di un litro di tè. Si beve in gruppo, passandosi l’un l’altro questo bicchiere chiamato bodjaga, che nella vecchia lingua criminale siberiana significa borraccia. Va passato al compagno in senso orario e mai antiorario; ogni volta bisogna berne solamente tre sorsi, non uno di più e non uno di meno. Bevendo non si può parlare, fumare, mangiare о fare qualsiasi altra cosa. Vietato soffiare dentro il bicchiere: è un segno di maleducazione. Per primo comincia a bere quello che ha preparato il cifir, poi il bicchiere passa agli altri, e quello che lo finisce deve alzarsi, lavarlo e rimetterlo al suo posto. A quel punto si può parlare, fumarsi una sigaretta, mangiare qualcosina di dolce.

Queste regole non sono uguali in tutte le comunità: ad esempio in Russia centrale non si fanno tre sorsi ma solamente due, e soffiare dentro il bicchiere è considerato un gesto gentile nei confronti degli altri, per i quali tu stai raffreddando la bevanda bollente. In ogni caso, un cifir offerto da qualcuno è una specie di segno di rispetto, di amicizia.

Il cifir più buono è quello preparato sul fuoco vivo della legna: per questo motivo a casa di molti criminali nei camini c’è una struttura fatta apposta per preparare il cifir; altrimenti si usano le stufe, ma mai il fuoco del gas.

In Siberia, una volta preparato, il cifir va bevuto subito: se si raffredda non lo scaldano più, lo buttano via. In altri posti, soprattutto in carcere, il cifir può essere riscaldato, ma non più di una volta. E il cifir riscaldato non si chiama più cifir ma cifirok: un diminutivo, in tutti i sensi.

Abbiamo bevuto il cifir in silenzio, come vuole la tradizione, e solo quando abbiamo finito nonno Kuzja ha cominciato a parlare:

– Allora, come stai, piede scalzo?

– Bene, nonno Kuzja, solo che qualche giorno fa ci siamo cacciati nei guai, a Tiraspol', e ne abbiamo prese un po’ dagli sbirri… – Volevo essere sincero, ma allo stesso tempo non mi andava di esagerare. Davanti a una persona come nonno Kuzja non c’era bisogno di vantarsi о di piangere per quello che accadeva nella tua vita, perché di sicuro lui ne aveva viste di peggio.

– So tutto, Kolima… Però sei vivo, mica ti hanno ammazzato. Allora come mai sei cosi di cattivo umore?

– Mi hanno preso la picca, quella che mi ha regalato zio Riccio… – quando ho pronunciato queste parole mi sono sentito come se se stessi assistendo al mio funerale. Quello che era successo diventava ancora più terribile e mi spaccava il cuore, mentre lo raccontavo.

Se penso a che faccia dovevo avere in quel momento mi viene da ridere, ed è proprio quello che ha fatto nonno Kuzja:

– Ma dimmi tu se devi stare cosi male perché gli sbirri ti hanno preso la picca! Lo sai che tutto quello che succede è nelle mani di Dio e fa parte del Suo grande piano. Pensaci: le nostre picche sono potenti perché dentro di loro c’è la forza che ci mette Nostro Signore. E quando qualcuno prende la nostra picca e la usa senza onestà, quella lo porterà alla rovina, perché sarà la forza del4Signore a distruggere il nemico. Allora che hai da piangere? E successa una buona cosa, la tua picca porterà tante disgrazie a uno sbirro, finché non lo farà morire. E poi la prenderà un altro, e un altro, e la tua picca li ammazzerà tutti…

Il concetto spiegato da nonno Kuzja mi ha dato un po’ di sollievo: d’accordo, la mia picca avrebbe procurato dei mali ai poliziotti, però mi mancava lo stesso.

Non volevo deluderlo e piagnucolare davanti a lui, quindi ho impennato la voce, tirandola al massimo della felicità:

– Allora sono contento…

Nonno Kuzja ha sorriso:

– E bravo, cosi devi fare, tieni sempre il petto come la ruota e la coda come la pistola…

Una settimana dopo, sono tornato da nonno Kuzja a portargli un barattolo di pàté di caviale e burro. Lui mi ha chiamato in sala e mi ha messo davanti all’angolo rosso delle icone. Lì, sulla mensola, c’era una bellissima picca aperta, con una lama molto sottile e un manico d’osso. La guardavo ipnotizzato.

– L’ho fatta arrivare direttamente dalla Siberia, i nostri fratelli l’hanno portata per un mio giovane amico… – l’ha presa e me l’ha data in mano. – Prendila, Kolima, e ricorda che le sole cose che contano sono quelle che hai dentro.

Io ero di nuovo il felice proprietario di una picca e mi sentivo come se mi avessero regalato una seconda vita.

Di sera ho scritto a caratteri belli grossi su un foglio le parole che mi aveva detto nonno Kuzja, e ho appeso il foglio in camera mia, vicino alle icone. Mio zio, quando l’ha visto, mi ha guardato con un punto interrogativo negli occhi. Io gli ho fatto un gesto con le mani, come per dire: «E così». Lui mi ha sorriso e ha detto:

– Adesso abbiamo pure un filosofo in famiglia!

Quando la pelle parla

Da piccolo mi piaceva disegnare. Disegnavo sempre, mi portavo dietro un quadernetto e disegnavo tutto quello che vedevo. Mi piaceva vedere come i soggetti si trasferivano sulla carta, a incantarmi era il processo del disegno, mentre mi davo da fare con la matita. Stavo come dentro una bolla, chiuso nel mio mondo, e Dio solo sa cosa succedeva in quegli istanti nella mia testa.

Tutti noi bambini volevamo assomigliare agli adulti, e quindi li imitavamo in tutto, nel parlare, nel vestire, e anche nei tatuaggi. I criminali adulti in mezzo ai quali crescevamo – i nostri padri, nonni, zii e vicini – erano pieni di tatuaggi.

Nelle comunità criminali russe esiste una forte cultura del tatuaggio, e ognuno di essi ha un significato. Il tatuaggio è una specie di carta d’identità che serve per comunicare la propria posizione all’interno della società criminale: il tipo di «mestiere» criminale, informazioni varie sulla vita personale e sulle esperienze carcerarie.

Ogni comunità ha una sua tradizione del tatuaggio, simbologia e schemi diversi, secondo i quali i segni vengono posizionati sul corpo e alla fine letti e tradotti. La pili antica cultura del tatuaggio è quella siberiana, perché sono stati proprio gli antenati dei criminali siberiani a tramandare la tradizione di tatuare i simboli in maniera codificata, nascosta. Poi questa cultura è stata copiata da altre comunità e si è diffusa nelle prigioni di tutto il Paese, trasformando i significati principali dei tatuaggi e il modo in cui vengono eseguiti e tradotti. I tatuaggi della casta criminale più potente in Russia, chiamata Seme nero, sono interamente copiati dalla tradizione degli Urea, ma hanno significati diversi. Le immagini possono essere uguali, ma solo una persona capace di leggere un corpo può «raccontare» con precisione quello che nascondono e spiegare perché sono diverse.

A differenza delle altre comunità, i siberiani fanno tatuaggi solamente a mano, usando vari tipi di bacchette. I tatuaggi fatti con le macchinette о in altri modi non vengono considerati degni.

La tradizione del tatuaggio degli Urea siberiani ha un processo lungo quanto la vita di un criminale. Si cominciano a tatuare alcuni segni all’età di dodici anni, e solo dopo essere passati attraverso varie esperienze e periodi della vita queste cose si possono raccontare con i tatuaggi, codificati e nascosti in un quadro che negli anni diventa sempre pili completo. Ecco perché nella comunità criminale siberiana non esistono persone giovani che hanno tatuaggi grandi e completi come nelle altre comunità; in Siberia la schiena e il petto vengono tatuati per ultimi, quando il criminale raggiunge i qua-ranta-cinquanta anni, e lo schema principale somiglia alla struttura di una spirale che partendo dalle estremità, cioè dalle mani e dai piedi, arriva al centro del corpo.

Per leggere i corpi con tatuaggi cosi complessi bisogna avere molta esperienza e conoscere perfettamente la tradizione del tatuaggio; per questo nella comunità criminale siberiana la figura del tatuatore ha un posto speciale: è come un sacerdote autorizzato da tutti gli altri a operare in nome loro.

Mi piaceva questa tradizione, ma ne sapevo poco, giusto quello che mi avevano raccontato mio nonno, mio padre e mio zio, e io volevo saperne di più, m’interessava l’idea di riuscire a leggere tutto quello che era scritto sui loro corpi.

Così passavo molto tempo a copiare i tatuaggi che vedevo in giro, e più li copiavo più ero disperato, perché non riuscivo a trovare neanche un tatuaggio uguale a un altro. Si ripetevano i soggetti principali, però i particolari cambiavano. Dopo un po’ ho capito che il segreto doveva essere proprio nei particolari e allora ho cominciato ad analizzarli: però era come cercare d’imparare una lingua straniera senza nessuno che te la insegna. Avevo notato che in alcune parti del corpo venivano messe certe immagini e in altre no. Ho provato a fare dei collegamenti tra le immagini, azzardando qualche ipotesi, ma tutto era molto instabile e sfuggente, come sabbia che passa tra le dita.

Verso i dieci anni ho cominciato a fare ai miei amici tatuaggi finti, disegnando con una biro immagini che inventavo da solo, ispirate a quelle che vedevo sui criminali adulti.

Più tardi, qualche vicino di casa ha iniziato a chiedermi di fargli un disegno specifico, che dopo lui sarebbe andato a farsi tatuare. Mi spiegava come lo voleva e io glielo riprodu-cevo sulla carta. Molti mi pagavano, non tanto, dieci rubli, ma a me pareva già straordinario che mi pagassero.

Così, senza volerlo, sono diventato un po’ famoso nel quartiere, e il vecchio tatuatore che eseguiva tutti i tatuaggi sui disegni che preparavo io, nonno Lèsa, mi ha mandato un paio di volte i suoi saluti e i suoi complimenti tramite delle persone. Io ero contento, mi sentivo importante.

Quando ho compiuto dodici anni, mio padre mi ha fatto un discorso serio: mi ha detto che ero già abbastanza grande e dovevo pensare a che cosa volevo fare della mia vita, per potermi staccare dai genitori ed essere indipendente. Molti miei amici avevano già partecipato a qualche traffico sotto la guida degli adulti, del resto anch’io avevo fatto con mio zio Sergeij una serie di giri, passando più volte la frontiera con dell’oro dentro lo zaino.

Io gli ho risposto che volevo imparare il mestiere del tatuatore.

Così qualche giorno dopo mi ha mandato a casa di nonno Lésa, per chiedergli se mi prendeva come allievo. Lui mi ha accolto bene, mi ha offerto del tè, ha sfogliato il quaderno dei miei disegni e ha esaminato i tatuaggi che mi ero fatto da solo.

– Complimenti, hai «la mano fredda», – ha commentato.

– Perché vuoi diventare tatuatore?

– Mi piace disegnare e voglio imparare la nostra tradizione, voglio capire come si leggono i tatuaggi…

Lui ha riso, poi si è alzato ed è uscito dalla stanza, quando è tornato teneva tra le mani una bacchetta da tatuaggio.

– Guardala bene, è con questa che io tatuo la gente onesta. E lei che mi ha fatto guadagnare il rispetto di tanti e il mio umile pane. E per lei che ho passato metà della mia esistenza in prigione, tormentato dagli sbirri; nella vita non sono riuscito ad avere nient’altro all’infuori di lei. Vai a casa e pensaci su. Se vuoi veramente fare questa vita torna da me, t’insegnerò tutto quello che so di questo mestiere.

Ci ho pensato su tutta la notte. Non mi piaceva l’idea di passare dentro la metà dei miei giorni e di essere torturato dagli sbirri, ma dato che le alternative che avevo davanti mi promettevano più о meno le stesse cose ho deciso di tentare.

Il giorno dopo ero di nuovo davanti alla porta di casa sua. Nonno Lèsa mi ha spiegato come prima cosa quello che significa «imparare» a essere un tatuatore. Dovevo aiutarlo a sbrigare le faccende di casa – le pulizie, la spesa, la legna – in modo che lui avesse tempo libero da dedicarmi.

E così è stato. Nonno Lésa a poco a poco mi ha insegnato tutto. Come preparare una postazione di lavoro per i tatuaggi, come si esegue il disegno, come trasferirlo al meglio sulla pelle.

Mi dava dei compiti da fare a casa: ad esempio dovevo inventare i modi in cui le immagini potevano intrecciarsi tra di loro, rimanendo però fedeli alla tradizione criminale. M’insegnava i significati delle immagini e il loro posizionamento sul corpo, raccontandomi l’origine di ognuna, la sua evoluzione nella tradizione siberiana.

Dopo un anno e mezzo, mi ha permesso di ritoccare un tatuaggio sbiadito a un cliente, un criminale appena uscito di prigione. Bastava ripassare le linee. Era un’immagine di lupo fatta molto male, mi ricordo che era sproporzionata, e allora io ho proposto di sistemare un po’ il tatuaggio anche dal punto di vista «artistico». Ho disegnato un’immagine nuova, con cui avrei potuto facilmente coprire la vecchia, e l’ho fatta vedere al mio maestro e al cliente. Hanno accettato. Così ho eseguito il tatuaggio, che è venuto bene: il criminale era contento e non finiva più di ringraziarmi.

Da quel momento il mio maestro mi ha lasciato aggiustare tutti i tatuaggi vecchi e sbiaditi, e quando mi sono fatto la mano, con il suo permesso ho cominciato a occuparmi di lavori nuovi, sulla pelle vergine.

Creavo immagini per i tatuaggi, usando con sempre maggiore facilità la simbologia della tradizione criminale siberiana.

Nonno Lésa, quando mi dava incarichi nuovi, non mi diceva più come dovevano essere le immagini, mi spiegava solamente il significato finale, codificato. Insomma, sfruttavo i simboli nella creazione delle immagini come si usano le lettere dell’alfabeto per scrivere le storie.

Mi capitava di conoscere persone con tatuaggi particolari, che avevano dietro delle storie interessanti. Molti di loro venivano a trovare il mio maestro, e lui mi faceva vedere i loro tatuaggi, spiegandomene il significato. Erano le cosiddette «firme», come le chiamano i criminali: tatuaggi che hanno un significato finale che ingloba un simbolo о direttamente il nome di qualche vecchia e potente autorità criminale. Sono come un lasciapassare, per evitare che una persona venga accolta male in qualche posto lontano da casa sua, magari per via di sospetti о delle sue scarse conoscenze nella società criminale. Di solito questi tatuaggi vengono eseguiti in maniera molto particolare, esiste un modo specifico per renderli unici, senza agganciare direttamente il loro significato al nome о al soprannome di chi li porta: bisogna rifarsi alle caratteristiche e alle particolarità del corpo e legarli ai significati degli altri tatuaggi. Ho visto le firme su diverse persone, e ogni volta ho scoperto modi diversi per mischiare i soggetti tra loro, per creare cose uniche.

Una volta ero a casa, è venuto a chiamarmi un ragazzo e mi ha detto che nonno Lésa voleva vedermi per mostrarmi qualcosa. L’ho seguito.

Dal mio maestro c’era gente, una decina di persone, qualcuno era del nostro quartiere, altri li vedevo per la prima volta: erano criminali che venivano da lontano, dalla Siberia. Stavano a un tavolo e parlavano piano tra loro. Il mio maestro mi ha presentato:

– Questo piede scalzo sta studiando per diventare un kol'sik[6]6
  Nella lingua criminale significa «quello che punge», cioè il tatuatore.


[Закрыть]
. Gli insegno bene, speriamo che un giorno, con l’aiuto del Nostro Signore, lo diventi davvero.

Dal tavolo si è alzato un uomo robusto, aveva una barba lunga e una serie di tatuaggi sulla faccia che io ho letto immediatamente: era un condannato a morte che all’ultimo momento aveva ricevuto la grazia.

– Allora saresti il figlio di Jurij?

– Si, sono Nicolai «Kolima», figlio di Jurij «Senza Radici», – ho risposto con voce decisa.

Il criminale ha sorriso e mi ha messo la sua gigantesca mano sulla testa:

– Dopo verrò a trovare tuo padre, siamo vecchi amici, da giovani stavamo nella stessa famiglia in un carcere minorile…

11 mio maestro mi ha picchiettato la schiena:

– Adesso ti farò vedere una cosa che tu, se vuoi diventare un bravo tatuatore, devi saper riconoscere…

Abbiamo attraversato la stanza e siamo usciti sul retro della casa, dove c’era un piccolo giardino con qualche albero da frutta. Siamo entrati in una casetta per gli attrezzi fatta di legno e lamiera arrugginita. Il mio maestro ha acceso una lampadina che dal soffitto dondolava al livello della mia faccia.

Sul pavimento c’era qualcosa coperto con un grande pezzo di stoffa grezza: qualcosa di grande. 11 mio maestro ha tolto il telo: sotto c’era un uomo morto, nudo, senza segni di coltellate о sangue, aveva solo un livido largo e nero sul collo.

«Strangolato», ho pensato io.

La pelle era molto bianca, quasi come la carta, doveva essere morto già da un po’ di ore. La faccia era rilassata, con la bocca leggermente aperta, le labbra viola.

– Guarda qui, Kolima, guarda bene, – nonno Lèsa mi ha mostrato un tatuaggio sul braccio destro del cadavere, chinandosi e girandolo verso di me.


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