Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
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Dito ha subito cambiato faccia, ha sorriso e ci ha invitati a entrare. Ci ha portati a un tavolo con una pentola piena di cifir appena fatto.
– Dài, ragazzi, servitevi. Perdonatemi ma non ho nient’al-tro, solo questo. Sono appena uscito, l’altro ieri… Che casino la libertà, così tanto spazio, mi gira ancora la testa…
Mi piaceva la sua ironia, ho capito che potevo rilassarmi.
Ci siamo seduti, dicendogli che non doveva preoccuparsi per noi. Mentre facevamo girare la tazza di cifir tra noi tre, Dito ha aperto la lettera del nostro Guardiano. Dopo qualche istante ha detto:
– Devo tornare con voi nel vostro quartiere, qua c’è scritto che m’invitano a parlare…
Io e Mei ci siamo guardati. Dovevamo raccontargli per forza la nostra avventura, è da infami portare una persona in giro senza dire che si è nei guai.
Ho deciso di parlare io, anche perché lasciare parlare Mei significava complicare le cose. Ho riempito i polmoni d’aria e ho buttato fuori tutto: la mia guerra con l’Avvoltoio, la trappola di Barba e della sua banda di giovani tossici, la scuola…
Dito ascoltava con attenzione, seguendo ogni piccolo particolare come fanno i carcerati. Le storie sono l’unico divertimento dei criminali in galera: si raccontano a vicenda la vita un pezzo per volta, a puntate, e quando finiscono passano alla vita di qualcun altro.
Alla fine gli ho detto che se non voleva correre pericoli venendo con noi, poteva rimandare la sua visita al giorno dopo. Lui si è opposto:
– Tranquilli, se capita qualcosa sono con voi.
Non ero contento, perché sapevo che a Ferrovia i giovani non rispettavano i vecchi. Spesso gli facevano gli agguati sotto casa, quando quelli tornavano ubriachi, e li picchiavano per prendere qualsiasi cosa avevano dietro, per poi mostrarlo agli altri come un trofeo. Dito poi non era un criminale autorevole, da quello che si leggeva nei suoi tatuaggi era uno che per qualche motivo si era affiancato ai siberiani in carcere: sul collo aveva una firma siberiana, il che voleva dire che la comunità lo proteggeva, forse perché aveva fatto qualcosa d’importante per noi.
Mentre io stavo pensando a tutto questo, Dito nel frattempo s’era già bell’e che vestito, con una giacca piena di cuciture, le scarpe rovinate, e una sciarpa verde che quasi toccava terra.
Per strada ci siamo messi a parlare. Dito ha raccontato che stava in carcere da quando aveva sedici anni. Era finito dentro per un incidente stupido: era ubriaco, e senza accorgersene aveva dato una bastonata un po’ troppo forte a uno sbirro, che era morto sul colpo. Nel carcere minorile si era affiancato alla famiglia siberiana, perché – diceva – erano gli unici che stavano uniti e non picchiavano la gente, facevano tutto insieme e non obbedivano a nessuno. Nel carcere per adulti era arrivato già come membro della famiglia siberiana, e gli altri lo avevano accolto. Si era fatto ventanni di prigione, e quando stava per uscire un vecchio gli aveva proposto di andare a vivere nell’appartamento che avevamo visto.
Adesso voleva avvicinarsi alla gente del nostro quartiere: era quella – diceva – la sua famiglia. Per questo aveva chiesto alle vecchie autorità siberiane in prigione di contattare il Guardiano di Fiume Basso.
Si sentiva parte della nostra comunità, e questa cosa mi faceva piacere.
Camminando, mi era venuta un’idea. Visto che avevamo bisogno di rinforzi, avevo deciso di passare da un amico che abitava non troppo lontano. Era un ragazzo di nome «Geka», diminutivo di Evgenij. Ci conoscevamo da quando eravamo piccoli, lui era figlio di una pediatra molto in gamba che si chiamava zia Lora.
Geka era un ragazzo colto, sveglio ed educato, non faceva parte di nessuna banda, preferiva una vita tranquilla. Aveva tanti interessi e mi piaceva per questo, ero stato parecchie volte a casa sua ed ero affascinato dalla collezione di modellini di aerei da guerra, che montava e dipingeva lui. Sua madre mi permetteva di prendere alcuni libri dalla sua biblioteca, è cosi che ho conosciuto Dickens e Conan Doyle, e soprattutto l’unico eroe letterario, sbirro e infame, che mi sia mai stato simpatico: Sherlock Holmes.
Geka passava tutta l’estate con noi sul fiume, gli abbiamo insegnato a nuotare, a fare la lotta, a usare il coltello in una rissa. Ma aveva gli occhiali, e per questo motivo faceva una pena infinita a mio nonno: portare gli occhiali per i siberiani è come sedersi volontariamente su una sedia a rotelle, è un segno di debolezza, una sconfitta personale. Anche se non vedi bene non devi mai metterti gli occhiali, per conservare la tua dignità e il tuo aspetto sano. Così, quando Geka veniva a casa nostra, nonno Boris lo portava nell’angolo rosso, s’inginocchiava insieme a lui davanti all’icona della Madonna siberiana e a quella del Salvatore siberiano, e poi, facendo mille segni della croce, pronunciava la sua preghiera, che Geka era obbligato a ripetere parola per parola:
«Oh Madre di Dio, Santa Vergine, patrona di tutta la Siberia e protettrice di tutti noi peccatori! Assisti al miracolo del Nostro Signore! Oh Signore Nostro, Salvatore e Compagno nella vita e nella morte, Tu che benedici le nostre armi e i nostri miserabili sforzi per portare la Tua legge nel mondo del peccato, Tu che ci rendi forti davanti al fuoco dell’inferno, non abbandonarci nei momenti di debolezza! Non per mancanza di fede, ma per amore e rispetto verso le Tue creature, Ti prego, fai un miracolo! Aiuta il Tuo schiavo miserabile Evgenij a trovare la Tua strada e a vivere nella pace e in salute, per cantare la Tua gloria! Nei nomi delle Madri, dei Padri, dei Figli e dei nostri risorti tra le Tue braccia, ascoltaci e porta la Tua luce e il Tuo calore nei nostri cuori! Amen!»
Finita la preghiera, nonno Boris si alzava sulle ginocchia e si girava verso Geka. Poi, facendo gesti solenni e spettacolari come a teatro, gli toccava con le dita gli occhiali e, dicendo la frase seguente, lentamente glieli sfilava:
«Come tante volte mi hai messo la Tua forza nelle mani per stringere il coltello contro gli sbirri, e hai indirizzato la mia pistola per colpirli con pallottole da Te benedette, dammi il Tuo potere per sconfiggere la malattia del Tuo umile schiavo Evgenij!»
Tolti gli occhiali, partiva subito la domanda a Geka: «Allora dimmi, mio angelo, adesso ci vedi bene?»
Per rispetto verso di lui Geka non aveva cuore di dirgli di no.
Nonno Boris si girava verso le icone e ringraziava il Signore con le consuete formule:
«Che sia fatta la Tua volontà, Nostro Signore! Finché siamo vivi e protetti da Te, il sangue degli sbirri, dei diavoli infami e dei servitori del male scorrerà in abbondanza! Ti siamo riconoscenti per il Tuo amore».
Poi chiamava tutta la famiglia e annunciava che era appena avvenuto un miracolo. Alla fine restituiva gli occhiali a Geka davanti a tutti, dicendo:
«E adesso, mio angelo, adesso che vedi, rompi ’sti occhiali inutili!»
Geka li metteva in tasca, bofonchiando:
«Non ti arrabbiare, nonno Boris, li romperò più tardi».
Mio nonno gli accarezzava la testa e diceva con la voce dolce e piena di gioia:
«Rompili quando vuoi, figliolo, basta che tu non li metta mai più».
La volta dopo, per non farlo arrabbiare, Geka si presentava a casa nostra senza occhiali, se li toglieva fuori dalla porta, prima di entrare. Nonno Boris, vedendolo, diventava tutto una gioia completa.
Beh, tornando a noi: Geka viveva insieme a sua madre e a uno zio che aveva alle spalle una storia incredibile, era una specie di materializzazione della rabbia divina, della condanna vivente a cui era destinata questa simpatica e buona famiglia. Si chiamava Ivan, e la gente l’aveva soprannominato «il Terribile». Il paragone con il grande tiranno era ironico, perché Ivan era buono come il pane. Era un uomo sui trentacin-que anni, basso e magro, con i capelli e gli occhi neri, e le dita delle mani disumanamente lunghe. Era stato un musicista di professione, prima di cadere in disgrazia; a diciotto anni suonava il violino in un’orchestra importante, a San Pietroburgo, e la sua carriera di musicista sembrava andare in salita come un missile intercontinentale sovietico. Ma un giorno Ivan era finito nel letto di una simpatica troia di quell’orchestra, una violoncellista, moglie di un importante membro del partito comunista. Aveva perso la testa per lei, aveva reso pubblica la loro relazione ed era arrivato persino a chiederle di separarsi dal marito. Povero ingenuo musicista, non sapeva che i membri del partito non avevano il diritto di divorziare, perché loro e le loro famiglie dovevano essere un esempio di «cellula» perfetta della società sovietica. E che razza di cellula siete, se divorziate quando vi pare? Le nostre cellule devono essere dure come acciaio, о meglio dello stesso materiale con cui si fabbricano i nostri carri armati e i famosi fucili d’assalto Kalasnikov. Avete mai visto un carro armato sovietico difettoso? О un Kalasnikov che s’inceppa? Le famiglie devono essere perfette come le armi.
Quindi il nostro Ivan, appena ha provato a seguire i sentimenti del suo cuore, è rimasto schiacciato dalla manifestazione del potere del marito della sua amante, esibita attraverso il brutale intervento di alcuni agenti dei servizi segreti sovietici, che a furia di sieri lo hanno ridotto a una larva.
Ufficialmente era sparito, nessuno sapeva dove, tutti erano convinti che fosse scappato dall’Urss attraverso la Finlandia. Dopo alcuni mesi è stato trovato in una struttura per malati mentali, dove lo avevano internato raccogliendolo dalla strada in un grave stato di confusione mentale. Non ricordava neanche il suo nome. L’unica cosa che aveva con sé era il suo violino: grazie a quello i medici sono risaliti all’orchestra, e più tardi hanno potuto riconsegnarlo alla sorella.
La salute di Ivan ormai era rovinata per sempre, la sua faccia era quella di uno assalito da un lungo ed enorme dubbio. Comunicava senza problemi, però aveva i suoi tempi per riflettere sulle domande e pensare alle risposte, tempi decisamente più lunghi del normale.
Continuava a suonare il violino, era l’unica cosa che lo legava al mondo reale, una specie d’ancora grazie a cui era rimasto aggrappato alla vita. Si esibiva due volte alla settimana in un locale del Centro e poi si ubriacava fino a stordirsi del tutto, da ubriaco – diceva – riusciva ad avere momenti di assoluta lucidità mentale, che purtroppo passavano in fretta.
Il suo fedele compagno di vita, che da sempre condivideva con lui tutte le feste alcoliche, era un altro poveraccio di nome Fima, che aveva avuto una meningite a nove anni e da allora aveva perso il senno. Era molto violento, Fima, vedeva nemici dappertutto: quando entrava in un posto nuovo infilava la mano destra dentro il cappotto come per tirare fuori una pistola immaginaria. Era cattivo e piantagrane, ma nessuno gli diceva niente perché era malato. Girava sempre con un cappotto da marinaio e urlava detti da marinai, tipo «Siamo pochi, ma abbiamo le maglie a righe!», о «Motori al massimo! Cento ancore nel culo, affondate ’sto catino di merda fascista!» Fima divideva il mondo in due categorie: i «nostri», cioè la gente a cui dava confidenza e che considerava suoi amici, e i «fascisti», cioè tutti quelli che considerava nemici e quindi da picchiare e offendere. Non si sapeva come faceva a decidere chi era «nostro» e chi «fascista», lo intuiva basandosi su qualche suo sentimento nascosto profondamente.
Insieme, Ivan e Fima combinavano parecchi guai. Se Fima era scatenato, Ivan picchiava con una violenza naturale, si buttava addosso alla gente come una bestia sulla preda.
Insomma, per queste loro virtù, speravo proprio di trovarli in casa.
Quando siamo arrivati, Geka, Ivan e Fima stavano giocando in sala a battaglia navale.
Geka era rilassato e rideva, prendendo in giro i suoi compagni di gioco:
«Bul-bul-bul», ripeteva scherzando, imitando il rumore di una nave che affonda.
Fima, con le mani tremolanti, stringeva sconsolato il suo foglietto: la situazione della sua flotta doveva essere disperata.
Ivan stava tutto mogio in un angolo, e il suo foglietto buttato a terra significava che aveva appena perso la partita. Teneva tra le mani il suo violino e suonacchiava qualcosa di strano, molto lento e triste, che somigliava a un urlo lontano.
Ho spiegato in due parole a Geka la nostra situazione e gli ho chiesto se poteva aiutarci ad attraversare il quartiere.
Lui ha accettato subito, e Fima e Ivan l’hanno seguito come due agnelli pronti a trasformarsi in leoni.
Siamo usciti in strada, io guardavo la nostra banda e non ci credevo, che nel giorno del mio compleanno dovevo finire in una storia del genere che stava diventando sempre più incredibile: due minorenni siberiani e un adulto appena uscito di galera – accompagnati dal figlio di una dottoressa e da due pazzi furiosi – che cercano di uscire salvi dal quartiere dove gli danno la caccia.
Geka e io camminavamo avanti, gli altri ci seguivano. Mentre chiacchieravo con Geka, sentivo Mei raccontare a Dito una delle sue storie miracolose, quella del grosso pesce che aveva risalito tutto il fiume controcorrente fino al nostro quartiere, attirato dal profumo della marmellata di mele di zia Marta. Ogni volta che Mei raccontava quella storia, il momento più buffo era quando faceva vedere quant’era grande ’sto pesce. Apriva le braccia come Gesù crocefisso e con una fatica nella voce strillava: «Una bestia grossa così-W-ì». In attesa di quella frase con un orecchio, mentre con l’altro ascoltavo Geka, io mi sentivo proprio bene. Mi sembrava di fare una passeggiata con gli amici, senza pericoli.
Quando Mei ha finito la sua storia, Fima ha commentato:
– Cazzo, sapessi quante bestie del genere ho visto io dalla mia nave! Le balene mi hanno rotto i coglioni, il mare è pieno di quelle porcherie!
Mi sono girato per vedere che faccia faceva mentre diceva quelle parole, e ho visto qualcosa volare vicino al mio viso, talmente vicino da toccarmi quasi la guancia. Era un pezzo di mattone. In quel momento Geka ha urlato:
– Merda, un’imboscata! – e da due cortili opposti sono usciti una decina di ragazzi armati di bastoni e coltelli, che correvano verso di noi gridando:
– Ammazziamoli, ammazziamoli tutti!
Ho messo la mano in tasca e ho preso la mia picca. Ho premuto il pulsante e con un ciac la lama, spinta dalla molla, è saltata fuori. Ho sentito la schiena di Mei appoggiarsi alla mia e la sua voce dire:
– Adesso faccio fuori qualcuno!
– Colpisci solo le cosce, idiota, sono pieni di giornali sotto le giacche, non vedi che si sono preparati? Ci aspettavano… – non sono riuscito a finire la frase che mi sono visto davanti un ragazzone armato di un bastone di legno. Tentava di colpirmi la testa. Ho sentito sibilare il suo bastone vicino alle orecchie una volta, poi un’altra, era veloce quel bastardo. Cercavo di avvicinarmi a lui per colpirlo con la lama, ma non facevo mai in tempo, le sue bastonate diventavano sempre più precise e veloci, rischiavo di rimanere colpito. Improvvisamente un altro mi ha attaccato di schiena, mi ha spinto forte e sono finito proprio contro il gigante con il bastone. D’istinto, gli ho dato tre coltellate velocissime sulla coscia, cosi veloci che subito dopo ho sentito una scossa nel braccio, una specie di corrente elettrica, per la tensione superata. La neve sotto di noi si è macchiata di sangue, il gigante mi ha dato una gomitata in faccia ma io ho continuato a colpirlo finché non è caduto a terra, stringendo la sua gamba nella neve rossa di sangue, facendo smorfie di dolore.
Da dietro, quello che prima mi aveva spinto ha cercato di accoltellarmi su un fianco, ma io ero magro e il mio giubbotto era grosso, e lui non è riuscito a raggiungere la carne. Il giubbotto però si è strappato, e la sua mano è finita dentro il buco insieme al coltello. Io mi sono girato e l’ho ferito con la picca, prima sul naso e poi sopra l’occhio: la sua faccia si è subito coperta di sangue. Quello cercava di tirar fuori la mano dal buco del mio giubbotto, ma il suo coltello era rimasto intrappolato nella stoffa, così lo ha abbandonato lì. Si è preso la faccia tra le mani e urlando si è buttato sulla neve, lontano da me.
Ho messo due dita dentro il buco del giubbotto e accuratamente ho tirato fuori la lama: era un coltello da caccia, largo e molto affilato. «Porca troia, – ho pensato, – se mi prendeva ci rimanevo secco. Quando torno a casa metto una candela davanti all’icona della Madonna».
Passando sopra il corpo del nemico e stringendo il suo coltello nella mano sinistra, sono andato incontro a Geka, che da terra cercava di evitare i colpi di un bastone impugnato da un ragazzo robusto. Geka si appoggiava sul braccio destro e con quello sinistro cercava di parare il parabile. Ho sorpreso il suo aggressore alle spalle e gli ho affondato la lama della picca nella coscia.
La lama del mio coltello era bella lunga ed entrava bene dentro la carne, era l’ideale per disattivare le persone, perché penetrava senza problemi nei muscoli fino a toccare le ossa.
Con il coltello da caccia, contemporaneamente, gli ho tagliato i legamenti dietro il ginocchio dell’altra gamba. Con un grido di dolore, il ragazzo robusto è caduto a terra.
Geka si è alzato in piedi, ha raccolto il bastone e insieme ci siamo buttati verso Mei, che aveva preso uno e urlando come un matto lo stava colpendo con il coltello nella zona del lo stomaco, mentre in tre tentavano di fermarlo scaricandogli sulla testa e sulla schiena bastonate su bastonate. Se ne prendevo io così tante morivo di sicuro, solo grazie al suo fisico Mei riusciva a tenersi in piedi.
Mi sono lanciato con il coltello contro uno che stava per dare una potente bastonata sulla testa di Mei. Sono arrivato da dietro, e gli ho tagliato un legamento.
Geka ha colpito sulla testa un altro che è subito svenuto, dal suo orecchio ha iniziato a uscire sangue. Il terzo è scappato verso uno dei cortili da dove un attimo prima erano usciti tutti loro.
Fima e Ivan, intanto, armati di bastoni, stavano massacrando vicino al marciapiede due tipi che erano caduti a terra. Uno era ridotto molto male, Fima sicuramente gli aveva spaccato il naso e la faccia era piena di sangue; alzava le mani tremolanti per istinto, per coprirsi la faccia dalle botte, ma Fima lo colpiva lo stesso, con cosi tanta violenza che il bastone rimbalzava su quelle mani come se fossero di legno, tipo quelle di un burattino: era evidente che Fima gliele aveva rotte. Pieno di rabbia, furioso, Fima lo picchiava urlando:
– Chi è che vuole ammazzare un marinaio sovietico? Eh? Allora? Chi è ’sto fascista di merda?
Ivan nel frattempo cercava di bastonare la faccia dell’altro aggressore, che era bravo a scansare i colpi girandosi da una parte e dall’altra. Ce l’aveva quasi fatta, a un certo punto, ma all’ultimo ha mancato la faccia e il bastone di Ivan ha sbattuto contro l’asfalto gelato, coperto di neve rossa, rossa del sangue che appena cadeva a terra diventava duro come ghiaccio. Il bastone si è rotto in due, Ivan si è arrabbiato e ha buttato via il pezzo che gli era rimasto in mano. Poi ha fatto un salto a piedi uniti sulla testa del ragazzo e ha cominciato a pestargli la faccia con i piedi, lanciando uno strano urlo di guerra, come quelli degli indiani che attaccano i cowboy nei western americani.
Erano veramente pazzi, quei due.
In un attimo, lo scontro era già finito.
Dall’altra parte della strada c’era Dito, stringeva nelle mani un coltello e un bastone, e sotto i suoi piedi c’era un ragazzo con un taglio che partiva dalla bocca e finiva in mezzo alla fronte: troppo profondo, brutta roba. Il ragazzo era sdraiato, cosciente ma immobile, credo terrorizzato dal sangue e dal dolore.
Mei teneva stretto per il bavero il tipo che prima aveva colpito in pancia con il coltello. Guardava stupito la sua lama, spezzata in due. Mi sono avvicinato a lui e ho strappato con un gesto secco la giacca del tipo, tutta piena di buchi. Sulla neve sono caduti una ventina di giornali spessi, incollati uno all’altro: da quel pacco di carta spuntava la parte mancante della lama di Mei.
Sorpreso e incredulo, Mei guardava quella scena come se fosse uno spettacolo di magia.
Ho preso da terra il pacco di carta, l’ho tenuto un po’ in mano, soppesandolo. Poi, mettendoci tutta la forza che avevo, ho dato una sberla in faccia a Mei con quel fascio di giornali, provocando un forte rumore, come quando un’ascia spacca il ceppo di legno.
La sua guancia è diventata subito rossa, Mei ha mollato il collo del ragazzo e si è portato la mano sulla zona colpita. Con voce agitata mi ha chiesto:
– Che ti è preso? Perché diavolo ce l’hai con me?
L’ho colpito una seconda volta e lui ha fatto due passi indietro, mettendo una mano davanti, per fermarmi.
Gli ho risposto:
– Cosa ti avevo detto, cretino, colpire le cosce, non il torso! Mentre tu facevi il coglione con quel tossico e ti pigliavi mazzate dai suoi tre amici, io ho beccato la lama seria. Cazzo, c’è mancato un pelo, per poco non mi seccavano! E tu dov’eri, perché non mi hai coperto le spalle?
Lui ha subito fatto una faccia tristissima – sguardo basso, testa china, la bocca leggermente aperta – e con la voce di chi chiede l’elemosina si è messo a brontolare frasi incomprensibili, come faceva ogni volta che aveva torto:
– Ha-m-m-m… Kolima… nou-ou-ou volevo solo-o-o-o… ghm-hm-hm… scusa-a-a-a…
– Scusa un bel cazzo, – l’ho interrotto io. – Voglio tornare a casa e festeggiare il mio compleanno, non il mio funerale. E allora ascoltami quando parlo. Non è il momento di fare i coglioni, ci rimettiamo la pelle in questa faccenda di merda. E non dimenticare che non siamo soli, ci sono delle persone con noi, ci danno una mano, non possiamo esporli troppo. E meno male che ci sono, perché con un amico come te sarei già morto.
Mei si è fatto ancora pili piccolo e, come sempre in quelle occasioni, ha preso la forma della mia ombra personale. Ha cominciato a coprirmi le spalle, anche se con un leggero ritardo.
La strada somigliava al luogo di una strage, tutta la neve era rossa di sangue, gli aggressori si trascinavano ai bordi del marciapiede, decisamente malridotti.
Mi sono avvicinato a quello che Mei aveva tentato di accoltellare: era spaventato, anche se non aveva addosso neanche un graffio. Dovevo fare il cattivo. L’ho preso per il collo e ho tentato di tirarlo su, ma non riuscivo ad alzarlo, era più pesante di me, allora mi sono abbassato io, gli ho punzecchiato la coscia con il coltello, fino a quando ha cominciato a uscire un po’ di sangue. Lui ha urlato e si è messo a piangere, chiedendomi di non ammazzarlo. Gli ho dato una sberla forte, per farlo smettere:
– Chiudi il becco, finocchietto! Lo sai contro chi ti sei messo, coglione? Lo sai che noi di Fiume Basso veniamo battezzati coi coltelli? Pensavi veramente di poterci ammazzare? Faccio risse da quando avevo sette anni, ne ho aperti cosi tanti di quelli come te che non mi basterebbe una vita a contarli.
Esageravo un po’ sulla quantità delle vittime, ovvio, ma dovevo spaventarlo, seminare paura, perché il nemico terrorizzato è già metà sconfitto. I prossimi (non dubitavo che presto ci saremmo battuti con gli altri) dovevano avere la cresta bassa, ecco.
– Per questa volta non ti ammazzo, dato che oggi è il mio compleanno e dato che è la prima volta che ci scontriamo, ma se ti becco ancora sulla mia strada non avrò nessuna pietà. Quando vedi l’Avvoltoio, digli che Kolima gli manda i suoi saluti, e che se lo incontro entro stasera lo apro come un maiale…
Quel povero coglione, con il sangue che gli usciva dalla coscia e la faccia terrorizzata, mi guardava come se mi stessi appropriando della sua anima.
Ci siamo rimessi per strada: Fima con un grande bastone, Ivan con un manganello rotto che aveva recuperato da terra, Geka con una spranga di ferro, Dito con un coltello e un bastone, io con due coltelli in tasca, e infine la mia seconda ombra con la faccia umile, un bastone e un coltello spezzato a metà in mano.
Mentre ci allontanavamo, dal cortile hanno cominciato a uscire i «sopravvissuti». Eravamo lontani una ventina di metri, quando uno di loro ci ha gridato dietro:
– Bastardi siberiani! Tornate nel vostro bosco di merda! Vi ammazzeremo tutti!
Mei si è girato e gli ha lanciato addosso il suo coltello spaccato. E stato un attimo. Il coltello di Mei ha fatto una strana traiettoria e ha colpito in piena faccia uno che stava vicino a quello che aveva gridato. Ancora sangue, quindi, e tutti che scappavano di nuovo, lasciando sulla neve un altro compagno ferito.
– Cristo Santo, che macello… – ha detto Geka.
Camminavamo veloci. E quando uscivamo in spazi larghi, aperti, quasi correvamo. Cercavamo di evitare i cortili e le strettoie.
Abbiamo superato l’ultima fila di case davanti ai magazzini alimentari e ci siamo nascosti tra i garage e i box auto abusivi. Io ho proposto di esplorare per bene la zona, prima di attraversare la strada in gruppo: sentivo che ci aspettavano delle sorprese.
– Sentite, – ho detto. – Io mi tolgo il giubbotto così corro più veloce. Attraverso la strada pili in giù, dove fa la curva e si perde tra gli alberi, poi vado fino ai magazzini e guardo com’è la situazione. Se ci aspettano in tanti, passiamo da un’altra parte. Se sono in pochi li prendiamo da dietro, e li mischiamo con la merda… Ci metterò un quarto d’ora, non di più, voi intanto guardate nei garage, magari c’è qualcosa di utile da usare come arma, però attenti a non attirare l’attenzione…
Erano tutti d’accordo, solo Mei non voleva lasciarmi andare da solo, era preoccupato.
– Kolima, vengo con te, può succedere di tutto…
Non potevo dirgli che era un peso, dovevo trovare una maniera più morbida.
– Mi servi qui. Se scoprono dove siete tocca a te difendere il gruppo. Io da solo riesco a scappare da qualsiasi merda, ma loro?
A quelle parole Mei è diventato serio, e sulla faccia gli è apparsa la stessa espressione che potevano avere i kamikaze giapponesi prima di salire sui loro aerei.
Mi sono tolto il giubbotto e stavo già per andare, ma Mei mi ha fermato mettendomi in mano la spranga di ferro, e con la voce tremante mi ha detto:
– Ti potrà servire…
Io lo guardavo meravigliato: ma quanto idiota era, e quanto bene mi voleva quell’essere umano!
Meno cose mi portavo nelle mani meglio era. Ma per evitare inutili spiegazioni ho preso la spranga e sono partito di corsa. L’ho buttata appena sono sparito dietro i garage. Andavo veloce, l’aria era fredda e si respirava bene.
Arrivato alla curva, ho attraversato la strada e mi sono diretto verso i magazzini. Da lontano ho visto una dozzina di ragazzi seduti intorno a un bidone di ferro, dove avevano acceso un fuoco per scaldarsi. Ho contato i bastoni e le spranghe appoggiate al muro. Ho aspettato un po’, per assicurarmi che non ci fosse nessun altro, poi sono tornato indietro.
Quando li ho raggiunti, i miei amici avevano già aperto cinque garage. Mei aveva svuotato un armadietto di attrezzi per il giardinaggio e si era fatto un’arma con una piccola zappa che aveva da una parte una lama di ferro per zappare e dall’altra una piccola forca, credo per raccogliere qualcosa; non so un bel niente di giardinaggio, nel nostro quartiere i giardini servivano solo per nascondere le armi.
Mei si era anche riempito le tasche di dischi di ricambio per la sega circolare, erano rotondi e con grandi denti taglienti.
– Che vuoi fare con quella roba? Pensi di poter affettare la gente?
– No, li uso come arma da tiro, – ha risposto lui con orgoglio, e ho visto il suo occhio brillare come succedeva ogni volta che stava per combinare una cazzata.
– Mei, questo non è un gioco. Cerca di non colpire nessuno di noi, altrimenti sarò costretto a infilartele tutte nel culo, ’ste armi da tiro.
Lui ha fatto la faccia offesa ed è uscito dal garage a testa bassa.
Fima girava con un’ascia enorme, cosa che mi preoccupava molto, allora l’ho convinto ad abbandonarla per un bel pezzo di tubo d’acciaio inossidabile:
– Guarda come brilla, – gli ho detto. – Sembra una spada, no?
Lui ha afferrato il tubo senza commenti, gli occhi pieni di voglia di combattere.
Ivan invece si era procurato un’accetta lunga, di quelle che si usano per spaccare i rami. Gliel’ho tolta dalle mani sostituendola con una spranga di ferro. Erano troppo violenti, quei due, e avrebbero fatto un vero macello, bisognava alleggerire i loro armamenti.
Dito aveva trovato un massiccio e lungo manico d’ascia, Geka un grosso cutter e un bastone di legno pesante.
Perfetto.
Io ho ispezionato uno dei garage, rimediando una cassa di bottiglie vuote. Mi era venuta un’idea: volevo fare una cosa orrenda ma molto utile nella nostra situazione. Ho dato un’occhiata agli altri garage, in uno c’era la sabbia per conservare le mele d’inverno. Ho chiamato Geka, ci siamo armati di un tubicino e abbiamo succhiato la benzina dai serbatoi delle macchine.
Abbiamo riempito tutte le bottiglie di benzina mischiata a sabbia, e con dei vecchi stracci raccolti sul posto abbiamo fabbricato i tappi.
Le molotov erano pronte.
Abbiamo fatto una riunione veloce, in cui io ho proposto il mio piano elementare:
– Attraversiamo la strada direttamente da qui e arriviamo al muro del magazzino, poi strisciamo verso di loro avvicinandoci il più possibile. Si aspettano di vederci spuntare dall’altra parte, noi li prendiamo di sorpresa attaccandoli con le molotov, e poi giù botte. Solo così abbiamo una possibilità di uscire dal quartiere sulle nostre gambe.
Erano tutti d’accordo.
Abbiamo attraversato la strada correndo tutti insieme, velocissimi. Una volta arrivati al muro, abbiamo rallentato. Io e Geka portavamo la cassa piena di molotov.
A un tratto abbiamo cominciato a sentire le loro voci: erano proprio dietro l’angolo. Ci siamo fermati. Io mi sono sporto un po’ in avanti e ho sbirciato: la loro posizione era un bersaglio perfetto. Stavano tutti appiccicati al muro, intorno al fuoco del bidone.
Uno di loro lo conoscevo, era un coglione che aveva quattro anni più di me, un imbecille nato, si chiamava Briciolo. Aveva ammazzato tre gatti di una vecchietta sua vicina e poi si era vantato con chiunque di quest’impresa eroica per un sacco di tempo, era un vero sadico.