Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
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– Allora, che dici? Che cos’è ’sto tatuaggio?
Me lo chiedeva con una specie di mistero nella voce, come se fosse arrivato il momento di fargli vedere quello che avevo imparato da lui.
Senza volerlo, ho cominciato ad analizzare il tatuaggio ad alta voce, arrivando alle mie conclusioni. Lui mi ascoltava con grande pazienza, tenendo sempre il cadavere girato verso di me.
– E unavfirma di un’autorità siberiana di soprannome «Tungus». E stata fatta nel carcere speciale numero 36, nel 1989, nella città di Ilin, in Siberia. C’è anche la benedizione per chi la legge, chiaro segno che il tatuatore che l’ha eseguita è un Urea siberiano…
– Tutto qui? Non hai notato nient’altro? – mi ha chiesto il mio maestro con sospetto.
– Beh, sarebbe a posto, come tatuaggio: eseguito bene, si legge perfettamente, composizione d’immagini classica e molto chiara… Però…
Già, c’era un però.
– E l’unico tatuaggio sul corpo, – continuai, – eppure nell’immagine ci sono riferimenti ad altri tatuaggi, che qui mancano… E stato fatto nel 1989, ma sembra guarito da pochi mesi, è ancora troppo nero, il pigmento non ha avuto il tempo di sbiadirsi… E poi il posto è strano, di solito sul braccio si fanno «i semi» о «le ali»[7]7
I tatuaggi chiamati cosi non riproducono semi о ali: contengono varie immagini che rimandano alle informazioni personali, alle promesse, ai legami sentimentali del criminale.
[Закрыть], le firme invece si agganciano a qualche tatuaggio grande, sono una specie di ponte tra due tatuaggi. Possono essere fatte sull’avambraccio, all’interno, о più raramente subito sopra il piede, sulla caviglia…
– E perché si fanno li? – mi ha interrotto il mio maestro.
– Perché è importante che il tatuaggio sia in un posto facile da far vedere in qualsiasi situazione, invece questo qua
10 ha messo in un posto scomodo…
Mi sono fermato per un momento. Ho fatto un po’ di calcoli e ragionamenti nella mia povera testa e alla fine ho guardato il mio maestro con occhi spalancati:
– Non ci credo, non mi dire, nonno Lésa… Mica questo qui è uno… – mi sono fermato di nuovo perché non riuscivo a pronunciare quella parola.
– Si, ragazzo mio, questo qui è uno sbirro. Guardalo bene, perché chissà, forse nella vita ti toccherà ancora incontrarne un altro che si spaccia per uno di noi, e allora non avrai
11 tempo di pensare, dovrai essere sicuro al cento per cento e riconoscerlo subito. Questo qui in qualche maniera è venuto a sapere che uno di noi portava una firma e l’ha copiata uguale, senza sapere che cos’è veramente una firma, come si fa e come viene letta e tradotta… Ha trovato la morte perché era troppo stupido.
Non mi faceva impressione né il corpo del poliziotto strangolato né la storia del tatuaggio copiato da un criminale. L’unica cosa che in quel momento mi sembrava strana, innaturale e fuori dal mio modo di comprendere la vita, era quel corpo vuoto, senza tatuaggi. Mi sembrava una cosa impossibile, la percepivo quasi come una malattia. Fin da piccolo ero sempre stato circondato da persone tatuate e per me questo era assolutamente normale. Vedere un corpo senza niente di tatuato sopra mi faceva un effetto strano: una sofferenza fisica, una specie di pietà.
Anche il mio stesso corpo mi faceva impressione, perché lo vedevo troppo vuoto.
Mi allenavo a leggere i tatuaggi che vedevo in giro. Così scoprivo molte cose che non sapevo delle persone che conoscevo da sempre.
– Ma dimmi, zio Ignat, una volta, quando eri giovane, hai preso un ergastolo e poi ti hanno liberato, vero?
– E lascialo stare, Kolima, smettila con i tuoi esperimenti, non chiedere niente ai nostri ospiti… Se non sei sicuro di quello che leggi addosso a una persona, impara meglio! – mio padre mi cacciava via ogni volta che tempestavo di domande le persone.
Chiedere a qualcuno dei suoi precedenti penali – quello che viene definito «orme sull’acqua» – da noi era considerata una maleducazione. Ma io ero talmente preso da questa mania che non riuscivo a fermare le mie rotelle.
Secondo la regola, i tatuaggi vanno fatti in certi periodi della vita, non si possono fare subito tutti quelli che ti piacciono, esiste uno schema preciso.
Se un criminale si fa un tatuaggio che non rappresenta un’informazione reale su di lui, о si fa un tatuaggio prima del tempo, viene severamente punito e il suo tatuaggio deve essere tolto dalla pelle.
Come si dice in Siberia, i tatuaggi bisogna «soffrirli». Dopo aver vissuto qualcosa di particolare, lo si racconta tramite il tatuaggio come in una specie di diario. Siccome la vita criminale è dura, si dice che i tatuaggi non vengono «fatti», ma «sofferti».
Spesso si sente dire da qualcuno che si è fatto un nuovo tatuaggio:
«Ecco, ho sofferto un altro tatuaggio», e la frase non si riferisce al dolore fisico provato durante il processo del tatuaggio, ma al significato di quel particolare tatuaggio e alla vita difficile che gli sta dietro.
Una volta ho conosciuto un ragazzo, si chiamava Igor, era uno che combinava parecchi casini e molti lo consideravano una testa calda, non condividevano il suo modo di pensare e vivere la vita. Era figlio di una donna di nazionalità moldava che lavorava in fabbrica, completamente estranea alla vita criminale. Era stata sposata con un criminale ucraino che giocava d’azzardo e doveva soldi a mezza città. Poi un giorno l’uomo era stato ammazzato, qualcuno gli aveva tagliato di netto le mani e lo aveva buttato nel fiume, dov’era annegato. Di lui era rimasta solo una cosa: suo figlio Igor.
Il quale gli assomigliava non poco, in certe cose: rubava i soldi a sua madre per perderli subito dopo alle carte, faceva dei lavoretti sporchi per certi criminali del quartiere Centro, che lo sfruttavano per piccole truffe. Una volta è stato preso al mercato mentre tentava di rubare la borsa della mamma del mio amico Mei, che in tutta risposta gli ha sfigurato la faccia e lo ha reso zoppo.
Per farla breve, alla fine questo ragazzo è stato beccato dai poliziotti di una città ucraina mentre provava a derubare una vecchietta, minacciandola con la forza. Visto che aveva paura di finire dentro per un reato simile, disprezzato dalla comunità criminale, si è inventato una storia incredibile: che lui era un membro importante della comunità siberiana, che i poliziotti lo volevano incastrare a tutti i costi e la vecchia era d’accordo con loro. Per essere più credibile, quell’imbecille si è fatto qualche tatuaggio mentre era nella cella del distretto di polizia. Usando un pezzo di fil di ferro e l’inchiostro di una biro, si è disegnato qualche immagine siberiana sulle dita e sulle mani, senza neanche conoscerne il significato, limitandosi a copiare quello che aveva visto addosso a noi.
In galera, ha cominciato fin da subito a cantare la sua canzone, sperando che i compagni di cella gli credessero. Ma siccome in galera di solito ci stanno le persone molto esperte, capaci di capire la psicologia di ogni essere umano, quelli hanno subito sospettato di lui. Si sono messi in contatto con la comunità siberiana, chiedendo se qualcuno lo conosceva e sapeva qualcosa sui suoi tatuaggi, ma la risposta è stata negativa. Cosi lo hanno ammazzato, strangolandolo nel sonno con un asciugamano.
Appropriarsi di un tatuaggio di qualcun altro, secondo la tradizione siberiana è uno degli errori più grandi che puoi commettere per meritarti la morte. Ma questo vale solo per i tatuaggi esistenti, che qualcuno ha già addosso e che rappresentano un’informazione personale codificata. Invece usare la tradizione per creare tatuaggi agli estranei è considerato una specie di portafortuna. Tante persone che fanno affari con la gente che appartiene alla comunità criminale siberiana, amici e sostenitori, possono portare tatuaggi tradizionali, purché a tatuarli e a preparare il disegno sia un tatuatore siberiano, un esperto.
Il rapporto tra tatuatore e cliente è complesso, e richiede una spiegazione a parte.
Oltre a tatuare, creare disegni ed essere capace di leggerli sul corpo, il tatuatore deve sapersi comportare, seguire certe regole. Il processo di richiesta di un lavoro è molto lungo. Prima di «soffrire» un tatuaggio, il criminale deve essere presentato da un amico che garantisca per lui: solo a queste condizioni il tatuatore può accettare il lavoro.
Il tatuatore può rifiutare un cliente solo se ha qualche fondato sospetto sul suo conto. In questo caso, ha il diritto di chiedere al criminale di contattare, attraverso le conoscenze personali, qualche autorità famosa nella società siberiana che dia il suo permesso formale a farsi fare un tatuaggio. Il tatuatore deve però comportarsi in modo gentile, per non offendere nessuno; non può parlare di sospetti, deve limitarsi a chiedere un favore: quello di «portare una notizia» a una vecchia autorità. E anche quando, grazie ad amici, il criminale è arrivato fino a quest’autorità, non deve mai dire direttamente «Voglio il permesso per tatuarmi», ma solamente «Il tatuatore Taldeitali chiede se lei può mandargli i suoi saluti attraverso di me». Cosi il vecchio gli lascia una lettera о manda con lui uno dei suoi.
Il tatuatore, secondo la regola criminale, può rifiutare un lavoro solo in caso di lutto о di grave malattia. Dal canto suo, il criminale non può costringere il tatuatore a rispettare tempi imposti da lui: cosi spesso un tatuaggio grande aspetta anche qualche anno.
Anche le modalità del pagamento rispettano un rituale. I criminali onesti, per una questione di dignità, non parlano mai di soldi. Nella comunità siberiana tutti i beni materiali, specialmente i soldi, vengono disprezzati: per questo non vengono neanche nominati. Se i siberiani parlano di soldi, li chiamano «quelli» о «spazzatura», «cavolfiore», «limoni», oppure dicono solo le cifre, pronunciano i numeri. I siberiani non tengono soldi in casa perché si dice che portano male in famiglia, distruggono la felicità e «spaventano» la fortuna. Li tengono vicino a casa, in giardino, in qualche nascondiglio particolare, magari in una costruzione per animali domestici.
Cosi prima di fare un tatuaggio non si parla mai di un prezzo stabilito, non si parla proprio di niente che sia legato al denaro. Solo dopo, quando il lavoro è finito, il cliente chiede al tatuatore «Cosa ti devo», e il tatuatore risponde «Dammi quello che è giusto»: è questa la risposta ritenuta più onesta, e quindi più usata dai tatuatori siberiani.
A ogni modo i criminali in libertà pagano bene il lavoro del tatuatore: in denaro, armi, icone, macchine, persino immobili. In prigione è diverso: lì il tatuatore si accontenta di un po’ di sigarette, di un pacchetto di tè о di un barattolo di marmellata, di un accendino о una scatola di fiammiferi, ogni tanto anche di qualche soldo.
Tra tatuatori esiste una collaborazione e fratellanza assoluta. In libertà vanno a trovarsi l’un l’altro, si scambiano le tecniche, le ultime novità.
I tatuatori non compiono crimini e non partecipano a nessun affare criminale: questo si spiega in due modi, perché dedicano tutto il loro tempo al lavoro e perché all’epoca del-l’Urss tatuare era ritenuto un crimine in sé, e per questa attività si andava in galera.
In prigione i tatuatori condividono spesso e volentieri i clienti, perché magari a uno piace di più fare un tipo d’immagini, e a qualcun altro un altro tipo. Di regola il più vecchio segue il più giovane, gli sta un po’ dietro e gli insegna quello che ha imparato nella vita. Molti tatuaggi vengono eseguiti da tatuatori diversi, perché i criminali cambiano spesso prigione о cella. Così il lavoro che ha cominciato un tatuatore può essere continuato da un altro e terminato da un terzo, però la tradizione dice che bisogna chiedere il permesso a quello che ha iniziato il tatuaggio. E chiedere è una faccenda complicata: nella cultura criminale siberiana non si chiede mai qualcosa direttamente, esiste una forma di comunicazione che soddisfa le persone e sostituisce le richieste esplicite. Ad esempio, se nella prigione dove lavora un tatuatore arriva un nuovo criminale con un tatuaggio non finito, il tatuatore si fa dire il nome del maestro che ha cominciato quel lavoro. Poi scrive una lettera in lingua criminale, che attraverso la posta segreta dei detenuti, chiamata «strada», fa il suo percorso fino al destinatario. E una lettera in apparenza molto gentile, tutta piena di complimenti, ma in realtà è formale, segue i principi dell’educazione siberiana. Se questa lettera venisse letta da una persona estranea al mondo criminale gli sembrerebbe un’accozzaglia di parole sciocche.
Tante volte anch’io ho scritto queste lettere, in galera о in libertà. Mi ricordo un caso particolare: stavo scontando la mia terza condanna, già da adulto, quando nella nostra cella è arrivato un criminale siberiano che aveva sulla schiena un bellissimo tatuaggio da finire. Aveva cominciato a farglielo un famoso tatuatore anziano, Afanasij «Nebbia». Avevo sentito tanto parlare di lui, la sua vita era leggendaria. Dicevano che aveva iniziato a tatuare molto tardi, verso i quarantanni, prima era un criminale qualsiasi, rapinava i treni. In una sparatoria era stato ferito alla testa ed era diventato sordo e muto. Improvvisamente si era messo a fare disegni molto più che belli, perfetti, e poi aveva imparato a tatuare. In un suo diario lo spiegava così: diceva di sentire in continuazione nella sua testa le voci di Dio e degli angeli che gli suggerivano dei soggetti iconografici legati alla religione ortodossa siberiana. Questo diario era molto famoso nella nostra comunità, la gente se lo passava e lo copiava a mano, come si fa nella società criminale con qualsiasi documento о testimonianza scritta da qualcuno che viene considerato «segnato» da Dio. L’avevo letto anch’io quand’ero minorenne, me l’aveva passato il mio maestro e io l’avevo copiato riscrivendolo su un quaderno, e mentre lo facevo sentivo tante cose entrare nella mia testa.
Avevo visto solo due volte i suoi lavori e mi avevano colpito per come sembravano sofferte quelle immagini. Lui aveva una tecnica particolare, non era molto raffinato, anzi direi che era proprio grezzo, però riusciva a creare delle forme, dei soggetti che andavano dritti all’immaginazione per come erano presentati sulla pelle. Erano diversi da tutti gli altri, quando li guardavi non ti sembrava di vedere un corpo con sopra un tatuaggio, ma era il tatuaggio stesso a essere una cosa viva, con sotto un corpo. Era impressionante, più forte di qualsiasi altra cosa avessi visto sulla pelle umana.
Desideravo conoscerlo da sempre, Nebbia, e sognavo di trovare il modo di fargli sapere di me, dei miei lavori.
Il criminale che era finito nella nostra cella aveva un tatuaggio sulla schiena chiamato «La Madre», molto complesso e pieno di significati nascosti. Come tutti i tatuaggi grandi La Madre è il centro di una galassia: nel disegno s’incrociano, e a volte si sovrappongono, i significati delle immagini più piccole, arrotolandosi in una spirale per andare a finire nell’immagine principale e scomparire nel momento esatto in cui la lettura dei particolari porta l’attenzione su un unico soggetto.
Quando il criminale mi ha chiesto di finirlo, non potevo crederci: era un onore seguire le linee fatte da Nebbia in persona. Gli ho scritto subito una lettera, ero molto agitato, si stava realizzando un mio sogno: mi presentavo a un mito, a una leggenda vivente.
In una sera ho scritto la seguente lettera, usando tutto quello che sapevo sulle norme che regolano i rapporti tra ta-tuatori criminali:
Caro fratello Afanasij Nebbia,
ti scrive Nicolai Kolima, con l’aiuto del Signore e di tutti i Santi, umile kol'sik.
Pregando le icone, spero che tutti noi continueremo a godere della benedizione del Signore.
Nella casa, che grazie al Nostro Signore condivido con gente onesta, è sceso, e con l’aiuto di Dio ha preso la residenza, un vagabondo onesto, orfano, il fratello Z…
Tiene con la grazia del Signore La Madre, che canta la tua mano miracolosa, guidata da Dio stesso.
Per amore del Nostro Salvatore Gesù Cristo, La Madre si illumina, non manca tanto per completare il suo splendore.
Con fraterno amore e affetto, nella grazia del Nostro Signore Onnipotente, ti auguro buona salute e tanti anni di amore e fede nella Meravigliosa Croce Siberiana.
Nicolai Kolima.
Gli chiedevo semplicemente il permesso di finire il suo lavoro, ma per farlo usavo delle frasi codificate che formano una specie di poesia dai significati nascosti. Questo va spiegato con pazienza.
Se un criminale chiama un altro fratello non è per gentilezza, ma per fargli capire che non solo è un membro della società criminale come lui, ma proprio un suo collega.
Presentarsi subito è molto importante nella legge della comunicazione criminale: nome, soprannome e mestiere, altrimenti le parole che precedono e che seguono non hanno nessuna importanza.
Umile kol'sik, cioè umile pungitore, è un altro modo di chiamare il mestiere di tatuatore; la parola kol'sik è gergale e antica, e dev’essere sempre accompagnata da un aggettivo tipo «umile» о «povero», che sottolinea la posizione non ambiziosa, priva di qualsiasi ombra di vanità, di chi fa quel mestiere.
Dopo la presentazione ufficiale c’è una frase-ponte, dove non si parla di niente di concreto collegato al senso della lettera. La si scrive per rispettare un’antica tradizione: in qualsiasi forma di comunicazione, l’informazione importante non va mai detta subito, ma soltanto dopo un piccolo discorso «trasparente» che non parla di affari criminali ma di cose comuni, banali, evidenti e semplici. La si usa per mostrare lo stato d’animo in cui si trova la persona che fa la richiesta, perché tra criminali non viene tollerato il nervosismo: anche nelle situazioni più difficili bisogna mantenere il controllo, avere, come si dice, sangue freddo. In questo caso io ho scritto una frase che desse un tocco di speranza religiosa, che non fa mai male nelle lettere о in qualsiasi altro tipo di comunicazione tra criminali.
Dopo si passa al dunque.
Dico che in cella, che in gergo si chiama casa, è arrivato – sceso – un criminale, che ha preso la residenza-, cioè è stato accettato dagli altri criminali, gente onesta. Il che significa che il nuovo arrivato aveva una lettera, un lasciapassare о un tatuaggio, firma di un’autorità criminale.
Chiamo il nuovo arrivato vagabondo onesto, per dire che è una persona non ambiziosa, umile e capace di comportarsi.
Orfano è una parola che in gergo può avere tanti significati, a partire da quello letterale: in questo caso però alludevo al fatto che non era stato lui a chiedere il trasferimento, ma era stato costretto a lasciare la prigione dove stava prima. Era importante sottolinearlo nella lettera, perché i criminali non rispettano quelli che chiedono di essere trasferiti, li chiamano «cavalli pazzi», dicono che «appena succede qualcosa, quelli si buttano sulla porta come cavalli pazzi».
Dopo ho scritto che il nuovo arrivato tiene con la grazia del Signore: il che significa semplicemente che ha un tatuaggio. Tra criminali non si usa dire «Ho un tatuaggio», si dice «Tengo con la grazia del Signore», e poi dopo si specifica che tatuaggio in particolare; se parli di tutti i tatuaggi insieme li chiami «i semi onesti», «le lacrime del Signore», «i Suoi sigilli». In questo caso La Madre, perché era quello il tatuaggio specifico che il criminale aveva sulla schiena.
La Madre canta la mano di Nebbia è un complimento. Se un tatuaggio è stato eseguito bene, canta la mano del tatuatore.
Poi segue un altro complimento più significativo: la mano di Nebbia è guidata da Dio stesso. Non è da intendersi in senso letterale: Dio in questo caso significa la legge criminale. Il tatuaggio insomma è stato eseguito secondo le regole della tradizione criminale, in maniera molto professionale.
Il punto culminante della lettera però è dove si dice La Madre si illumina: vuol dire che il tatuaggio, nonostante non sia finito, funziona perfettamente. «Illuminare» significa far passare informazioni nascoste dentro il tatuaggio stesso: quindi io stavo dicendo che non serviva aggiungere о cambiare niente, bastava rifinire, rinforzare qualche linea, riempire con le sfumature eccetera.
La frase non manca tanto per completare il suo splendore è, in forma indiretta, la richiesta del permesso di continuare il lavoro.
Seguono i saluti e gli auguri tradizionali, e infine la firma. Nella tradizione siberiana non viene mai usato il cognome, solamente il nome e il soprannome, nient’altro, perché l’appartenenza alla famiglia viene considerata una cosa privata.
Quando ho finito la lettera ero molto contento, mi sembrava una svolta nel mio destino. L’ho consegnata alle persone che si occupavano della circolazione della posta nella nostra cella. Loro erano obbligati a stare tutto il tempo alla finestra ad aspettare un segnale. Le lettere passavano su dei fili da una finestra all’altra: se erano indirizzate a qualcuno di quella cella, venivano consegnate al destinatario, altrimenti continuavano a passare di cella in cella, e nel caso di carcere in carcere. La posta della prigione era molto più sicura e veloce di quella normale, che tra l’altro non utilizzava nessuno. Nel giro di due settimane le lettere arrivavano in qualsiasi carcere della regione, per attraversare il Paese ci voleva meno di un mese. La galera dove spedivo la mia lettera si trovava lontano, ci andava del tempo.
Ho aspettato la risposta con ansia. Dopo due mesi e qualche giorno, dalla squadra dei «postini» si è staccato un ragazzo giovane che teneva in mano una piccola lettera scritta sul foglio di un quaderno a righe:
– Kolima, è per te, da Afanasij Nebbia.
Stavo esplodendo, ho preso dalle sue mani la lettera, l’ho aperta con furia. C’era scritto, con una calligrafia molto grezza, schiacciata:
Salute, caro fratello Nicolai Kolima, e lunghi anni nella gloria del Nostro Signore!
Io, Afanasij Nebbia, grazie a Gesù Cristo umile kol'sik, ricorderò nelle mie preghiere te e tutti i vagabondi onesti che vivono in questa benedetta Terra.
In gloria del Signore si respira bene, godendo la pace e il Suo amore.
Una gioia immensa mi dà la notizia del fratello Z…, che il Signore lo benedica e gli mandi anni lunghi, forza e salute.
La Madre, che con l’aiuto del Salvatore Gesù Cristo si illumina, con il suo stesso aiuto sarà continuata.
Un abbraccio di fratellanza e affetto a te, che Cristo sia con te, con la tua famiglia e che Lui e tutti i Santi proteggano la tua benedetta mano.
Afanasij Nebbia.
Aprivo questa lettera ogni ora, la leggevo e la rileggevo, ancora e ancora, come in cerca di qualcosa che poteva apparire tra le righe.
Ero molto fiero del fatto che mi avesse risposto con tanto rispetto e amore, come se ci conoscessimo da una vita, come se fossimo amici.
Molti nella cella sapevano bene chi era Nebbia e la mia autorità era aumentata perché era circolata la voce che avevo ricevuto una lettera da lui.
Ci ho messo quattro mesi a finire il tatuaggio di Nebbia, e un giorno il mio lavoro è stato visto per caso in infermeria da un vecchio tatuatore della casta Seme nero chiamato zio Kesja, che ogni tanto usciva dal blocco di sicurezza speciale per farsi fare delle iniezioni di farmaci che lo tenevano in vita.
Zio Kesja, utilizzando il suo potere, mi ha fatto avere in cella un pacco con una scatola di tè, sigarette, zucchero e un barattolo di miele. Nella lettera allegata mi faceva mille complimenti e diceva che era contento di vedere un lavoro eseguito da un giovane che non aveva abbandonato le bacchette e le tecniche tradizionali per le macchinette elettriche, da lui definite «sputi del diavolo».
A quel punto, incuriositi e toccati dal rispetto che mi mostrava il vecchio, in tanti hanno cominciato a chiedermi di tatuarli secondo le vecchie tecniche siberiane, anche la gente che era lontana dalla nostra tradizione, persone di caste diverse. Ed era bello vedere come uomini che fino al giorno prima giudicavo profondamente diversi, e con cui pensavo si potessero avere solo rapporti d’affari, riuscivano a farsi vicini: volevano sapere, chiedevano particolari della storia siberiana e del sistema dei tatuaggi; tra di noi si creava una specie di ponte, un collegamento fondato solo sulla curiosità verso un’altra cultura, senza nessun banale interesse legato agli affari criminali.
In quei giorni ho raccontato molte delle storie che da bambino avevo sentito da mio nonno e da altri vecchi. Tanti miei compagni di cella erano gente semplice, finita in prigione per crimini comuni, gente che non aveva dietro nessuna filosofia criminale. Uno di loro, un giovane uomo grande e grosso di nome Sura, stava scontando cinque anni di pena per aver ucciso una persona in circostanze poco chiare. Non amava parlarne, ma era chiaro che erano legate alla gelosia: in poche parole dietro a tutto c’era una storia d’amore e tradimento. Essendo forte, era conteso da diversi gruppi criminali: in prigione le autorità delle caste о delle famiglie cercano sempre di allearsi con le persone forti e intelligenti, per dominare sugli altri. Ma lui stava da solo, non si affiancava a nessuno e viveva la sua triste vita come un eremita. Ogni tanto qualcuno della famiglia siberiana lo invitava a bere il tè о il cifir, e lui veniva con piacere perché – diceva – eravamo gli unici a non proporgli di giocare a carte per poi imbrogliarlo e utilizzarlo come assassino. Parlava pochissimo, di solito ascoltava gli altri quando leggevano le lettere da casa e ogni tanto, quando qualcuno cantava, cantava anche lui.
Dopo la storia del tatuaggio di Nebbia e la mia improvvisa fama, lui ha cominciato a frequentare i siberiani più spesso, quasi ogni sera veniva alle nostre brande e chiedeva se poteva stare un po’ con noi. Una volta è arrivato con una fotografia, l’ha mostrata a tutti: era una vecchia foto che ritraeva un uomo anziano con la barba lunga e un fucile tra le mani. Aveva la cintura siberiana da caccia, con appeso il coltello e la sacca con i portafortuna e i talismani magici. Dietro la foto c’era una scritta: «Fratello Fédot, disperso in Siberia, anima buona e generosa, eterno sognatore e grande fedele», e una data, «1922».
– E mio nonno, era siberiano… Posso fare parte della famiglia siberiana, se mio nonno era uno di voi? – Sembrava molto serio e la sua domanda era priva di ogni ombra di vanità о di qualchev altro sentimento cattivo. Era una vera richiesta d’aiuto: Sura doveva essere stanco di stare da solo.
Gli abbiamo risposto che avremmo esaminato la foto e fatto delle domande a casa, per vedere se qualcuno dei vecchi si ricordava di lui.
Non abbiamo mandato la foto da nessuna parte, non abbiamo chiesto niente a nessuno, in quegli anni in Siberia le vite si perdevano in un grande vortice di storie umane. Abbiamo deciso di aspettare un po’ e poi prendere il gigante nella nostra famiglia: tanto era tranquillo, aveva già scontato due anni senza creare problemi, e non vedevamo nessun motivo per impedire a un essere umano di godere della buona compagnia e fratellanza, se le meritava (anche se le sue radici siberiane trovavano conferma solo in una vecchia foto).
Dopo una settimana gli abbiamo detto che poteva entrare nella famiglia, se prometteva di rispettare le nostre regole e leggi, e gli abbiamo restituito la foto dicendogli che nessuno purtroppo aveva riconosciuto suo nonno. Lui ci ha pensato un po’ su e poi ha confessato, con voce tremula, che la foto non era sua: l’aveva avuta dalla sorella che lavorava in qualche archivio storico, in un’università. Ci ha chiesto scusa per averci imbrogliato, ha detto che a lui piacevamo proprio come persone e che per questo ci teneva cosi tanto a entrare nella nostra famiglia. Mi ha fatto pena, ho capito che oltre a essere molto semplice e poco furbo aveva un’anima buona, non era per niente cattivo. Quelli come lui in prigione di solito morivano nei primi mesi, i più fortunati venivano usati come burattini da qualcuno dei criminali più esperti appartenenti a qualche casta.
Abbiamo avuto pietà di lui. Gli abbiamo permesso di vivere con noi, in famiglia, anche se non era un siberiano vero, perdonandolo perché aveva confessato il suo sbaglio. «Sura è diventato uno di noi», abbiamo annunciato la stessa sera, e tutti in cella erano molto sorpresi di questo fatto.
In poco tempo ha imparato le nostre regole, io gli spiegavo tutte le cose come si fa con i bambini, e lui le scopriva come le scoprono i bambini, senza nascondere il suo stupore.
Quando per me è arrivato il momento di uscire, lui mi ha salutato con affetto e mi ha detto che se non fosse stato per la storia del tatuaggio, non avrebbe mai deciso di affiancarsi ai siberiani e non avrebbe mai scoperto le nostre regole che riteneva giuste e oneste.
«Forse il mio umile mestiere gli ha salvato la vita, – ho pensato, – senza la famiglia in prigione sarebbe morto in una rissa».
Per me era una cosa molto seria, il tatuaggio. Per tanti miei amici era un gioco, gli bastava vedere qualche scarabocchio sulla pelle ed erano contenti. Altri la prendevano un po’ più sul serio, ma mica tanto.
Se ne parlava così, tra minorenni:
– E mio padre ha un gufo grande che tiene un teschio nelle zampe…
– Gufo significa rapinatore, te lo dico io…
– E teschio?
– Dipende.
– Ragazzi, lo so io, gufo con teschio significa rapinatore e assassino, ve lo giuro!
– Ma non raccontare balle! Rapinatore e assassino è una faccia di tigre con foglie di quercia, ne ha una mio zio!
Insomma si sparava un po’ a caso, cercando d’indovinare.
Per me invece era proprio un’altra storia, una storia complicata. Mi piacevano i soggetti che lasciavano traccia della mano che li aveva eseguiti. Per questo chiedevo a mio padre, ai miei zii e ai loro amici di raccontarmi dei tatuatori che avevano conosciuto. Studiavo i loro tatuaggi, cercando di capire quali erano state le tecniche che avevano usato per ottenere effetti diversi. Ne parlavo poi con il mio maestro, nonno Lèsa, che mi aiutava a capire meglio le tecniche degli altri e m’insegnava ad adattarle al mio modo di vedere i soggetti, di disegnarli, di tatuarli sulla pelle.
Lui era contento, perché vedeva che m’interessavano i soggetti non solo per motivi legati alla tradizione criminale, ma anche per il loro valore artistico.
Già nella fase di studio dei disegni, ho cominciato a chiedermi e a chiedergli perché ogni tatuaggio non poteva essere inteso esclusivamente come un’opera d’arte, piccola о grande che fosse. Il mio maestro mi rispondeva che la vera arte è una forma di protesta, quindi ogni opera d’arte deve creare contraddizioni, far discutere. Per la sua filosofia, il tatuaggio criminale era la forma d’arte più pura che esisteva al mondo. La gente – diceva – odia i criminali, però ama i loro tatuaggi.