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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

Текст книги "Сибирское воспитание"


Автор книги: Николай Лилин



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Io ribattevo che forse era possibile stabilire una connessione tra arte di qualità e significato profondo, filosofia della tradizione siberiana. Lui mi rispondeva, dicendo con molta fiducia nella voce:

– Quando si arriverà al punto che la gente qualsiasi avrà voglia di farsi tatuare i simboli della nostra tradizione, allora avrai ragione… Ma non credo che succederà mai, perché la gente odia noi e tutto quello che è legato alla nostra vita.

Boris il macchinista

A metà degli anni Cinquanta il governo sovietico ha vietato di tenere in casa le persone malate di mente, costringendo i parenti a trasferirle a forza in istituti speciali. Questa triste realtà ha spinto molti genitori, che non avevano voluto separarsi dai loro bambini, a cercare dei posti dove il braccio della legge non arrivava. Cosi, nel giro di dieci anni, la Transnistria si è riempita di famiglie che venivano da tutta l’Urss, perché sapevano che nella tradizione criminale siberiana le persone malate nello spirito о nel corpo sono considerate sacre, definite messaggeri di Dio e chiamate «Voluti da Dio».

Sono cresciuto tra di loro, tra i Voluti da Dio, molti sono diventati miei amici: non mi sembravano normali, per me erano normali, come tutti gli altri.

Loro non sanno odiare, sono capaci solo di amare e di essere se stessi, e se sono violenti hanno una violenza che non è mai spinta dalla forza dell’odio; questo è importante, perché cosi si comportano solo loro e i bambini piccoli, ma i bambini crescono e diventano molto spesso stronzi adulti, invece con i malati non succede cosi.

Boris era nato in Siberia, e abitava nel nostro quartiere con sua madre, zia Tatjana. Alla nascita era un bambino normale, ma una notte gli sbirri erano arrivati a casa dei suoi: il padre era un criminale, e aveva rapinato un treno blindato, portando via molti diamanti. Gli sbirri volevano sapere dove aveva nascosto i diamanti e chi altro era stato a rapinare il treno, l’uomo non parlava, allora gli sbirri avevano preso il piccolo Boris, che aveva sei anni, e con il calcio del fucile lo avevano picchiato sulla testa, per far parlare suo padre. Il padre non aveva parlato e alla fine lo avevano fucilato.

Boris, avendo subito un forte trauma, non è più cresciuto mentalmente, è sempre rimasto all’età di sei anni.

La madre si era trasferita in Transnistria con lui, abitavamo vicini e lui era sempre a casa nostra. Mio nonno gli voleva un sacco di bene, e anch’io. Facevamo volare i colombi insieme, andavamo al fiume, rubavamo le mele nei giardini dei moldavi, pescavamo con le reti le notti d’estate…

Lui aveva una fissa, si credeva un macchinista. In città, lontano dalla nostra zona, vicino alla ferrovia, c’era un vecchio treno a vapore esposto come un monumento, fermo sui binari tagliati. Boris ci saliva sopra e faceva finta di essere il capo macchinista. Giocava, insomma. Noi andavamo con lui, ci mettevamo tutti insieme in cabina e lui s’incazzava se entravamo con le scarpe, perché nel suo treno Boris camminava scalzo, aveva pure una scopa per pulire tutto e gestiva quel lo spazio come una casa.

I macchinisti della stazione gli volevano bene, gli avevano persino regalato un vero cappello da macchinista, somigliava a quello degli ufficiali marinai, bianco sopra, con un bordo verde e con la visiera nera di plastica. Aveva anche lo stemma d’oro delle ferrovie, che brillava al sole tanto che si vedeva da lontano. Lui era molto orgoglioso di quel regalo, quando si metteva il cappello diventava subito serio e cominciava a parlare con noi come parlano gli addetti della ferrovia con i passeggeri, tipo «Rispettabili compagni» о «Cittadini, per cortesia, chiedo la vostra attenzione», era troppo bella, quella trasformazione.

Mio padre una volta gli aveva regalato una maglietta che qualcuno gli aveva dato in prigione, quand’era stato dentro per un anno in Germania. Su questa maglietta di una qualche associazione umanitaria erano disegnate due colombe: dietro una c’era la bandiera tedesca, dietro l’altra la bandiera russa, e in tutte e due le lingue c’era scritto «Pace, amicizia, collaborazione». Boris l’aveva presa in mano ed era rimasto mezz’ora fermo immobile a guardarla. Era scioccato dai colori, perché da noi a quei tempi non c’erano vestiti colorati, tutto era abbastanza grigio, alla moda sovietica. Invece quel vestito brillava di colori accesi, e Boris lo aveva fatto subito diventare il suo capo preferito. Andava sempre in giro con quella maglietta, ogni tanto si fermava improvvisamente, la tirava su con le mani e guardava il disegno, sorridendo e sussurrando qualcosa.

Boris era un tipo molto comunicativo, non era affatto timido, poteva parlare per delle ore anche con degli sconosciuti. Era diretto, diceva tutto quello che pensava. Quando faceva un discorso, ti guardava dritto negli occhi e aveva uno sguardo forte ma allo stesso tempo rilassato, non teso. Sapeva leggere, glielo aveva insegnato la vedova Nina, una donna che abitava da sola e che molto spesso noi ragazzini andavamo a trovare. La aiutavamo a sbrigare i lavori pesanti nell’orto, e lei ci offriva da mangiare qualcosa di buono. Era stata insegnante di lingua e letteratura russa, era una donna colta. Perché le faceva piacere, e con il consenso di zia Tatjana, aveva insegnato a Boris a leggere e scrivere, cosi ogni sera lui poteva leggere un passo di qualche libro a sua madre.

Boris aveva un compagno fedele, un gatto, Barsic, che gli andava dietro come un cane. Che coppia che erano quei due! Sembravano usciti da una storia comica.

Nel ’92 in Transnistria c’è stata una guerra. Dopo la caduta dell’Urss, la Transnistria è rimasta fuori dalla federazione russa e non apparteneva più a nessuno. I Paesi più vicini come la Moldavia e l’Ucraina avevano delle mire su di lei. Ma gli ucraini avevano già le loro difficoltà, per via dell’alto tasso di corruzione nel governo e nelle strutture dirigenti. I moldavi, nonostante la situazione disastrosa del Paese – assoluta povertà se non miseria di un popolo prevalentemente contadino – hanno fatto un patto con i rumeni, e usando la forza militare hanno cercato di occupare il territorio transnistriano. Secondo l’accordo, la Transnistria sarebbe stata divisa in maniera particolare: il governo moldavo avrebbe controllato il territorio, lasciando agli industriali rumeni il compito di gestire le numerose fabbriche dove si producevano gli armamenti, costruite dai russi ai tempi dell’Urss e dopo rimaste completamente sotto il controllo dei criminali, che avevano trasformato il territorio transnistriano in un vero e proprio supermercato di armi.

Così i moldavi senza nessun preavviso sono passati all’azione: i loro carri armati sono entrati nelle città di Bender e Dubasari, che si trovano sulla parte destra del fiume Dnestr', ai confini con la Moldavia. Il 22 giugno a Bender, e cioè nella nostra città, è penetrata una divisione di carri armati moldavi che ha fatto da copertura a dieci brigate militari, tra cui una di fanteria, una di fanteria speciale e due gruppi di militari rumeni. Gli abitanti di Bender hanno formato delle squadre di difesa, tanto di armi ne avevano in abbondanza. E scoppiata una breve ma molto sanguinosa guerra che è durata un’estate, dopo di che i criminali della Transnistria hanno buttato i militari fuori dalla loro terra. Poi, hanno cominciato a occupare il territorio moldavo. A quel punto l’Ucraina, per paura che i criminali vincendo la guerra portassero disordini pure sul loro territorio, ha chiesto alla Russia d’intervenire. La Russia, riconoscendo gli abitanti della Transnistria come suoi cittadini, si è presentata con un’armata per «assistere al processo di pace». Ha instaurato un regime militare, ha rinforzato i distretti di polizia, ha dichiarato la Transnistria «zona di estremo pericolo». I militari russi pattugliavano le strade con macchine blindate, imponevano il coprifuoco dalle otto di sera alle sette di mattina. Tanta gente ha cominciato a sparire nel nulla, nel fiume venivano trovati i corpi dei morti torturati. Un periodo che mio nonno chiamava «ritorno agli anni Trenta», e che è durato per molto tempo. Mio zio Sergeij è stato ammazzato dalle guardie in galera, molte persone per salvarsi hanno dovuto abbandonare la loro terra e rifugiarsi in diverse parti del mondo.

Boris non sapeva niente di questa situazione, perché la sua mente di bambino non contemplava la realtà, tanto più la realtà fatta di violenza brutale e di logiche politico-militari.

Lui voleva guidare il suo treno, e lo faceva anche di notte, perché come altri treni in tutto il mondo, pure il suo treno a volte andava avanti di notte… Una sera, mentre andava verso la ferrovia, i militari gli hanno sparato alla schiena come dei vigliacchi, senza neanche uscire dalla macchina blindata, e l’hanno lasciato morto sulla strada.

Quando l’ho saputo mi sono sentito subito adulto, qualcosa dentro di me è morto per sempre: l’ho avvertito molto bene, è stata una sensazione quasi fisica, quando attraverso il tuo corpo ti rendi conto che certe idee, fantasie, comportamenti, non li riavrai mai più, per colpa del peso che ti è caduto sulle spalle.

Mio nonno è impallidito e tremava dalla rabbia, non è stato così male neanche quando hanno ammazzato mio zio, suo figlio. Continuava a ripetere che quella gente era maledetta, che la Russia stava diventando un inferno, perché gli sbirri ammazzavano gli angeli.

Mio padre e altri uomini del quartiere sono andati nella zona degli sbirri, e a notte fonda, quando si sono spente le luci nelle loro baracche, hanno scaricato lì dentro un inferno di piombo. Era un manifesto della rabbia cieca e totale, un disperato grido di dolore. Hanno ammazzato qualche sbirro, ne hanno feriti un casino, ma cosi purtroppo hanno solo fatto vedere a tutta la Russia che la presenza della polizia da noi era davvero necessaria.

Nessuno sapeva cosa succedeva veramente in Transnistria, le notizie in televisione presentavano le cose in maniera tale che, dopo aver guardato quella merda, anche a me veniva il dubbio che tutto quello che conoscevo fosse irreale.

Mi ricordo il corpo di Boris quando lo hanno portato a casa, raccogliendolo dalla strada. Era la cosa più triste che avessi mai visto.

Sulla faccia gli era rimasta un’espressione di paura e dolore che non gli avevo mai visto prima. La sua maglietta con le colombe era bucata dai proiettili e piena di sangue. Teneva il suo cappello da macchinista ancora stretto tra le mani. La posizione del corpo era scioccante: per morire si era messo come i neonati, le ginocchia al petto, stringendosi tutto. Si capiva che negli ultimi istanti doveva aver sentito un dolore forte. Gli occhi erano spalancati e gelidi, conservavano una paura disperata che si trasformava in una specie di domanda: «Perché mi sento cosi male?»

L’abbiamo sepolto nel cimitero del nostro quartiere.

C’era il mondo, al suo funerale, gente arrivata da tutta la Transnistria. Da casa sua al cimitero si è formata una grande fila e secondo una vecchia tradizione siberiana la sua bara è stata portata fino alla tomba passando di mano in mano, tra la gente… Tutti baciavano la sua croce, molti piangevano, chiedevano con rabbia giustizia. La sua povera madre guardava tutto e tutti con occhi impazziti.

Un anno dopo, le cose sono peggiorate. Gli sbirri si sono messi a eliminare i criminali alla luce del sole, a sparare per strada. Io ho avuto la mia seconda condanna minorile e, quando sono uscito, non riconoscevo più il posto dov’ero nato. Dopo mi sono capitate molte cose, ma passando tra tutte le esperienze ho continuato a pensare che la legge siberiana aveva ragione: nessuna forza politica, nessun potere imposto con una bandiera vale tanto quanto la libertà naturale di una singola persona. Quanto la libertà naturale di Boris.

Il giorno del mio compleanno

Noi ragazzi di Fiume Basso vivevamo davvero seguendo le leggi criminali siberiane, avevamo un robusto sentimento religioso ortodosso, con un’influenza pagana molto forte, e venivamo chiamati da tutto il resto della città «Educazione siberiana» per i nostri modi di fare. Non dicevamo parolacce, non offendevamo mai il nome di Dio о della madre, non parlavamo senza rispetto di una persona anziana, di una donna incinta, di un bambino piccolo, di un orfano о di un disabile. Eravamo abbastanza inquadrati e a dire la verità non avevamo bisogno delle parolacce per sentirci adulti come i nostri coetanei di altri quartieri, perché eravamo trattati come se facessimo veramente parte della comunità criminale, eravamo una vera banda, composta da minorenni, con la gerarchia del modello criminale e con le responsabilità che i criminali adulti ci avevano dato.

Il compito che avevamo era fare le sentinelle. Andavamo in giro per la nostra zona, passavamo tanto tempo ai confini con gli altri quartieri e comunicavamo agli adulti ogni movimento anomalo. Se nel quartiere passava un tipo sospetto, un poliziotto, un infame, un criminale di un altro quartiere, le nostre autorità adulte lo sapevano in pochi minuti.

Quando arrivavano i poliziotti, di solito gli bloccavamo la strada, ci mettevamo seduti о sdraiati davanti alle loro macchine costringendoli a fermarsi. Quelli uscivano e ci spostavano a calci nel sedere о tirandoci per le orecchie, noi facevamo la lotta con loro. Di solito sceglievamo il più giovane e ci buttavamo addosso a lui in tanti, qualcuno lo picchiava, qualcuno si attaccava a un braccio mordendolo, un altro si aggrappava alla schiena e gli portava via il cappello, un altro ancora gli strappava i bottoni della divisa о gli tirava fuori la pistola dalla custodia. Andavamo avanti così finché lo sbirro non andava in esaurimento, о finché i suoi colleghi non cominciavano a picchiare sul serio.

I più sfortunati di noi si beccavano delle manganellate in testa, perdevano un po’ di sangue e via.

Una volta un mio amico ha tentato di rubare la pistola dalla custodia di un poliziotto, quello gli ha bloccato la mano in tempo, solo che l’ha stretta così forte che il mio amico ha premuto il grilletto e involontariamente gli ha sparato nella gamba. Appena abbiamo sentito lo sparo ci siamo messi a correre da tutte le parti, e mentre correvamo quegli imbecilli hanno iniziato a spararci dietro. Per fortuna non hanno colpito nessuno di noi, ma correndo sentivo le pallottole passarci vicine. Una è finita contro il marciapiede, staccando un pezzo di cemento che mi ha colpito in faccia. La ferita era piccola e per niente profonda, dopo non mi hanno dato neanche un punto, però per qualche strana ragione da quel buco usciva un casino di sangue e quando siamo arrivati davanti a casa del mio amico Mei, sua mamma, zia Irina, mi ha preso in braccio e ha cominciato a correre verso casa dei miei, gridando per tutto il quartiere che i poliziotti mi avevano sparato in testa. Inutilmente cercavo di calmarla, era troppo presa dalla corsa, e alla fine, a qualche metro da casa, attraverso il sangue che mi copriva gli occhi, ho visto mia mamma diventare pallida come la morte, con un aspetto già da funerale. Quando zia Irina si è fermata davanti a lei, io mi sono girato come un serpente per liberarmene e ho fatto un salto dalle sue braccia, atterrando in piedi.

Mia mamma mi ha guardato la ferita e mi ha detto di entrare in casa e poi ha dato a zia Irina un calmante, per toglierle l’agitazione.

Si sono sedute vicine sulla panchina nel cortile, bevendo valeriana e piangendo tutte e due. Io allora avevo nove anni.

Un’altra volta i poliziotti sono usciti tutti dalle macchine, per sbarazzarsi di noi in fretta. Ci hanno preso per le gambe о per le braccia e ci hanno lanciato sul bordo della strada; noi ci alzavamo e tornavamo al centro, e gli sbirri ricominciavano uguale. Per noi era un gioco infinito.

Uno dei miei amici ha approfittato di un attimo di distrazione di uno sbirro e ha tirato giù il freno a mano della sua macchina. Eravamo in cima a una piccola collina, su una strada che portava al fiume, cosi la macchina è partita come un missile e i poliziotti l’hanno guardata impietriti ma con le facce arrabbiatissime fare tutto il percorso, entrare in acqua e _ ~ sparire come un sottomarino. A quel punto siamo spariti anche noi più in fretta del solito, per non beccarci troppe botte.

Oltre alle sentinelle facevamo anche i messaggeri.

Siccome nella comunità siberiana non si usa comunicare attraverso il telefono, che è considerato un mezzo insicuro e soprattutto un simbolo disprezzabile, è molto sviluppata la cosiddetta «strada»: cioè la comunicazione attraverso un misto di messaggi passati a voce, scritti nelle lettere о codificati nelle forme di alcuni oggetti.

Un messaggio a voce si chiama «soffietto». Quando un criminale adulto vuole fare un soffietto chiama un minorenne qualsiasi, anche suo figlio, e gli dice il contenuto del messaggio in lingua criminale fenja, che proviene dall’antica lingua degli antenati dei criminali siberiani, il popolo degli Efei.

I messaggi detti a voce sono sempre corti e hanno un significato concreto, vengono usati nei rapporti quotidiani, per questioni poco complicate.

Quando mio padre mi chiamava per affidarmi un messaggio vocale da portare a qualcuno, mi diceva: «Vieni qua, che devo fare un soffietto». Poi mi diceva il contenuto, tipo: «Vai da zio Venja e digli che qua la polvere sta come un palo», il che equivaleva a un invito immediato per discutere di una cosa importante. Io dovevo partire subito in bicicletta, salutare per bene zio Venja, dire due parole di circostanza che non c’entravano niente con il messaggio, come voleva la tradizione siberiana, ad esempio chiedergli della sua salute, e solo dopo potevo arrivare al dunque: «Porto per voi un soffietto da mio padre». Quindi dovevo aspettare che lui mi desse il permesso di riferirglielo; lui me lo dava, ma senza parlare in maniera diretta. Umilmente, per non gettare alcuna ombra di prepotenza, mi rispondeva: «Allora che Dio ti benedica, figliolo» о «Che lo Spirito di Gesù Cristo sia con te», facendomi capire che era pronto ad ascoltare. Io riferivo il messaggio e aspettavo la sua risposta. Il fatto è che non potevo andare via senza una risposta, anche se zio Venja о chi per lui non aveva niente da dire doveva comunque inventarsi qualcosa. «Di’ a tuo padre che affilerò i tacchi, vai con Dio», mi diceva lasciando intendere che accettava l’invito e sarebbe passato al più presto. Se non voleva dire niente, diceva: «Come la musica per l’anima, cosi è per me una buona soffiata, torna a casa con Dio, che Lui dia a tutta la vostra famiglia salute e vita lunga». A quel punto facevo anch’io gli auguri di rito e me ne tornavo a casa il più in fretta possibile. Più eri veloce, più venivi apprezzato come messaggero, meglio eri ricompensato. A volte riuscivo a rimediare una banconota da venticinque rubli (a quei tempi una bici ne costava cinquanta), altre volte un dolce о una bottiglia di acqua gasata con lo sciroppo.

Anche nella consegna delle lettere avevamo una nostra piccola parte.

Le lettere potevano essere di tre tipi: la ksiva (che nella lingua criminale significa documento), la maljava (piccolina) e la rospìca (firma).

La ksiva era una lettera lunga e importante in lingua criminale. Veniva scritta molto di rado, da criminali autorevoli e vecchi, soprattutto per far arrivare gli ordini dentro il carcere, influenzare la politica di gestione delle galere, fomentare le rivolte о convincere a risolvere in un certo modo una situazione calda. Una lettera simile veniva passata di mano in mano, di galera in galera, e per l’importanza del suo contenuto non veniva mai affidata a un messaggero qualunque, solo a persone molto vicine alle autorità criminali. Noi minorenni non abbiamo mai portato lettere del genere.

La maljava, invece, era la tipica lettera che noi portavamo quasi sempre, avanti e indietro. Di solito veniva mandata dalla galera per comunicare con il mondo criminale fuori, senza essere controllati dal sistema carcerario. Era una lettera piccola, sintetica, sempre in lingua criminale. In un giorno ben preciso, ogni secondo martedì del mese, noi andavamo fuori dalla prigione di Tiraspol'. I prigionieri quel giorno «sparavano i fuochi», cioè, usando gli elastici delle mutande, lanciavano come con la fionda le loro lettere oltre il muro della prigione e noi le raccoglievamo. Ogni lettera aveva un indirizzo in codice, una parola о un numero.

Queste lettere venivano scritte da un po’ tutti i prigionieri e usavano la «strada» della prigione, quel sistema di comunicazione da cella a cella di cui ho già parlato: attraverso delle corde montate di notte da una finestra all’altra venivano «mandati i cavalli», cioè vari pacchi, messaggi, lettere eccetera. Tutte le lettere venivano poi raccolte da una squadra di prigionieri che si trovava nei blocchi più vicini al muro, dove le finestre non avevano lamiere spesse ma solo le classiche sbarre di ferro. Da li, delle persone chiamate «missilisti» lanciavano le lettere una dopo l’altra oltre il muro. Venivano pagati per questo dalla comunità criminale e non avevano nessun altro compito in prigione, si esercitavano tutti i giorni sparando oltre il muro pezzi di stracci con cui si lavano i pavimenti.

Per lanciare una maljava si faceva il «missile», un piccolo tubo di carta che aveva una lunga coda morbida, di solito fatta con i fazzoletti di carta (molto difficili da procurarsi in prigione): questo tubo si piegava da una parte, formando una specie di gancio che si fissava a un’estremità dell’elastico; poi si stringeva con le dita e si tirava, nel frattempo un’altra persona accendeva la coda di carta morbida e quando quella prendeva fuoco il tubicino veniva sparato.

La coda in fiamme ci permetteva d’individuare la lettera quando cadeva per terra. Bisognava correre il più in fretta possibile, per spegnere il fuoco e non far bruciare il tubicino con dentro la preziosa lettera. Eravamo quasi sempre almeno in dieci, e in mezz’ora riuscivamo a raccogliere anche più di cento lettere. Tornando a casa, le distribuivamo alle famiglie e agli amici dei prigionieri. Eravamo pagati per questo lavoro.

Ogni comunità criminale aveva il suo giorno preciso in cui lanciare le lettere, una volta al mese. In alcuni casi, se c’era una lettera molto urgente, tra criminali si usava aiutarsi l’un l’altro, anche se si apparteneva a comunità diverse. Cosi a volte le lettere di membri di altre comunità finivano insieme alle lettere dei nostri criminali, e noi le portavamo comunque al destinatario. О meglio, valeva la regola che a consegnarla doveva essere quello che l’aveva raccolta da terra: era una regola che serviva per evitare i litigi tra di noi. In casi come questi non eravamo pagati, ma di solito ci davano qualcosa. Portavamo le lettere a casa del Guardiano di zona, uno dei suoi aiutanti le prendeva e le metteva in cassaforte: dopo passava la gente, diceva una parola о un numero in codice, e lui, se trovava una lettera segnata con lo stesso codice, la consegnava al destinatario. Questo servizio non era pagato e rientrava nelle responsabilità del Guardiano; se succedevano casini con la posta, spariva qualche lettera о nessuno di noi andava a raccoglierla sotto la prigione, il Guardiano poteva essere punito severamente, anche finire ammazzato.

La rospica, cioè «la firma», era un tipo di lettera che girava sia in prigione che fuori. Poteva essere una specie di lasciapassare fornito da un’autorità criminale, che assicurava la permanenza tranquilla e l’accoglienza fraterna di un criminale nei posti dove non conosceva nessuno, ad esempio nelle galere lontane dalla sua regione о in città dove si recava per viaggi d’affari. Come ho già detto, la firma veniva anche tatuata direttamente sulla pelle.

In altri casi la rospica si usava per diffondere informazioni importanti, ad esempio per convocare a una grande riunione di autorità criminali tutti quelli che avevano un qualche potere, о per far arrivare apertamente e senza rischi un ordine destinato a più persone; grazie al linguaggio cifrato, infatti, anche se la firma finiva nelle mani della polizia non succedeva niente.

Lettere cosi io le ho consegnate un paio di volte: erano normali, sempre aperte. Le autorità criminali non chiudono mai le loro lettere, e non solo perché sono in codice, ma anche e soprattutto perché il contenuto non deve mai gettare un’ombra su di loro, di solito ha un carattere dimostrativo, per esibire i poteri delle leggi e spargere una specie di carisma criminale.

Una volta ho consegnato una firma con un ordine che proveniva dalle galere della Siberia, ed era indirizzato alle galere dell’Ucraina. Ai criminali ucraini veniva ordinato di rispettare in carcere alcune regole, ad esempio venivano proibite le relazioni omosessuali e le punizioni di singoli detenuti tramite umiliazioni fisiche о di carattere sessuale. In calce a quella lettera avevano messo le loro firme trentasei autorità criminali siberiane. La firma capitata nelle mie mani era una delle tante copie di quel documento, destinato a essere riprodotto e diffuso tra tutti i criminali in prigione e in libertà nel territorio dell’Urss.

Un’altra forma di comunicazione, chiamata «lancio», avveniva attraverso la consegna di certi oggetti.

In pratica veniva dato a un messaggero qualsiasi, anche minorenne, un oggetto che nella comunità criminale aveva un significato particolare. Il compito del messaggero era portarlo al destinatario dicendo chi lo mandava, non c’era bisogno di aspettare una risposta.

Un coltello rotto significava la morte di qualcuno della banda, una persona vicina, ed era un gran brutto segno. Una mela tagliata a metà era un invito a dividere il bottino. Un pezzo di pane secco dentro un fazzoletto di stoffa, invece, era un avvertimento preciso: «Attento, le forze dell’ordine sono vicine, c’è stata una svolta importante nel caso che ti riguarda». Un coltello avvolto in un fazzoletto era un invito all’azione per un assassino a pagamento. Un pezzo di corda con un nodo stretto in mezzo significava: «Non sono responsabile di quello che sai». Un po’ di terra dentro un fazzoletto voleva dire: «Ti prometto che manterrò il segreto».

Esistevano significati più semplici e significati più complessi, «buoni» – ad esempio a scopo di protezione – e «brutti» – offese о minacce di morte.

Se qualcuno sospettava che una persona avesse rapporti che compromettevano la sua dignità criminale, magari con la polizia о con altre comunità criminali (senza il permesso della propria), gli recapitavano una piccola croce insieme a un chiodo, о in casi estremi un topo morto, a volte con in bocca una monetina о una banconota, segno inequivocabile della promessa di punizione estrema. Quello era il «lancio brutto», il peggiore: morte sicura.

Se invece volevi invitare un amico a far festa, per divertirsi, bere e passare il tempo in allegra compagnia, gli mandavi un bicchiere vuoto. Quello era un «lancio buono».

Io portavo spesso messaggi di questo genere, mai niente di brutto. Più che altro comunicazioni organizzative, inviti, promesse.

Tra i compiti che avevamo c’era anche quello di cercare di organizzarci in maniera decente per portare avanti il glorioso nome del nostro quartiere: in parole semplici, dovevamo essere capaci di seminare il caos tra i minorenni degli altri quartieri.

La cosa andava fatta nel modo giusto, perché la nostra tradizione vuole che la violenza sia sempre motivata, anche se poi il risultato finale non cambia, perché una testa spaccata resta una testa spaccata.

Con noi lavoravano i vecchi, i criminali anziani che si erano ritirati e vivevano grazie al sostegno dei criminali più giovani. Da eccentrici pensionati, si occupavano di noi minorenni e della nostra identità criminale.

Ce n’erano tanti nel quartiere, e tutti provenivano dalla casta degli Urea siberiani: seguivano la vecchia legge, disprezzata dalle altre comunità criminali perché obbligava a una vita umile e degna, piena di sacrifici, dove al primo posto si mettevano ideali come la moralità e il sentimento religioso, il rispetto verso la natura e verso la gente semplice, i lavoratori e tutti quelli che venivano usati о sfruttati dal governo e dalla classe dei ricchi.

I ricchi noi li chiamavamo con un’antica parola siberiana, upiri, creature della mitologia pagana che abitano nelle paludi e nei boschi profondi e si nutrono di sangue umano: veri e propri vampiri siberiani.

Per questo la nostra tradizione c’impediva di compiere crimini basati sull’accordo preso con la vittima, perché era considerato indegno comunicare con i ricchi e i rappresentanti del governo, che potevano essere solo aggrediti о uccisi, ma mai minacciati о costretti ad accettare accordi. Quindi reati come l’estorsione, il racket о il controllo di attività illecite attraverso taciti accordi con la polizia e il Kgb erano decisamente disprezzati. Si facevano solamente rapine e furti, nei traffici illeciti non si prendeva nessun accordo con nessuno, insomma erano gestiti in maniera autonoma.

Ma le altre comunità non ragionavano cosi, soprattutto le nuove generazioni si comportavano alla maniera europea e americana; era gente priva di moralità che rispettava solamente i soldi e a tutti i costi cercava di creare un sistema criminale a piramide, una specie di monarchia criminale, a differenza del nostro sistema che poteva essere paragonato a una rete, dove tutti sono legati tra loro e nessuno ha potere personale, ognuno fa la sua parte nell’interesse comune.

Già quando io ero minorenne in molte comunità crimina li i singoli membri dovevano meritarsi il diritto alla parola, altrimenti erano trattati come persone inesistenti. Invece nella nostra comunità il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi.

La differenza tra l’educazione che avevamo ricevuto noi e l’educazione (o l’assenza di educazione) dei membri di altre comunità creava un vuoto, una distanza immensa tra di noi. Per questo, anche se non ne eravamo consapevoli, sentivamo il bisogno di far valere i nostri principi e le nostre leggi, e di costringere gli altri a rispettarle, a volte anche con la violenza.


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