Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
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– Ehi, Kolima, vieni un po’ qua.
L’ho seguito fino al tetto, nella casetta dove teneva i colombi. Sono entrato dopo di lui. Si è girato di scatto e mi ha guardato come se mi stesse misurando:
– Tu vai in città, e controlla che tutto sia a posto. Lascia parlare gli altri, stai solamente a sentire. E fai attenzione, soprattutto con gli ebrei e gli ucraini… – ha spostato uno strato di fieno che ricopriva il pavimento e mi ha indicato una piccola fessura tra i listelli di legno. – Alza l’asse che balla e prendi quello che trovi. Non separartene mai, e se qualcuno si mette in mezzo a voi, usala. L’ho caricata io —. Poi è uscito fuori, lasciandomi da solo davanti alla piccola botola. Ho alzato l’asse e ho trovato una Nagant, la mitica pistola a tamburo amata e usata dai nostri vecchi criminali.
Quello che mi aveva detto nonno Kuzja aveva un significato preciso nel linguaggio criminale: ricevere una pistola caricata da un criminale autorevole è come avere il permesso di usarla in qualunque situazione. Sei protetto, non devi preoccuparti delle conseguenze. In molti casi, se la situazione diventa calda, basta dire «Ho una pistola caricata da…» e tutto si risolve a tuo favore, perché a quel punto andare contro di te equivale ad andare contro la persona che ti ha caricato la pistola.
Fuori dalla casa di nonno Kuzja ci aspettavano due autisti adulti, due giovani criminali della nostra zona che avevano ricevuto l’ordine di portarci dove volevamo ma di non intervenire se non in caso di vita о di morte.
Prima di salire nelle macchine abbiamo parlato un po’, per fare un minimo di piano strategico. Abbiamo deciso che i soldi li teneva Gagarin, il più grande tra tutti noi, a cui toccava anche la responsabilità di parlare con la gente; noi invece ci saremmo divisi in due gruppi: il primo copriva le spalle a Gagarin, e il secondo, mentre lui parlava, andava in giro a ficcare il naso negli affari degli altri, per trovare una traccia.
– E la prima volta che ci tocca fare il mestiere degli sbirri, – ha detto Gagarin.
Ci siamo fatti sopra due risate, poi siamo partiti per fare il giro di Bender. In realtà c’era poco da ridere: era come scendere all’inferno.
In macchina Mei mi ha detto che si sentiva un po’ agitato e mi ha dato una pistola, dicendomi:
– Dài, lo so che come al solito sei venuto solo con la lama. Ma questa è una faccenda seria, tienila anche se ti dà fastidio, fallo per me.
Gli ho detto che ero già a posto, e lui si è tranquillizzato, facendomi pure l’occhiolino:
– Allora sei passato da tuo zio…
Io mi sentivo troppo importante per spifferare subito (e in modo cosi semplice) il segreto della pistola che avevo dietro, e allora mi sono limitato a sorridere e a cantare piano:
– «Mamma Siberia, risparmiami la vita…»
Siamo arrivati in Centro, nel locale tenuto da un vecchio criminale, Pavel', Guardiano della zona. Pavel' non era siberiano e non viveva secondo le nostre regole, dunque con lui dovevamo essere diplomatici, ma senza esagerare: arrivavamo pur sempre dalla zona più vecchia e importante nel mondo criminale, Fiume Basso, ci meritavamo rispetto per il so lo fatto di essere siberiani.
Pavel' era nel locale con un gruppo di amici, gente del sud della Russia che non seguiva regole precise se non quelle del dio denaro, gente che esibiva la ricchezza, che portava vestiti alla moda e molto oro – catene, braccialetti, anelli. A noi quest’abitudine non piaceva: secondo la tradizione siberiana un criminale degno ha addosso solamente i suoi tatuaggi, il resto è umile, come insegna il Signore.
Abbiamo salutato, entrando. Dal tavolo dove il padrone giocava a carte con i suoi amici si è alzato un uomo di circa trent’anni, magro, pieno d’oro, con una giacca rossa profumata come una rosa di primavera o, come direbbe mio zio Sergeij, «come una troia in mezzo alle gambe». Ci ha parlato in tono molto aggressivo: già alle prime battute, secondo il nostro regolamento, si sarebbe tranquillamente guadagnato una lama.
Era un provocatore: gli uomini come lui sono come i cani, che abbaiano per spaventare i passanti. Hanno solamente questa funzione. Un criminale educato ed esperto lo sa e li ignora, non li guarda neanche, così si capisce subito che lui non è un fraer, un buffone.
Siamo passati oltre e ci siamo diretti al tavolo, lasciando il coglione a urlare e bestemmiare.
Il vecchio Pavel' ci ha guardati con attenzione e ci ha chiesto in una maniera molto grezza cosa volevamo.
Gagarin aveva alle spalle tre condanne minorili e un anno prima aveva ammazzato due sbirri, e nei suoi diciassette anni di vita aveva già accumulato abbastanza esperienza per sapere come parlare a gente come quella, così gli ha riassunto subito i termini della situazione.
Gli ha detto dei soldi, e della necessità di trovare i colpevoli.
In un attimo tutto è cambiato. Pavel' si è alzato e con un movimento brusco si è aperto la camicia, mostrando il petto ricoperto di tatuaggi e di catene d’oro. Contemporaneamente si è messo a urlare:
– Non si può perdonare chi ha fatto un gesto simile, giuro su Dio che se lo trovo lo ammazzo con le mie mani!
Gagarin, tranquillo e calmo come un morto il giorno del suo funerale, gli ha detto che non c’era bisogno di ammazzarlo, questo lo avremmo fatto noi, però far girare la voce e darci una mano a trovarlo sarebbe stato utile, poi gli ha ripetuto che avremmo ricompensato con molti soldi chi ci poteva aiutare.
Pavel' ci ha assicurato che avrebbe fatto di tutto per risalire al bastardo, poi ci ha offerto qualcosa da bere, ma noi abbiamo chiesto il permesso di andarcene, dato che dovevamo fare ancora un bel po’ di giri.
Uscendo abbiamo notato che stavano già cominciando ad arrivare davanti al locale macchine e motorini: evidentemente il vecchio Pavel' aveva radunato quelli della sua zona, per spiegare la questione.
La seconda tappa era il quartiere Ferrovia. I criminali di Ferrovia si occupavano principalmente di furti negli appartamenti. La loro era una comunità multietnica, con delle regole criminali che valevano anche nella maggior parte delle galere delTUnione Sovietica. Tutto si basava sul collettivismo; le massime autorità, i Ladri in legge, gestivano i soldi di tutti.
Insomma, Ferrovia era – come ho già raccontato – una zona di Seme nero, la casta che ufficialmente governava il mondo criminale russo per via del gran numero dei suoi adepti e soprattutto dei suoi sostenitori.
Tra il Seme nero e noi esisteva da sempre una specie di tensione, loro si definivano i padroni del mondo criminale ed erano molto presenti sia in galera che fuori, ma le basi della loro tradizione criminale, gran parte delle regole e persino i tatuaggi, erano copiati da noi Urea.
La loro casta era cresciuta all’inizio del secolo, sfruttando un momento di grande debolezza sociale del Paese, pieno di gente disperata, vagabondi e criminali di basso livello contenti di andare in galera solamente per avere la possibilità di mangiare gratis e dormire sotto un tetto. A poco a poco erano diventati una comunità potente, però con tanti difetti, come riconoscevano persino molte autorità di Seme nero.
A Ferrovia tutto era organizzato pili о meno come da noi. Esisteva un Guardiano responsabile di quello che succedeva nella sua zona, e che doveva rendere conto ai Ladri in legge. Ed esisteva un controllo di chi entrava e usciva dal quartiere.
Ai confini di Ferrovia, infatti, la nostra macchina è stata fermata da un posto di blocco di giovani criminali.
Per far capire che eravamo tranquilli, siamo stati ad aspettare in macchina finché uno di loro non si è avvicinato e si è messo a parlare con Gagarin. Gli altri stavano appoggiati alle macchine, fumando, e ogni tanto buttavano un’occhiata distratta su di noi, ma cosi, come per caso.
Uno di loro lo conoscevo, l’avevo accoltellato nella rissa in Centro. Dopo però tutto si era sistemato e, secondo il regolamento, una volta aggiustata, la cosa non doveva più essere neppure ricordata. Quello mi ha guardato, io l’ho salutato da dentro la macchina e lui allora ha fatto un gesto preciso: come se sentisse ancora male al fianco dove io gli avevo dato la coltellata. Poi si è messo a ridere, e mi ha fatto un segno con il dito indice che significava più о meno «stai attento». Un gesto scherzoso, come per dirmi che non ce l’aveva con me. Un gesto buono, anche: quello che di solito si fa quando vuoi far capire che non hai niente di personale contro qualcuno con cui hai avuto una grana in passato. Un modo per riconoscere che quello che era successo era una cosa inevitabile nella situazione in cui ci trovavamo in quel momento.
Gli ho risposto con una ghignata, e poi gli ho fatto vedere le mani: le ho mostrate vuote, con i palmi in su; un gesto positivo, che si fa per sottolineare la tua umiltà e semplicità e indifferenza verso quello che accade.
Mentre io scambiavo gesti di benevolenza e buona educazione con il tipo, Gagarin spiegava a uno di loro il motivo della nostra visita. Quelli hanno chiamato qualcuno al cellulare, e dopo qualche minuto è arrivato un ragazzo con il motorino. Era la nostra guida, doveva portarci dal Guardiano della zona, «Barbos», soprannominato così perché era nano, e barbos è il nome che si usa per chiamare in maniera scherzosa i cani piccoli e deboli.
Barbos era una persona eccezionale, molto istruito, intelligente, furbo e con un raro senso dell’umorismo che gli permetteva di scherzare su tutto, persino sulla sua statura. Ma aveva anche un lato del carattere non cosi positivo: si arrabbiava molto facilmente e in quarantasei anni di vita aveva accumulato ben quattro condanne per omicidio.
Raccontavano un sacco di cazzate sul suo conto. Ad esempio, che sua madre era una strega e lo aveva reso immortale dandogli da mangiare cenere di diamanti. О che lui aveva divorato suo fratello gemello nella pancia della madre, e per questo lei lo aveva maledetto, bloccandogli la crescita.
Mio zio, che lo conosceva da sempre, diceva che da ragazzo Barbos andava dal macellaio per allenarsi a colpire la gente in testa con una spranga di ferro: picchiava le bestie scuoia-te appese ai ganci, e cosi ha perfezionato la sua tecnica con la spranga fino a quando non è diventato un abile assassino.
Era molto strano che nella comunità di Seme nero, dove l’omicidio era quasi disprezzato come crimine, quantomeno dalle massime autorità, uno come lui fosse riuscito a raggiungere una posizione cosi importante nella gerarchia; secondo me il ruolo di Guardiano gli era stato dato per tenere tutti buoni in un periodo delicato per Seme nero, che negli ultimi tempi era un po’ allo sbando e sembrava aver bisogno di un uomo di polso.
Seguendo il tipo in motorino, siamo entrati nelle vie secondarie dietro la ferrovia. Improvvisamente il ragazzo si è fermato e ci ha indicato una porta aperta. Siamo scesi dalle macchine e in quell’istante dalla porta è uscito Barbos, in compagnia di tre giovani criminali.
Si è avvicinato a noi, ci siamo salutati. Seguendo le regola siberiane, come padrone di casa si è interessato per prima cosa della salute di alcuni vecchi di Fiume Basso. Ogni volta, dopo le nostre risposte, si faceva il segno della croce e ringraziava il Signore per aver mostrato la Sua benevolenza verso i nostri anziani. Dopo le formalità, ci ha chiesto il motivo della nostra visita.
Gagarin gli ha spiegato in breve tutto quanto, e quando ha detto dei soldi offerti come ricompensa per l’informazione giusta sul violentatore, la faccia del nano è cambiata, diventando come una lama affilata, tutta tirata dalla rabbia.
Ha chiamato uno dei suoi, gli ha detto qualcosa all’orecchio e subito dopo si è scusato con noi, assicurandoci che in breve ci avrebbe spiegato tutto. Dopo qualche minuto il suo uomo è tornato con una piccola borsa sportiva, che ha consegnato a Barbos. Barbos l’ha data a Gagarin, che l’ha aperta e mostrata a tutti noi: dentro c’erano pacchi di dollari e due pistole.
– Sono diecimila, mi permetto di aggiungerli ai vostri per la testa di quel bastardo… Quanto alle pistole, – il nano ha sorriso con grande cattiveria, – anche quelle sono per voi, quando lo troverete scaricategli addosso il piombo da parte di tutti i ladri onesti della nostra zona, dato che a farlo personalmente non ci azzardiamo. Questa giustizia è vostra.
Non potevamo rifiutare, sarebbe stato scortese, perciò l’abbiamo ringraziato.
Mentre uscivamo dal quartiere eravamo contenti dell’accoglienza e del gesto di Barbos, però io stavo male. Mi sentivo sempre peggio: il pensiero di Ksjusa continuava a martellarmi, qualcosa mi diceva che quella era stata una ferita troppo profonda, mi accorgevo di pensare a lei quasi come a una morta.
La visita successiva dovevamo farla in una zona chiamata «Barn», una sigla che sta per Bajkal-Amur Magistral', una ferrovia che collegava il famoso lago Bajkal con il grande fiume siberiano.
Vicino alla linea ferroviaria avevano costruito un’autostrada, e negli anni Settanta avevano tirato su nuove città industriali dove era venuta ad abitare molta gente, destinata a lavorare per assicurare il progresso al Paese socialista. Tutte queste città erano identiche tra loro, composte da cinque о sei quartieri chiamati microquartieri, e nelPinsieme rappresentavano un paesaggio tristissimo: le case erano fatte tutte allo stesso modo, palazzi di nove piani schierati su tre file con piccoli giardinetti davanti dove l’erba non cresceva mai e gli alberi non sopravvivevano più di una stagione per la mancanza di sole. In quei fazzoletti di terra c’era pure un’area giochi per i bambini, con giocattoli mostruosi fatti di residui di ferro e cemento, pieni di angoli taglienti e dipinti alla maniera comunista, cioè con un colore solo, indipendentemente da quello che dovevano rappresentare, proprio come nell’idea di società comunista, dove tutti sono obbligati a essere uguali agli altri. Anche se Madre Natura aveva fatto il coccodrillo verde e il leone giallo, venivano verniciati entrambi di rosso, così sembravano l’opera di qualche pittore matto. Tutti questi animali giocattolo, che dovevano servire a divertire i bambini, erano incementati nell’asfalto, e dopo le prime piogge si coprivano di ruggine. Il rischio di prendersi il tetano tagliandosi era altissimo.
Questa bella iniziativa dei costruttori delle città nuove la gente l’aveva subito battezzata «addio figli», per i numerosi traumi infantili che si verificavano ogni giorno. Così, dopo qualche anno, chi veniva ad abitare li per prima cosa smantellava ’ste aree giochi, per assicurare un’infanzia sana e felice ai piccoli.
I posti così, dove la natura era stata eliminata e scambiata con uno stupido e grottesco progetto di autoesaltazione umana, a quelli come me procuravano tristezza e dolore.
Insomma, nella nostra città Barn era la zona dov’erano state costruite case di nove piani abitate da poveracci, da disperati: per lo più teppisti, e quelli che in Siberia chiamano «fuori limite», cioè i delinquenti che a causa della loro ignoranza non sono in grado di seguire le leggi di una vita criminale onesta e degna.
A Barn la tossicodipendenza era diventata quasi una forma sociale. La droga girava sempre, giorno e notte, i ragazzi cominciavano a farsi all’età di dodici anni e a fatica arrivavano alla maggiore età, e quei pochi già a diciott’anni sembravano vecchi, senza denti, con la pelle che somigliava al marmo. Compivano crimini dibasso livello, furti, scippi, ma anche molti omicidi.
Su Barn si raccontavano storie che facevano gelare il sangue e spaventavano per la dismisura dell’ignoranza e della disperazione a cui può arrivare l’uomo: neonati buttati fuori dalla finestra dalle madri, figli che brutalmente ammazzano i genitori, fratelli che ammazzano fratelli, ragazze minorenni costrette a prostituirsi dai loro fratelli о padri о zii.
Era una zona abbastanza multietnica, c’erano tanti moldavi, zingari, ucraini, gente del sud della Russia e qualche famiglia del Caucaso. Tutti loro erano uniti da una cosa sola: la totale incapacità di vivere in maniera umana.
A Barn non valeva nessuna legge e non esisteva una persona che potesse assumersi la responsabilità, davanti ai criminali onesti, di tutto il casino che succedeva li dentro.
Per questo motivo la gente che viveva H era definita zakontacenaja, cioè contaminata. Secondo le regole criminali con loro^non si può avere a che fare come con le persone normali. E proibito avere qualsiasi contatto fisico, non si può salutarli, né a voce né con una stretta di mano. Non si può usare nessun oggetto che prima sia stato usato da loro. Insieme a loro non si può mangiare, bere, condividere la tavola e la casa. In galera – l’ho già detto – i contagiati vivono in un angolo a parte, in molti casi li fanno dormire sotto le brande e mangiare con piatti e cucchiai marchiati con un buco in mezzo. Li obbligano a portare vestiti sporchi e strappati, inoltre non gli permettono di avere le tasche, che vengono tolte о scucite. Ogni volta che usano la latrina devono farci bruciare dentro della carta, perché secondo le credenze criminali solamente il fuoco può ripulire una cosa entrata in contatto con un contagiato.
Le persone che sono state definite contagiate una volta non hanno nessuna possibilità di togliersi di dosso quel marchio, lo portano per tutta la vita; per questo in libertà sono costrette a vivere con i propri simili, perché nessun altro vuole averli vicini.
Tra loro sono frequenti i rapporti omosessuali, soprattutto tra i giovani tossicodipendenti, che spesso si prostituiscono nelle grandi città della Russia e vengono molto apprezzati negli ambienti omosessuali per la loro giovane età e le loro modeste esigenze. A San Pietroburgo tanti cittadini benestanti abusano di loro, e poi li pagano con una cena in qualche birreria о facendogli passare la notte in una stanza d’albergo, dove possono dormire in un letto caldo e lavarsi sot-to la doccia. L’età di questi ragazzi oscilla tra i dodici e i sedici anni: verso i diciassette, dopo quattro anni passati nel «sistema» – come si chiama in gergo criminale la tossicodipendenza – sono definitivamente bruciati.
Secondo le regole criminali, un contagiato non può essere mai picchiato con le mani: se c’è bisogno lo si picchia con i piedi о meglio ancora con un bastone, una spranga. Non si può però accoltellarlo, perché la morte da coltello è considerata quasi un segno di rispetto verso il nemico, una cosa che la vittima si deve meritare. Se un criminale onesto accoltella un contagiato, anche lui viene contagiato per sempre e la sua vita è rovinata.
Insomma, trattando con la gente di Barn era necessario stare attenti e sapere come comportarsi, altrimenti si rischiava di perdere la propria posizione nella comunità.
A Barn c’era un posto chiamato «il Palo». Li avevano piazzato un vero e proprio palo di cemento, messo là chissà quando per qualche linea elettrica che non avevano mai finito. Intorno a quel palo si radunavano i criminali che in quel momento rappresentavano il potere nella zona: era una specie di trono del re, insomma. Il potere cambiava talmente spesso che i criminali onesti di Fiume Basso chiamavano in tono scherzoso il processo di guerre tra i contagiati «il giro intorno al palo».
A Barn, non essendoci nessun codice, nessuna morale criminale, le guerre tra i delinquenti erano molto violente, sembravano le scene caotiche di un film dell’orrore. I clan si raccoglievano intorno a un criminale anziano, che con l’aiuto dei suoi guerrieri, tutti tossici e minorenni, cercava di prendere il controllo del giro di droga nella zona eliminando fisicamente gli avversari, e cioè i membri del clan che in quel momento gestiva la droga, e dunque era il più potente. Usavano armi da taglio, perché da fuoco ne avevano poche e comunque non erano capaci di maneggiarle bene, non essendo stati educati al rapporto con le pistole e i fucili. Nel corso della loro guerra ammazzavano anche le donne e i bambini appartenenti ai clan contro cui combattevano: la loro ferocia non aveva limiti.
Entrati nel quartiere, ci siamo subito diretti verso il Pa lo. Con le nostre macchine abbiamo attraversato una serie di vie che solo a vederle mettevano tristezza e angoscia, ma anche un po’ di sollievo, se pensavi a quanto eri fortunato a non essere nato in quel posto.
Il Palo era in mezzo a una piazzetta, intorno c’erano delle panchine, e anche un tavolo da scuola con una sedia di plastica. Sulle panchine stavano seduti dei ragazzi, una quindicina in tutto, e sulla sedia di plastica c’era un vecchio dall’età indefinibile, tanto era rovinato.
Siamo scesi dalle macchine. Secondo il regolamento dovevamo fare i prepotenti, quindi abbiamo preso i bastoni che avevamo nei bagagliai e siamo partiti verso di loro. Nell’aria si sentiva tensione, che quando ci siamo fermati a pochi metri da loro è diventata puro terrore. Era importante non avvicinarsi troppo, tenere le distanze, per sottolineare la nostra posizione nella comunità criminale. Loro stavano zitti e con gli sguardi bassi, sapevano come dovevano comportarsi con la gente onesta. Secondo il regolamento, loro non potevano parlare per primi, gli era permesso solo rispondere alle eventuali domande. Senza salutarli, Gagarin si è rivolto al vecchio, dicendogli che cercavamo chi aveva violentato una ragazza vicino al mercato, e che davamo ventimila dollari a chi ci avrebbe aiutato a trovarlo.
Il vecchio è saltato giù dalla sedia in un momento, si è avvicinato a una panchina e ha tirato per il collo un ragazzino con la faccia deturpata da una grossa bruciatura. Quello si è messo a urlare disperatamente, dicendo che non c’entrava niente, ma il vecchio ha preso a picchiarlo sulla testa fino a farlo sanguinare, gridandogli:
– Figlio di una troia, bastardo! Lo sapevo che alla fine la violentavi, pezzo di merda!
Anche gli altri ragazzi sono saltati giù dalle panchine, e hanno cominciato a pestare tutti insieme il loro compagno.
Lasciandolo nelle loro mani, il vecchio si è girato verso di noi, come se volesse dire qualcosa. Gagarin gli ha ordinato di parlare, e lui ha subito cominciato a sputare parole (mischiate con varie bestemmie e offese che nella nostra zona gli avrebbero fatto meritare la morte) il senso delle quali era quello che già avevamo compreso: a violentare la ragazza era stato proprio il ragazzino con la faccia deturpata.
– Eravamo insieme al mercato, – ha detto il vecchio, – l’ho visto seguire la tipa, gli ho gridato di non farlo, ma lui è sparito, non l’ho più visto, non so cos’è successo dopo.
La sua storia era cosi stupida e ingenua che nessuno di noi ci ha creduto neanche per un attimo.
Gagarin gli ha chiesto di descrivergli la ragazza, e il vecchio è andato in palla, ha cominciato a sussurrare qualcosa d’incomprensibile, facendo gesti con le mani, come a disegnare nell’aria una figura femminile.
Dopo un attimo ho visto solo il bastone che teneva Gagarin in mano precipitare con una forza e una velocità spaventosa sulla testa del vecchio, che è svenuto, perdendo sangue dal naso.
Gli altri hanno smesso all’istante di picchiare il falso violentatore – che non sarebbe stato neanche capace di farsi una sega, talmente pena faceva la sua debole e demoralizzata presenza – e sono scappati da tutte le parti.
Sotto il Palo è rimasto solo il vecchio con la testa fracassata, sdraiato nel suo sangue, e il ragazzo che intendevano usare come capro espiatorio in cambio dei soldi. Quella scena e il pensiero di quel tradimento facevano stare male ancora di più il mio cuore, già triste e disperato di suo.
Senza ottenere niente, dunque, abbiamo lasciato la zona, sperando che quelli che erano scappati avrebbero cominciato le ricerche del vero violentatore, per poi venderlo a noi.
Abbiamo deciso di andare in un posto chiamato «Il Fischietto di nonna Masa». Era una casa privata, dove una vecchia cucinava e gestiva una specie di ristorante per criminali. Si mangiava molto bene, e l’atmosfera era familiare e calda.
Nonna Masa da giovane aveva lavorato in ferrovia, e portava ancora al collo il fischietto che usava per segnalare la partenza dei treni: da qui il nome del posto.
Aveva tre figli, che stavano scontando condanne pesanti in tre diverse galere della Russia.
Al Fischietto la gente andava per mangiare un boccone ma anche per passare una serata tranquilla, per parlare di affari, giocare a carte, e pure per nascondere qualcosa in cantina, che era piena di roba lasciata dai criminali, una specie di deposito bancario: in alcuni casi la nonna dava anche la ricevuta, un pezzo di carta – accuratamente strappato dal suo quaderno – dove scriveva con la sua calligrafia quasi perfetta qualcosa tipo:
«La mano onesta (e cioè un criminale) ha voltato (nel gergo significa «depositare qualcosa con cura») nel caro dentino (indica un posto sicuro) una frusta con i funghi sott’olio più tre teste di vena verde (che sarebbe un fucile automatico con silenziatore e cariche, pili tremila dollari). Che Dio ci benedica e allontani il male e i pericoli dalle nostre povere anime (un modo di augurare la fortuna criminale, auspicare un buon fine per un affare fatto insieme). Povera Madre (un modo di chiamare la donna che ha i figli о il marito in galera: nella comunità criminale è una specie di definizione sociale, come può esserlo vedova, о scapolo) Masa».
Nonna Masa faceva dei buonissimi pel'meni, che sono dei ravioli grandi ripieni di molta carne, un piatto siberiano diffuso in tutto il territorio sovietico. Quando decideva di cucinarli faceva girare la voce un paio di giorni prima: mandava in giro i ragazzi senza tetto che ospitava in casa sua in cambio di un aiuto in cucina e di qualche commissione. I ragazzi prendevano le biciclette e partivano, passando in tutti i posti dove si radunava la gente giusta, per informarla su quel lo che stava cucinando nonna Masa.
Oltre a far questo, i ragazzi facevano circolare anche le ultime notizie: se volevi far sapere qualche fatto in giro, bastava offrirgli pochi soldi о un paio di pacchetti di sigarette e in due о tre ore la città già sapeva tutto. Erano molto utili anche nella lotta contro la polizia: se per caso succedeva qualche casino in un quartiere di Bender e la polizia arrivava per arrestare qualcuno, i ragazzi spargevano la voce e le persone interessate si mobilitavano per liberare l’arrestato о per fare una piccola sparatoria con i poliziotti, giusto cosi, per puro piacere.
A noi adesso serviva l’aiuto dei ragazzi di nonna Masa per far sapere in giro delle nostre ricerche e della nostra onesta offerta, ma eravamo anche un po’ stanchi e avevamo fame.
Quando siamo arrivati al Fischietto stava già scendendo il buio. Lei ci ha accolti come sempre, con un sorriso e parole buone, chiamandoci «figlioli» e baciandoci sulle guance. Per lei eravamo tutti bambini, anche quelli più grandi. Ci siamo seduti a un tavolo e lei si è seduta con noi: faceva sempre cosi con tutti, parlava un po’ prima di portare da mangiare. Le abbiamo raccontato della nostra disgrazia, lei ci ha ascoltati fino in fondo, poi ha detto che già sapeva la storia dai suoi ragazzi. Siamo stati un po’ in silenzio mentre lei, con lo straccio che aveva sempre tra le mani, si asciugava le lacrime dalla faccia piena di rughe. A guardarla, quella faccia, ti sembrava di stare davanti all’incarnazione di Madre Terra.
Nonna Masa ha cominciato a portarci le posate e qualcosa da bere, nel frattempo noi abbiamo chiamato uno dei suoi ragazzi, un tipo magro, piccoletto, senza un occhio e con i capelli bianchi come la neve, che era il più in gamba di tutti e si chiamava «Begunok», che vuol dire «quello che corre veloce». Era molto serio, ogni impegno preso per lui era una promessa. Gli abbiamo chiesto di spargere la voce tra quelli che conosceva in città, ma soprattuto di battere tutti i locali dove si radunava la gente per bere e passare il tempo insieme. Mei gli ha infilato in mano un pacchetto di sigarette e una banconota da cinque dollari, e dopo un secondo abbiamo sentito la sua bicicletta allontanarsi a tutta velocità.
Abbiamo cenato in silenzio, senza fare il casino che facevamo di solito. Avevo un sacco di fame ma non riuscivo a mangiare, mentre masticavo il cibo sentivo un peso nei polmoni, per ingoiare un boccone ero costretto a bere, così dopo un po’ mi sono ritrovato mezzo ubriaco, con i pensieri pesanti, nei quali stavo affogando. Gli altri erano messi più о meno come me, la cena procedeva lentamente, senza entusiasmo, gli occhi dei miei compagni diventavano sempre più appannati dall’alcol, c’era davvero un’aria da funerale.
A un certo punto, in mezzo ai respiri pesanti e ai lamenti sussurrati, uno di noi ha cominciato a piangere, ma molto piano, vergognandosi per quella manifestazione di debolezza. Era il più piccolo della banda, aveva tredici anni e si chiamava Lècha, soprannominato «Tomba» per via del suo aspetto cadaverico (era magro e sempre malato, e oltretutto costantemente di cattivo umore). Aveva tentato d’impiccarsi già una decina di volte, ma era sempre stato salvato da qualcuno di noi. Una volta si era addirittura sparato al cuore con la pistola di suo zio, ma la pallottola gli aveva solamente forato un polmone, provocandogli un grave danno alla salute già vacillante di suo. Un’altra volta, ubriaco marcio, si era buttato nel fiume tentando di annegare, ma non ci era riuscito perché sapeva nuotare molto bene, e l’istinto di sopravvivenza aveva avuto la meglio. Non aveva mai provato a tagliarsi le vene solo perché gli faceva senso vedere il sangue: anche nelle risse non usava mai il coltello, picchiava solamente con un tirapugni e una spranga di ferro.
Tomba era un ragazzino con tanti problemi, ma nonostante tutto s’inseriva bene nella nostra compagnia, ed era come un fratello per tutti noi. La sua tendenza suicida era un fantasma nascosto dentro la sua mente, nessuno di noi poteva sapere con precisione quando usciva fuori, e cosi a badare a lui c’era sempre un ragazzo pili grande, Vitja, soprannominato «Gatto» perché sua madre raccontava che quando era appena nato, la loro gatta Lisa aveva partorito quattro gattini e di notte entrava nella sua culla e lo allattava, e cosi – sempre secondo il racconto di sua madre – lui era diventato per metà gatto. Quei due, Tomba e Gatto, giravano sempre insieme e la loro occupazione principale era la pesca e i furti delle barche a motore; erano gli esperti del fiume, conoscevano tutti i punti particolari – dove l’acqua era ferma о veloce, dove la corrente girava al contrario, dove il fondale era più profondo – e sapevano sempre con esattezza assoluta dove trovare il pesce in ogni periodo dell’anno. Non sono mai tornati da una pesca con le barche vuote, mai.