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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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Una voce ha detto:

– Dài, ragazzi, mettiamoglielo anche in bocca a turno, altrimenti si rilassa troppo ’sto finocchio! – E tutti giù a ridere, a scherzare, e Marina di nuovo a supplicare, a promettere di succhiare tutti dopo e di fare qualsiasi altra cosa, se adesso lo lasciavano in pace. Ma nessuno lo ascoltava. Di nuovo gemiti, di nuovo l’urlo di quelli che venivano nella sua bocca, di nuovo Marina che tossiva e sputava, tossiva e sputava.

A un certo punto qualcuno gli ha dato le prime sberle, e lui ha cominciato a gridare. Gli hanno stretto il collo e continuavano a violentarlo. Ogni tanto mollavano la presa e lui riprendeva a tossire e sputare, cercando anche di dire qualcosa, ma non ci riusciva, perché si perdeva nella tosse. Tutti urlavano dalla gioia, erano contenti, Pesce diceva agli altri:

– Allora? E buona la nostra ragazza? E mia! Adesso è tutta gratis per voi, ma da domani me la pagate! Altrimenti vi fate le seghe!

Questo delirio era cominciato verso le nove di sera, ed è continuato per tutta la notte. Le guardie non sono venute neanche una volta a vedere che stava succedendo. I violentatori facevano i turni, andavano a riposare, poi ricominciavano da capo. Tra loro scherzavano:

– Ehi, ragazzi, ma siete sicuri che è ancora vivo?

– Beh, l’importante è che è ancora caldo…

– E vivo, guarda come ciuccia!

Verso le sei del mattino la festa era finita.

Tutti ridevano e scherzavano, Marina era sdraiato nel suo letto, immobile, ogni tanto lo si sentiva piangere e sussurrare qualcosa con la sua vocina da ragazza.

Tre giorni dopo è stato prelevato di nuovo dalle guardie.

Ma prima Pesce gli ha fatto un bel discorso, per assicurarsi che non facesse denuncia al reparto disciplinare.

– Marina, se parli ti ammazzo con le mie mani… Stai zitto e buono e qui nessuno ti toccherà più, solo io verrò a trovarti. Io о chi mi paga. Hai capito? Senza di me, quelli ti romperebbero tutti i buchi, come l’altra notte!

Pesce credeva di essere stato convincente, e appena Marina è uscito dalla cella ha cominciato a stabilire con gli amici chi sarebbe stato il primo a scoparselo al suo ritorno.

Dopo qualche ora sono arrivate sei persone del reparto disciplinare, insieme a Coccodrillo Zena in persona. Hanno chiamato per cognome tutti quelli che avevano partecipato alla violenza. Tra i Ladrini si è sparso il panico. Qualcuno diceva:

– Ma io non ho fatto niente, ero lì, però non ho fatto niente.

Noi assistevamo con interesse alla scena.

Quando il guardiano ha finito di leggere i nomi sulla lista, si è sentita la schifosa voce di Coccodrillo Zena:

– Allora, ci siamo tutti? Avanti, in fila per uno!

Così li abbiamo visti lasciare la cella. Per due giorni non si è più saputo niente, si respirava l’attesa nell’aria, nessuno ne parlava ma molti avevano paura di quello che poteva essere accaduto.

Alla notte del terzo giorno, mentre tutti noi dormivamo, le porte si sono aperte e i Ladrini sono entrati. Le guardie ci hanno proibito di alzarci e noi, sporgendoci dalle brande, cercavamo di riuscire a vedere com’erano conciati. Quando le porte si sono chiuse, sono partiti i lamenti. Alcuni di loro piangevano, altri parlavano ad alta voce dicendo cose senza senso.

Ho notato che molti come prima cosa avevano preso un asciugamano ed erano andati a bagnarlo sotto il rubinetto. Poi ho visto passare in mezzo alle brande due di loro: tenevano l’asciugamano bagnato sotto le mutande, sul sedere. Alcuni hanno cominciato a litigare per il gabinetto:

– Fatemi passare, fatemi passare, non ce la faccio più, mi esce sangue…

I nostri ragazzi ridevano:

– Guardate ’sti finocchi di merda, come corrono.

– Volevano metterlo nel culo, no? Ma se lo metti devi anche prenderlo…

– Già, se no che finocchio sei? Un finocchio a metà?

– Ehi, guardate quello! L’hanno inculato a sangue davvero!

– Se l’è meritato, pezzo di merda, frocio schifoso…

Il nostro Filat' Bianco si è alzato dal letto e ha gridato:

– Siete tutti contaminati! Andate a dormire nell’angolo vicino alla porta, che a noi fa schifo avervi vicini!

Nessuno dei Ladrini ha osato replicare, erano impauriti, dovevano proprio essersela vista brutta. Hanno preso le loro cose e obbedienti si sono spostati nell’angolo accanto alla porta.

– Ma guarda, una migrazione di finocchi! – ha detto un altro dei nostri. E abbiamo riso tutti.

Il giorno dopo, mettendo insieme le voci che giravano e i brandelli di discorsi tra i Ladrini, abbiamo ricostruito tutto. v ?

In pratica Coccodrillo Zena li aveva portati al primo piano, nella stanza che si usava per gli incontri con i parenti: una camera grande, con tanti letti, dove quando arrivavano i genitori potevano stare un giorno e una notte con i figli. Li erano stati violentati per due giorni e mezzo dagli amici di Coccodrillo Zena, che avevano anche ripreso tutto quanto con una videocamera. Si diceva che a Pesce gli avevano infilato dentro una bottiglia e cosi gli avevano lacerato il culo, come anche a qualcun altro, fino a farlo sanguinare.

Da quel momento H Pesce è diventato una specie di ombra, si spostava per la camera in maniera silenziosa e guardava sempre il pavimento. Andava a fare i bisogni di notte e di giorno cercava di non scendere mai dalla sua branda.

I Ladrini approfittavano soprattutto dei ragazzi indifesi e impauriti. Di solito li portavano con le minacce о con la forza nel loro «angolo nero», un blocco di brande su cui vivevano loro, e lì si esibivano uno davanti all’altro nelle torture più sofisticate e terribili.

Violentavano qualcuno quasi ogni giorno, subito dopo lo picchiavano e lo facevano ballare sul pavimento, tutto nudo, con un tubo di carta nel culo. Prima davano fuoco alla carta, poi dicevano al poveraccio di ballare. Quel rituale aveva persino un nome: «Chiamare un diavoletto dall’inferno». Ogni tortura aveva un nome, quasi sempre ironico.

«La battaglia con il coniglio», ad esempio, si faceva cosi: il povero disgraziato di turno veniva messo davanti a un muro dove era disegnato un coniglio che indossava guanti da pugile, e lui doveva picchiarlo più forte che poteva. Tutti urlavano «Dài, più forte!» fino a sgolarsi. La vittima picchiava il muro e dopo qualche minuto le sue mani diventavano un macello di sangue. Gli altri a quel punto lo costringevano a colpire il muro con la testa e con le gambe, minacciandolo:

«Coraggio, finocchio, di cosa hai paura? E solamente un cazzo di coniglio, quello! Pestalo più forte, con la gamba, con la testa! Pestalo о ti strappiamo il culo come uno straccio!» E il poveraccio finiva in pezzi, finché non lo obbligavano a buttarsi addosso al coniglio con tutto il corpo, ma di solito lui cadeva prima, sveniva dal dolore. A quel punto lo abbandonavano sul pavimento, dicendo:

«Sei una troia, una femminuccia! Non vali niente, ti sei fatto massacrare da un coniglio, ti rendi conto? Quando ti riprenderai, ti facciamo diventare una bella ragazzina!»

Era cosi che i Ladrini seminavano paura e caos tra i detenuti.

Un’altra tortura era «Il volo del Gagarin»: la vittima era costretta a buttarsi giù dalla branda più alta tenendosi i piedi con le mani, formando col corpo una specie di palloncino. A volte gli fasciavano la testa con un asciugamano per «proteggerlo» nel momento dell’atterraggio, ma in ogni caso questa tortura finiva con le ossa rotte e il malcapitato andava dritto in ospedale.

Poi c’era «Il fantasma»: si costringeva uno a girare con una coperta in testa anche per un paio di giorni, tutti potevano avvicinarsi a lui e picchiarlo in ogni momento, lui doveva rispondere ogni volta:

«Non sento niente, perché sono un fantasma».

Di solito lo si picchiava con qualcosa di duro, preferibilmente il pentolino del tè con dentro un sacchetto di zucchero per renderlo ancora più pesante. Una volta in una cella vicina alla nostra hanno ammazzato un ragazzo dandogli una botta troppo forte sulla testa. Il giorno dopo, durante l’ora d’aria, se ne vantavano in cortile, li ho sentiti con le mie orecchie dire ridendo:

«Il fantasma era troppo debole».

L’amministrazione faceva passare tutte le violenze tra minori come incidenti. I «caduti dalla branda nel sonno» erano un casino, molti di loro sono morti, alcuni sono rimasti disabili per sempre.

Nessuno osava raccontare la verità.

Noi siberiani eravamo contro qualsiasi manifestazione di perversione sessuale, di prepotenza e violenza immotivata, quindi quando capitava che uno di noi vedeva che i Ladrini stavano per torturare qualcuno, davamo inizio a una seria rissa, che a volte finiva molto male.

Nella nostra cella a dominare su tutti i poveracci disgraziati era un vero sadico bastardo soprannominato «Bulgaro», uno dei Ladrini, figlio di un criminale di Seme nero e fratel lo minore di un Blatnoi. Bulgaro era un ragazzino piuttosto magro, più о meno come me, solo che io facevo ginnastica e mi muovevo abbastanza, quindi avevo sviluppato una certa resistenza alle fatiche fisiche, mentre lui fumava e stava sempre fermo, per cui sembrava una piccola mummia. Aveva anche la pelle di un colore stranissimo, come quello dei malati di epatite, tanto che noi siberiani lo chiamavamo «Giallo» e non Bulgaro.

Quando Bulgaro è arrivato nella nostra cella i Ladrini hanno cominciato a raccontare leggende su di lui, per alimentare il mito. Per una settimana il suo nome era sempre in mezzo a tutti i discorsi, Bulgaro qua e Bulgaro là, e tutto nel mondo era lui о in qualche maniera legato alla sua mitica figura. Tra noi siberiani si diceva:

«Un altro bastardo di sicuro, speriamo solo che non sia un piantagrane…»

Dopo due settimane dal suo arrivo, Bulgaro è riuscito a litigare con gli armeni, chiamandoli «Culi Neri» (così i nazionalisti russi chiamavano spesso chiunque veniva dal Caucaso e aveva la pelle più scura); ha urlato che avrebbe usato le sue conoscenze nel mondo criminale per farli ammazzare tutti. Era un pagliaccio, un bambino viziato, che evidentemente non aveva visto niente oltre al panorama che gli si apriva dalle ginocchia del padre, da dove non era mai sceso prima di finire in carcere.

Gli armeni ci hanno raccontato l’incidente e noi gli abbiamo assicurato tutto il nostro sostegno in caso di scontro, garantendo anche l’appoggio della comunità siberiana fuori dal carcere. Sapevamo che prima о poi la situazione tra noi e i Ladrini sarebbe sfociata in una guerra, aspettavamo solo il momento giusto, e soprattutto un’occasione: loro dovevano fare un errore, perché se volevamo andare fino in fondo e avere il sostegno dei nostri vecchi, noi dovevamo dargli una ragione seria, approvata dalla legge criminale siberiana. Anche questo ci rendeva diversi da loro. I Ladrini potevano prendersela con tutti quelli che non appartenevano alla loro comunità, andare contro le regole di comportamento о fare altre cose molto più gravi, ed erano sempre sostenuti dalla gente di Seme nero: contando sulla loro protezione non si fermavano davanti a niente. Noi invece avevamo una legge molto severa: ogni sbaglio commesso, ogni offesa nei confronti di una persona definita onesta dalla nostra comunità, doveva essere punita. Nessuno, né parente né amico, si sognava di proteggere chi era andato contro la legge.

Cosi aspettavamo solo che Bulgaro e la sua banda di pederasti (come li chiamavamo noi per la loro tendenza verso le violenze omosessuali) ci facessero vedere il loro brutto muso e piantassero qualche casino, che noi poi avremmo utilizzato come pretesto per tritarli come carne cruda. Ma quei bastardi hanno superato tutte le nostre aspettative.

Un giorno la nostra famiglia era riunita intorno alla «quercia» (così si chiama il tavolo murato nel pavimento che c’è in ogni cella). Secondo un accordo, le famiglie о le «brigate» (come si chiamavano i gruppi di quelli che in qualche maniera s’ispiravano al Seme nero) potevano riunirsi intorno alla quercia a una cert’ora per un tot di tempo. In ogni cella era diverso, ma di solito si stava alla quercia per mangiare, all’ora dei pasti. I più forti si mettevano intorno alla quercia per primi, mangiavano, chiacchieravano un po’ e poi liberavano il tavolo per gli altri, che erano pili deboli di loro ma più forti di quelli che venivano dopo. La maggior parte dei detenuti non stava neanche al tavolo, mangiava sulle brande, perché altrimenti non riusciva a consumare il pasto in tempo. Mangiare alla quercia era una specie di privilegio, sottolineava il potere del gruppo a cui appartenevi. Nella nostra cella a mangiare per primi alla quercia eravamo noi, insieme agli armeni e ai bielorussi. In tutto a quel tavolo potevano stare non più di quaranta persone, ma noi ci stavamo stretti in sessanta. Lo facevamo per mostrare agli altri che la nostra alleanza li dentro dominava su tutti. I Ladrini che stavano in cella con noi proprio non la mandavano giù, perché si sentivano al secondo posto e non potevano farci niente; per di più i Ladrini delle altre celle li prendevano in giro in continuazione per questo. Ma buttarsi contro di noi era come suicidarsi, così un giorno hanno trovato una scusa per non mangiare più alla quercia: hanno cominciato a dire che il tavolo era contagiato, che qualcuno l’aveva lavato con lo straccio dei pavimenti e che dunque, secondo le loro regole, ora non potevano neanche toccarlo con un dito. Era una bugia, una storia che si erano inventati per non perdere del tutto la loro dignità.

Dunque, quel giorno mangiavamo pranzo, gli armeni avevano portato alla quercia un pezzo di formaggio che qualcuno di loro aveva appena ricevuto nel pacco da casa. Dopo averlo tagliato a cubetti lo stavamo mangiando tutti quanti con piacere: era un gusto che arrivava dalla libertà, un sapore buono, che sapeva di casa, della vita che tutti aspettavamo di vivere di nuovo.

A un certo punto abbiamo sentito un grido, io ero girato verso la porta, quindi non ho capito bene che cosa stava succedendo, invece un gruppo di miei fratelli siberiani vicini alle brande si è alzato, annunciando con rabbia:

– Gente onesta! Mentre noi mangiamo quello che il Signore ci ha mandato per tenerci in vita, quei disgraziati stanno stappando qualcuno!

«Stappare» significava violentare. Era una cosa molto grave, quella che stava accadendo. In sé, certo, ma non solo: se tante volte eravamo stati costretti a chiudere un occhio sulle follie omosessuali dei Ladrini, anche se le disprezzavamo, stavolta era proprio impossibile. Avere rapporti sessuali mentre nello stesso spazio, in cella – che nella lingua criminale si chiama «casa» – le persone mangiano, о leggono la Bibbia, о pregano, è un’offesa diretta alla legge criminale.

Ci siamo alzati e siamo corsi verso l’angolo nero dei Ladrini. Tenevano sdraiato sulla branda un poveraccio come tanti altri, e stringendogli il collo con un asciugamano – tanto che la sua faccia era diventata tutta rossa, e lui cercava l’aria disperatamente – gli gridavano che se non stava fermo e non lo prendeva in culo da vivo, lo avrebbe preso da morto.

Filat' Bianco ha afferrato uno di loro per il collo – Filat' era un ragazzo molto forte ma senza cuore, come si dice da voi, о con un cuore cattivo, come dicono in Siberia (e non è esattamente la stessa cosa): insomma, non aveva nessuna pietà per i nemici – e ha cominciato a tempestarlo di pugni, e i suoi pugni erano bocce d’acciaio. In pochi istanti quello ha perso i sensi e la sua faccia è diventata una bistecca rossa. Filat' aveva tutte e due le mani piene di sangue.

Dalle brande dei Ladrini sono partite offese e minacce di vendetta, di cui loro di solito sono molto generosi.

Filat' si è avvicinato a quello che stava per violentare il ragazzo e aveva ancora le mutande tirate giù. Eravamo tutti in mutande, in quell’inferno di caldo, con il sudore addosso, anche noi eravamo in mutande, ma pronti a fare a pezzi quei bastardi.

Filat' ha preso per un braccio il violentatore e poi ha cominciato a farlo sbattere contro l’angolo della branda. Quel lo si è messo a urlare:

– Sono Bulgaro, tu hai alzato la mano su Bulgaro, siete tutti testimoni! Questo qui è già morto, è già morto! Fatelo sapere a mio fratello, gli ammazzeranno tutta la famiglia!

Strillava come il fischietto arrugginito di uno sbirro di campagna ubriaco. Nessuno prendeva le sue parole sul serio.

Filat' ha smesso di sbatterlo contro la branda e ha mollato la presa, quello è caduto a terra barcollando. Poi si è ripreso, si è alzato in piedi e ha detto:

– Il tuo nome, stronzo, dimmi il tuo nome, e già stasera mio fratello strappa la pancia di tua madre… – Alla parola «madre» è partito un pugno potentissimo. Ho sentito uno strano rumore, come se qualcuno, da qualche parte, lontano, avesse spaccato un asse di legno. Ma non era legno: era il naso di Bulgaro. E ora lui se ne stava stramazzato a terra, privo di sensi.

Filat' lo ha guardato un attimo, e poi gli ha dato un calcio sulla faccia, poi un altro, e un altro, e un altro ancora. La sua testa ogni volta saltava cosi lontano dalle spalle che sembrava non essere attaccata alla colonna vertebrale, il cranio e il resto dello scheletro erano come divisi, il collo pareva so lo un filo sottile, fatto di gomma.

Filat' ha detto a tutti quanti:

– Non vi bastano più le seghe? Non volete aspettare di tornare liberi per fare l’amore con le ragazze? Vi piacciono i culi, siete diventati tutti pederasti?

Dopo l’ultima parola tra le brande è passato un suono di sorpresa: offendere un gruppo di persone è molto sbagliato, per la legge criminale è un errore. Ma Filat' era stato furbo: aveva presentato la sua offesa in forma di domanda, e secondo la nostra legge, in quelle situazioni, soprattutto se prima è stato insultato il nome della madre, un’ombra di offesa al gruppo ci sta proprio bene.

Filat', senza dire più niente, ha messo un piede sui genitali di Bulgaro, tristemente diminuiti di volume su quel corpo immobile, e ha cominciato a schiacciarli con tutta la sua forza. Poi è balzato su Bulgaro come un pazzo, e lanciando un grido spaventoso nell’aria ha fatto una serie di salti sulla sua pancia finché non abbiamo sentito tutti un crac spaventoso. Non sapevo niente d’anatomia, ma questo mi era chiaro: si era rotto l’osso del bacino.

I Ladrini stavano muti, impauriti. Filat' ha detto a tutti loro:

– Ora vi do un minuto per insaponare gli sci, dopo se qualcuno di voi resterà in questa casa farà la stessa fine di…

Non ha fatto in tempo a finire la frase che i Ladrini sono saltati dalle loro brande e si sono buttati contro le porte, urlando e battendo contro il ferro:

– Guardie! Aiuto! Ci stanno ammazzando! Trasferimento! Subito, chiediamo trasferimento!

Dopo qualche istante si sono aperte le porte e sono entrate le guardie della squadra disciplinare, armate di manganelli. Hanno portato via i due feriti, trascinandoli come sacchi d’immondizia, lasciandosi dietro un lungo segno di sangue. Poi hanno cominciato a buttare fuori i Ladrini.

La settimana dopo è arrivata una lettera da fuori. Diceva che Bulgaro era morto all’ospedale, e che suo fratello aveva provato a chiedere giustizia ai siberiani ma lo avevano segato subito, allora lui si era messo a minacciare vendetta, e a quel punto lo avevano ammazzato investendolo con la macchina. Aveva cercato di scappare dai suoi assassini, ma non ce l’aveva fatta. Vicino al cadavere, per togliere ogni dubbio, era stata lasciata una cintura siberiana.

Cosi la guerra era finita, nessuno voleva più vendetta e tutti stavano zitti e buoni. Nella nostra cella dopo qualche mese sono arrivati altri Ladrini, ma con noi non facevano più nessuno sbaglio.

Per nove mesi sono stato in quel posto, in quella cella, nella famiglia siberiana. Dopo nove mesi mi hanno liberato per buona condotta, con tre mesi d’anticipo. Prima di andarmene ho salutato i ragazzi, ci siamo augurati buona fortuna, come vuole la tradizione.

Una volta fuori ho sognato ancora per tanto tempo il carcere, i ragazzi, quella vita. Spesso mi svegliavo con la strana sensazione di stare ancora lì. Quando capivo di essere a casa ero contento, certo, ma sentivo anche una misteriosa nostalgia, a volte un dispiacere che mi rimaneva nel cuore per tanto tempo. Il pensiero di non avere più vicino nessuno dei miei amici siberiani era un brutto pensiero. Piano piano ho ripreso la mia vita, e i volti di quei ragazzi sono diventati sempre più lontani.

Di tanti di loro non ho più saputo niente. Anni dopo, a Mosca, un giorno ho incontrato Kerja Jakut, che mi ha raccontato qualcosa di qualcuno, ma lui stesso non era più nel giro, faceva la guardia del corpo a un ricco uomo d’affari, ormai, e non aveva nessuna intenzione di tornare alla vita criminale.

Mi ha fatto una buona impressione, abbiamo parlato un po’, ricordando i tempi della nostra famiglia siberiana, e poi ci siamo lasciati. Nessuno dei due ha chiesto all’altro l’indirizzo, facevamo parte di quel passato che non si ricorda con piacere.


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