Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
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Un giorno eravamo tutti insieme a fare il bagno in una spiaggia sul fiume, e uno dei ragazzi del nostro quartiere, Stas, soprannominato «Bestia» – uno davvero cattivo, uno arrabbiato con tutto il mondo – l’ha sentito raccontare quella sua bravata dei gatti. Bestia non ha fatto tante storie, si è avvicinato a lui, gli ha preso le mani e gliele ha schiacciate cosi forte che si è sentito il rumore delle ossa rotte. Briciolo è sbiancato ed è svenuto, le mani gli sono diventate gonfie e viola come due palloncini. I suoi lo hanno portato via. Dopo ho sentito dire che gli avevano messo a posto le mani, in ospedale, e che lui aveva ripreso a fare la sua vita da coglione, dicendo in giro che un giorno si sarebbe vendicato. Ma non ha fatto in tempo, perché Bestia è morto poco dopo, ucciso in una sparatoria con gli sbirri. Cosi Briciolo se l’è presa con tutto il nostro quartiere e ha fatto un patto con l’Avvoltoio, promettendo di distruggerci. Girava voce che avevano anche celebrato una messa nera nel cimitero della città, durante la quale tutti noi ragazzi di Fiume Basso eravamo stati maledetti.
Ho preso due molotov, altre due le ho date a Geka e Dito. A Mei nessuna, perché da piccolo ne aveva tirata una troppo in alto e quella si era aperta in volo, colpendoci di striscio. Da allora gli veniva affidata la parte di quello che tiene pronto il fiammifero о l’accendino.
Ho agitato per bene le bottiglie, sollevando la sabbia dal fondo, ho fatto prendere fuoco agli stracci e subito dopo sono uscito da dietro il muro, tirando contemporaneamente due molotov contro il mucchio. In un attimo ne avevo già altre due in mano, le accendevo e via, a ripetizione.
Il nemico era nel panico, i ragazzi con le facce bruciate si buttavano nella neve, c’era fuoco dappertutto, qualcuno ha cominciato a correre talmente veloce che è scomparso alla nostra vista in un baleno.
In tre abbiamo svuotato la cassa in meno di un minuto. Mei non ha avuto il tempo di spegnere il fiammifero che avevamo già finito.
Ho tirato fuori i coltelli e mi sono lanciato contro uno che si era appena alzato da terra e stava per prendere in mano un bastone. Non aveva bruciature, il fuoco gli era arrivato solo sulla giacca e aveva fatto in tempo a rotolarsi nella neve. Era parecchio incazzato, e continuava a urlare come un guerriero. Ha tentato di colpirmi un paio di volte, tenendomi sempre a distanza. A un certo punto mi sono buttato ai suoi piedi schivando una bastonata, e gli ho piantato il coltello nella gamba. Lui mi ha colpito in faccia con l’altra gamba e mi ha spaccato il labbro, ho sentito in bocca il sapore del sangue. Ma nel frattempo ero riuscito a dargli un bel po’ di coltellate sulla coscia e a tagliargli il legamento dietro il ginocchio.
Dietro di me Mei ne aveva già stesi tre, uno con metà della faccia bruciata, un altro con tre buchi nella testa da dove usciva sangue serio: quello quasi nero, quello che esce quando ti beccano il fegato, solo più denso. Il terzo aveva un braccio rotto. Mei era furioso, e girava con un coltello piantato nella gamba.
Dito stava vicino al muro, sotto i suoi piedi c’erano altri tre, tutti feriti alla testa, uno aveva un osso rotto che gli spuntava dalla gamba, sotto il ginocchio.
Al muro era appoggiato anche Geka, si era preso una botta in fronte: niente di grave, ma era evidente che si era spaventato.
Quei due pazzi di Fima e Ivan invece stavano massacrando insieme un gigante, un colosso disteso per terra che, per qualche oscuro motivo, non voleva mollare la mazza di legno che stringeva nel pugno. Aveva la faccia che sembrava un pezzo di carne tritata e da un bel po’ doveva aver perso i sensi, ma continuava a non mollare la mazza. Mi sono chinato su di lui e ho notato che era legata al polso con una benda elastica. Per lasciargli un saluto dalla Siberia gli ho tagliato i legamenti sotto il ginocchio: quello non ha fatto un lamento, era proprio out.
Ho tirato fuori il coltello dalla gamba di Mei, poi ho recuperato la benda elastica e l’ho divisa in due, una parte gliel’ho messa sulla ferita come un tappo, con l’altra ho fatto una fasciatura stretta. Mei non voleva rimettersi i pantaloni che si era tolto per semplificare le operazioni, diceva che voleva prendere un po’ d’aria, ’sto scemo.
Dito guardava Fima e Ivan con un sorriso che non si spegneva e loro si sentivano protagonisti, agitavano fieri le loro spranghe di ferro.
Ho aiutato Geka ad alzarsi. Stava bene, solo che dopo la botta si sentiva un po’ rintronato e al tempo stesso agitato. Ho tirato fuori dalla tasca una caramella:
– Prendi fratello, masticala piano. Ti farà stare calmo.
Era una balla, certo, ma se uno ci crede una caramella funziona come un tranquillante. «Fattore psicologico», lo chiamava mio zio, che aveva fatto smettere di fumare un suo compagno di cella raccontandogli la balla che se si massaggiava le orecchie per mezz’ora al giorno in un mese perdeva il vizio.
Geka ha preso la caramella e si è sentito meglio. Sulla fronte aveva un livido viola, lungo, che si perdeva nell’occhio sinistro. Gli ho detto che dovevamo andarcene in fretta, lasciare Ferrovia il più presto possibile. Geka era preoccupato perché quelli sapevano dove abitava, aveva paura di tornare a casa.
– Stai sereno, fratellino, – l’ho rassicurato. – Quando arriviamo nel nostro quartiere racconterò tutto al Guardiano. Zio Trave sistemerà le cose.
Cercavo di spiegargli che con noi lui era al sicuro, protetto.
– Come fai a essere certo che abbiamo ragione e non torto? – mi ha chiesto.
La sua domanda in quel momento mi era sembrata sciocca. Solo pili tardi, col tempo, ho capito quant’era profonda, invece. Perché il punto era un altro: non era in dubbio la nostra ragione in quella situazione о in altre analoghe, ma la realtà oggettiva della nostra posizione rispetto al mondo che ci circondava.
Era un filosofo, il mio amico Geka, ma io non ero abbastanza abile con le parole, e allora gli ho risposto con le prime che mi sono venute in mente:
– Perché siamo veri, non nascondiamo niente.
Sentendo la mia risposta lui mi ha sorriso in un modo strano, come se volesse dire qualcosa ma preferisse tenerselo per un’altra volta.
Intanto Mei aveva ispezionato le tasche dei nostri nemici, rimediando tre coltelli, sei pacchetti di sigarette, quattro accendini – uno dei quali era d’oro, e lui se l’è messo subito in tasca —, pili di cinquanta rubli e un sacchettino pieno di anelli e catene d’oro, che quei balordi avevano sicuramente appena fregato a qualcuno.
Vicino al bidone ci attendeva un’altra fetta di bottino. Una borsa di stoffa. Dentro c’era un thermos pieno di tè fatto male però ancora abbastanza caldo, una decina di piccoli panini al formaggio e una sorpresa: una doppietta corta, senza calcio, e un mucchio di cartucce sparse qua e là, anche in mezzo ai panini. Le ho controllate: quelle originali le ho tenute, quelle fatte in casa le ho buttate via, perché non mi fidavo delle cartucce fatte da sconosciuti, soprattutto se di Ferrovia.
Mei era sorpreso e continuava a chiedere come un disco rotto:
– Perché non ci hanno sparato? Perché non ci hanno sparato? Perché non ci hanno sparato?
– Perché non hanno le palle… – ho risposto, ma solo per farlo smettere di fare ’sta domanda, perché in verità non lo capivo neanch’io. Forse chi si era portato dietro quella doppietta era stato colto di sorpresa e non aveva avuto il tempo di tirarla fuori… Forse, о forse no. L’unica cosa certa era che se l’avessero usata, tutta la nostra storia sarebbe andata diversamente e magari io non sarei qui a raccontarla.
Mei voleva prenderla, ma per diritto d’anzianità spettava a Dito: l’ho data a lui, che l’ha nascosta bene sotto la giacca. Mei per fortuna non si è offeso, era d’accordo, si è messo so lo a insegnare a Dito come si spara con quella roba.
Siamo partiti a passo veloce verso il parco. Ero sicuro che ancora non era finita, avevo uno strano presentimento. Camminavo, masticando un panino congelato, e intanto pensavo che era proprio un brutto segno che nel giorno del mio compleanno mi fosse capitato tutto quel casino.
«D’accordo, mi aspetta una vita difficile, – mi dicevo.
– Spero solo che non sia troppo corta».
Quando siamo entrati nel parco stava venendo buio. D’inverno il buio scende subito, la luce del giorno se ne va senza una grande battaglia, nel giro di mezz’ora non si vede più niente. Nel parco non c’erano lampioni, si vedevano solo le deboli luci della città scintillare tra gli alberi. Camminavamo per il vialetto principale.
All’altezza del sanatorio ho esposto a Geka la mia teoria sul fatto che non era ancora finita, quella storia. Sentivo con il cuore che ci aspettava un’altra imboscata, e dato che il parco era il posto migliore per farla, isolato e buio com’era, temevo per tutti noi.
Anche Geka la pensava cosi:
– Non è un caso, no, se l’Avvoltoio non si è ancora visto?
Ha proposto di camminare tutti vicini, per essere pronti a coprirsi le spalle a vicenda se ci saltavano addosso all’improvviso.
Ci siamo uniti in un istante, camminavamo con lo stesso passo, come i militari, aspettandoci da un momento all’altro l’attacco nemico.
Abbiamo attraversato tutto il parco, ma non è successo nulla. Quando abbiamo visto le luci del Centro eravamo così contenti che quasi saltavamo dalla gioia. Mei si è messo persino a urlare offese fantasiose in direzione di Ferrovia.
Siamo entrati in Centro, passando per le strade illuminate eravamo già belli rilassati e capaci anche di scherzare. Tutto sembrava così naturale e semplice… Mi sentivo una tale leggerezza addosso che mi dicevo: «Se ne ho voglia, posso volare».
Mei ha cominciato a fare palle di neve e a tirarcele contro, ridevamo tutti, camminando verso casa.
Abbiamo preso una scorciatoia vicino alla biblioteca, una viuzza tranquilla che attraversava le vecchie case del centro storico. Non vedevo l’ora di tornare per festeggiare il mio compleanno con gli altri che ci stavano aspettando.
– Saranno ubriachi fradici, – scherzava Mei, – avranno già mangiato tutto e quando arriveremo ci toccherà lavare i piatti sporchi.
– Se è così, ragazzi, il mio prossimo compleanno lo festeggio da solo, andate tutti… – non ho finito la frase, qualcosa о qualcuno mi ha dato una forte botta sul fianco destro. Sono caduto sulla terra gelata battendo la testa. Ho sentito male, ma ho reagito subito, e quando mi sono tirato su con un salto avevo già i coltelli in mano.
La stradina era stretta e buia, ma da qualche parte, lontano, c’era una finestra illuminata, e grazie a quella luce qualcosa si vedeva. C’erano delle ombre che venivano verso di noi.
– Cazzo, cos’era, sei a posto? – mi ha chiesto Mei.
– Sembra di sì, qualcuno mi ha spinto. Sono loro, ne sono sicuro…
– Cristo Santo, io ho già buttato via il mio bastone, – mi guardava disperato.
– Tieni una mia lama. Dove sono finiti i tuoi dischi per la sega?
Mei ha messo la mano in tasca e me li ha dati:
– Tiraglieli in faccia, bello.
Detto fatto. Ho lanciato un disco verso l’ombra più vicina, e poco dopo si è sentito un urlo pazzesco.
Ho visto saltare Fima in avanti con il bastone di ferro, gridando:
– Fascisti di merda, vi strappo a pezzi!
Si è buttato su un ragazzo che ormai era vicino a noi e già si poteva vedere in faccia, quello ha cercato di schivare il colpo ma il bastone l’ha centrato dritto sulla nuca ed è caduto senza un lamento.
Dal buio si sono lanciati in tre su Fima, Ivan cercava di prenderli a sprangate come poteva.
Geka era a terra, aveva una mano rotta, stava prendendosi le botte da un gigante (un altro) armato di bastone. In un attimo, Dito si è buttato sul gigante con la doppietta spianata: gli ha sparato a bruciapelo, dritto nel torace. Il gigante è crollato in maniera innaturale, come spinto da una forza invisibile.
Io mi sono messo ad aiutare Fima, ho lanciato dischi a ripetizione, colpendo due aggressori in piena faccia. Un altro ì’ho accoltellato su un fianco, ho sentito la lama entrare profondamente nella carne attraverso uno strato di tessuti, e allora ho capito che erano cosi sicuri di prenderci di sorpresa che non si erano nemmeno imbottiti di giornali. L’ho colpito ancora due volte nello stesso punto, nella zona del fegato. Speravo di ucciderlo. Subito dopo ho avvertito una sensazione di debolezza nella mano che stringeva il coltello. Era come se stessi perdendo il controllo del braccio, tipo una paralisi.
«Ci mancava solo questa…», ho pensato.
Ho cercato di riprendermi, di stringere il coltello più forte, ma la mia mano destra non mi ascoltava, non rispondeva più. Allora ho impugnato il coltello con la sinistra e nello stesso momento, da dietro, Mei mi ha acchiappato per il collo e mi ha trascinato via. Intanto, sentivo tanti passi nel buio: passi di gente che scappava.
10 avevo perso il fiato, facevo fatica a respirare. La botta sul fianco mi faceva male, ma non la consideravo una roba seria. Pensavo che al massimo mi avevano rotto un paio di costole, infatti il dolore aumentava quando inspiravo.
11 gigante era per terra, immobile, e rantolava. Non c’era nemmeno una goccia di sangue. Le cartucce che Dito aveva usato per sparargli dovevano essere quelle di gomma con dentro un pallino di ferro: fatte apposta per non uccidere, però sparate da vicino possono fare danni seri.
Abbiamo ripreso a camminare, anzi, senza accorgercene abbiamo cominciato a correre. Correvamo tutti, davanti c’era Dito con Geka, che teneva la sua mano rotta sul petto stringendola con l’altra. Poi Fima, che mentre correva gridava bestemmie, e dietro di lui Ivan, zitto e concentrato. Anche se avevo male correvo come un pazzo anch’io, non sapevo nemmeno il perché: forse quell’aggressione improvvisa, proprio quando ci sentivamo ormai al sicuro, ci aveva messo addosso una febbre nuova.
Mei correva piano dietro di me, poteva andare più veloce ma era preoccupato perché io non riuscivo a correre bene come al solito, mi faceva un casino male il fianco colpito.
Finalmente siamo arrivati ai confini del nostro quartiere. Ci siamo fermati, piano piano, in mezzo alla strada che portava al fiume. Sono arrivati tre amici che in quel momento stavano di guardia. Gli abbiamo raccontato in due parole cos’era successo, e uno di loro è subito andato ad avvertire il Guardiano.
Siamo arrivati a casa mia. Mia mamma era in cucina con zia Irina, la madre di Mei. Erano preoccupate, e quando ci hanno visto entrare sono rimaste inchiodate alle loro sedie.
– Che vi è successo? – ha balbettato mia mamma.
– Niente, siamo finiti un po’ in un casino, una sciocchezza… – sono corso in bagno per nasconderle il giubbotto squarciato, e per lavarmi le mani sporche di sangue. – Mamma, chiama zio Vitali], – ho detto rientrando in cucina. – Bisogna portare Geka in ospedale, si è rotto un braccio…
– Ma siete pazzi? Come, si è rotto un braccio? Vi siete picchiati con qualcuno? – mia mamma tremava.
– No, signora, sono caduto, un incidente… Dovevo stare più attento —. Povero Geka, con una voce che sembrava uscire dall’aldilà cercava di salvare la situazione.
– Se sei caduto, perché Mei ha un livido in faccia? – mia mamma aveva un modo tutto suo per dire che eravamo dei contaballe.
– Zia Lilja, – ha detto quel genio di Mei rivolto a mia madre, – il fatto è che siamo caduti tutti insieme…
Subito dopo zia Irina ha cominciato a riempirlo di schiaffi.
Sono tornato in bagno e mi sono chiuso dentro. Ho acceso la luce, e quando mi sono guardato mi è caduta l’anima nei talloni: avevo tutta la gamba destra piena di sangue. Mi sono spogliato e ho girato il fianco che mi faceva male verso lo specchio. Eccolo, era H: un sottilissimo taglio, largo appena tre centimetri, da dove sbucava un pezzo di lama rotta. Ho preso le pinzette per le sopracciglia di mia madre e in quel momento lei ha bussato.
– Fammi entrare, Nicolai.
– Un secondo ed esco, mamma, il tempo di lavarmi la faccia!
Ho afferrato il pezzo di lama che spuntava e ho tirato piano. Mentre guardavo la lama uscire e diventare sempre più lunga, ho sentito la testa pesante. Mi sono fermato a metà, ho aperto l’acqua e mi sono bagnato la fronte. Dopo ho ripreso la lama e l’ho tirata tutta fuori. Era lunga quasi dieci centimetri, non credevo ai miei occhi. Era un pezzo di lama della sega che si usa per tagliare il metallo, affilata a mano come un rasoio da tutte e due le parti, con una punta sottile e fragile. L’avevano scelta apposta quell’arma, per colpire e poi spaccarla, in modo che restasse nella ferita e facesse soffrire di più.
La ferita sanguinava. Ho aperto il mobiletto e mi sono medicato come potevo: un po’ di pomata cicatrizzante sul taglio e tutt’intorno una fasciatura stretta, per fermare il sangue. I vestiti e le scarpe li ho buttati tutti dalla finestrella del bagno, e mi sono messo gli abiti sporchi presi dalla cesta vicino alla lavatrice. Ho lavato e asciugato il coltello e sono tornato di là.
Mei e zia Irina erano già andati via, era arrivato zio Vitali], che teneva in mano le chiavi della macchina, pronto per portare Geka in ospedale.
Fima e Ivan stavano seduti al tavolo di cucina, mia mamma gli aveva dato da mangiare la zuppa con la panna acida e la carne stufata con le patate.
– Allora, casinista, cos’avete combinato ancora? – mi ha chiesto zio Vitali], come sempre di buon umore.
Io mi sentivo privo di forze, non avevo molta voglia di scherzare.
– Ti racconterò dopo, zio, è una storiaccia.
– Ma proprio il giorno del tuo compleanno dovevi finire nei casini? Tutti i tuoi amici sono già ubriachi, ti stanno aspettando…
– Niente festa, zio, non sto in piedi, voglio solamente dormire.
Sono stato a letto due giorni, alzandomi solo per mangiare e andare in bagno. Il secondo giorno Mei è venuto a trovarmi insieme al Guardiano, zio Trave, che voleva sentire da me com’era andata la storia.
Gli ho raccontato tutto, e lui mi ha promesso di regolare la faccenda in poche ore, anche per evitare ritorsioni su Geka, Fima e Ivan a Ferrovia, visto che Dito rimaneva a vivere nel nostro quartiere.
Dopo una settimana circa Trave mi ha invitato a casa sua per farmi parlare con una persona di Ferrovia. Era un criminale adulto, un’autorità della casta Seme nero, si chiamava «Corda» ed era uno dei pochi criminali di Ferrovia rispettato dai nostri.
Li ho trovati seduti al tavolo, Corda si è alzato e mi è venuto incontro guardandomi in faccia:
– Allora sei tu il famoso «scrittore»?
Scrittore, in gergo criminale, è chi è agile con il coltello. La scrittura è una coltellata.
Io non sapevo cosa rispondere e se potevo farlo, allora ho guardato Trave. Lui ha fatto si con la testa.
– Scrivo quando c’è da scrivere, quando m’ispira la musa, – ho risposto.
Corda ha fatto un largo sorriso:
– Sei un piede scalzo sveglio.
Mi aveva chiamato piede scalzo, era un buon segno. La cosa forse stava per risolversi a mio favore.
Corda si è seduto e mi ha invitato a sedermi con loro.
– Te lo chiedo una volta sola, cosa ne pensi di questa faccenda, e dopo non ci torneremo più su —. Corda parlava con una grande calma e sicurezza nella voce, si sentiva che era un’autorità, uno capace di gestire le cose. – Se per te la storia finisce qui e non hai voglia di vendicarti su nessuno, ti do la mia parola che tutti quelli che hanno arrecato disturbo a te e ai tuoi amici saranno puniti severamente da noi, dalla gente di Ferrovia. Se vuoi vendicarti su qualcuno in particolare puoi farlo, però in questo caso dovrai fare tutto da solo.
Non ci ho pensato neanche un attimo, la risposta mi è venuta subito alle labbra:
– Non ho niente di personale contro nessuno di Ferrovia, quello che è stato è stato, è giusto che sia dimenticato. Spero di non avere ucciso nessuno dei vostri, però nella rissa sapete com’è, ognuno cerca di uscirne come può.
Volevo fargli capire che per me non era importante la vendetta, che venivano prima il benessere e la pace nella comunità.
Corda mi guardava serio, però con un’aria buona, amichevole:
– Bene, allora ti prometto che quello che ha organizzato questo vergognoso gesto contro di voi, mentre eravate ospiti nel nostro quartiere, sarà punito ed espulso. I tuoi amici possono vivere la loro vita degna e camminare a testa alta a Ferrovia… – ha fatto una pausa, guardando una porta dall’altra parte della stanza. – Ti voglio presentare i miei nipoti, li hai già conosciuti purtroppo, ma adesso voglio che accetti le loro scuse… – a queste parole dalla porta sono usciti due ragazzi con le facce da funerale e la testa bassa. Uno l’ho riconosciuto subito, era Barba, lo stronzetto che avevamo picchiato e chiuso nella scuola, mentre l’altro aveva una faccia che non mi sembrava nuova, ma non riuscivo a ricordarlo. Poi ho notato che zoppicava, e che sotto i pantaloni, sulla gamba sinistra, si vedeva il rigonfiamento di una fasciatura: era il tipo a cui avevo dato una coltellata mentre gli passavo il mio messaggio per l’Avvoltoio, dopo il primo scontro.
I due si sono avvicinati e si sono fermati davanti a me con lo stesso entusiasmo dei condannati a morte di fronte al plotone d’esecuzione. Mi hanno salutato all’unisono. Era molto triste e umiliante, mi dispiaceva per loro.
Corda gli ha detto con voce severa:
– Allora, cominciate!
Subito dopo l’ordine, Barba, il piccolo tossico, è partito come un mitra, con parole evidentemente studiate:
– Ti chiedo perdono come a un fratello, perché ho fatto uno sbaglio, se vuoi punirmi te lo lascio fare, però prima perdonami! – non era commovente come può sembrare, capivo benissimo che si trattava di una pura formalità.
Anch’io dovevo recitare la mia parte:
– Cogli il mio umile saluto di fratello affettuoso e compassionevole. Che il Signore ci perdoni tutti quanti.
Era la scuola di nonno Kuzja, quella. Mi avesse sentito sarebbe stato fiero di me. Tono poetico, contenuto ortodosso: da vero siberiano.
Dopo le mie parole Trave è rimasto con un sorriso soddisfatto stampato sulla faccia, Corda aveva quasi la bocca aperta.
Ora toccava all’altro disgraziato:
– Ti prego, perdonami come un fratello, perché ho commesso un’ingiustizia e…
La sua voce era meno decisa di quella di Barba, era evidente che non riusciva a ricordare bene la sua parte e l’aveva accorciata. Ha rivolto uno sguardo smarrito a Corda, ma quello non ha fatto una piega, però le sue mani involontariamente si sono strette nei pugni.
Allora ho deciso di ammazzarli tutti con la mia gentilezza, e dopo un respiro profondo ho tirato come una canzone la frase seguente:
– Come il Nostro glorioso Signore Gesù Cristo abbraccia tutti noi peccatori nel Suo dolce amore, e affettuosamente ci spinge verso la via dell’eterna salvezza, così con la stessa umiltà e gioia vi comprendo nella fraterna grazia.
Parole da santo, i miei piedi quasi si alzavano da terra, sembrava che dovesse aprirsi un varco nel soffitto tutto per me.
Trave non smetteva di sorridere, Corda ha detto:
– Perdonaci per tutto, Kolima, torna a casa tranquillo, sistemerò personalmente ogni cosa.
Dopo un mese ho saputo che l’Avvoltoio era stato picchiato a sangue, gli avevano «segnato» la faccia, facendogli un taglio che partiva dalla bocca, attraversava tutta la guancia e finiva all’orecchio. Poi lo avevano costretto ad andarsene da Ferrovia.
Qualcuno un giorno mi ha detto che si era trasferito a Odessa, dove si era affiancato a una banda di minorenni che rubavano i portafogli nei tram. Gente che non rispettava nessuna legge, né quella degli uomini né quella dei criminali.
Qualche tempo dopo ho saputo che era morto, ucciso dai suoi stessi compagni, che l’avevano buttato giù dal tram in movimento.
Geka è guarito in fretta, non gli è rimasto nessun segno della frattura; più tardi si è iscritto all’università di medicina.
Fima per sua disgrazia è stato portato dalla sua famiglia in Israele. Mi hanno raccontato che quando hanno cercato di farlo salire sull’aereo s’è messo a protestare, urlando che per un marinaio è una vergogna andare in giro volando. Ha picchiato un aiuto pilota e due agenti della dogana. Alla fine hanno dovuto addormentarlo con un sedativo.
Ivan ha continuato a suonare il violino nel ristorante, e dopo un po’ ha trovato il modo per consolarsi della lontananza del suo amico: ha conosciuto una ragazza, con cui è andato a convivere. Del resto tra le ragazze della città girava voce che Ivan fosse stato dotato dalla natura di un altro talento, oltre a quello musicale.
Dito ha vissuto per un po’ di tempo nel nostro quartiere, poi ha rapinato banche con una banda siberiana e alla fine si è sistemato in Belgio, sposando una donna di H.
Dopo il casino a Ferrovia, ancora per un paio d’anni ogni tanto incontravo in città ragazzi che non conoscevo, e che mi salutavano dicendo:
«C’ero anch’io quel giorno».
Alcuni mi facevano vedere i tagli dietro le ginocchia, le cicatrici sulle cosce, quasi con un senso di vanità e orgoglio, dicendomi:
«Lo riconosci? E il tuo lavoro!»
Con molti siamo rimasti in buoni rapporti. Quel giorno per fortuna non era morto nessuno, anche se uno l’avevo ferito abbastanza gravemente, accoltellandolo vicino al fegato.
Nonno Kuzja, dopo aver saputo da Trave come mi ero comportato con i nipoti di Corda, si è complimentato con me a modo suo. Sorriso sghembo e una frase sola:
«Bravo Kolima, una lingua gentile taglia e colpisce meglio di ogni coltello».
Regali di compleanno quell’anno non ne ho avuti, mio padre era arrabbiato con me, ripeteva «Non sei capace di stare tranquillo neanche il giorno del tuo compleanno», mia mamma invece si era offesa perché le avevo tenuto nascosto quello che mi era capitato quel giorno, e in mezzo a tutto ’sto casino nessuno mi ha regalato niente, tranne zio Vitalij che mi ha portato un pallone da calcio tutto di pelle, molto bel lo, ma il mio cane lo ha fatto a pezzi la notte stessa.
Niente regali, e soprattutto una bella ferita che mi è servita per riflettere, capire meglio e inquadrare la vita che stavo facendo.
Dopo tanti pensieri e discussioni con me stesso sono arrivato alla conclusione che non si risolve niente con il coltello e le botte. Cosi sono passato alla pistola.