Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
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Insomma, entrando nel locale di zia Katja bisognava seguire le regole del carcere, e comportarsi come uno si comporta quando entra in una vera cella. Poteva sembrare una sciocchezza, però per quella gente, per quegli anziani ex carcerati, era un segno di rispetto, un modo per fargli capire che eri venuto con buone intenzioni ed eri uno in gamba.
Quando entri in una cella devi saper salutare in maniera degna. Non puoi dire semplicemente «Salve» о «Buon giorno», se lo fai i criminali capiscono subito che sei uno che non sa niente della loro cultura, e se ti va bene ti definiscono «uno di passaggio», uno che non c’entra niente con loro, e di conseguenza non comunicheranno con te, faranno finta che tu non esista. Bisogna salutare cosi: aprire la porta, fare un so lo passo e poi fermarsi, guai a fare un altro passo. Quindi dire «Pace alla casa vostra (o nostra)» о «Pace e salute agli onesti vagabondi» (questa è una variante sicura, da vero criminale), oppure «Buona salute alla compagnia onesta», «E l’ora delle vostre gioie»: insomma, esistono tanti modi di salutare, conosciuti e usati nel mondo criminale. Dopo aver pronunciato la formula giusta, è essenziale non muoversi e aspettare la risposta. Di solito i criminali non rispondono subito, fanno passare qualche momento, per valutare la tua reazione. Se sei in gamba starai tranquillo, fisserai un punto davanti a te e non guarderai mai nessuno in faccia, starai fermo e immobile ad aspettare. Ti risponderà la persona più autorevole, о uno dei suoi, sempre con una formula: «Benvenuto con onestà» о «Che il Signore ti guidi», oppure «Entra con l’anima».
Secondo le regole, prima di fare qualunque altra cosa, bisogna salutare personalmente il criminale più autorevole. Nel mio caso, quella volta io lo conoscevo. Si trovava vicino a una delle finestre dalla parte opposta del locale di zia Katja. Si sedeva sempre li, in compagnia dei suoi.
Tutte le persone presenti appartenevano alla casta degli Uomini, che nella gerarchia criminale viene chiamata anche Seme grigio. Erano criminali incalliti, alcolisti, gente semplice, ladri e assassini, che per motivi personali non avevano voluto affiancarsi alla casta di Seme nero, i cui membri rappresentavano una specie di «nobiltà» tra i criminali.
Tra le comunità criminali c’era un eterno processo di lotta per il potere, gli interessi erano diversi ma lo scopo finale di tutti era sempre lo stesso: il potere.
Il Seme nero nel mondo fuorilegge era una casta giovane ma potente, che aveva saputo far leva sulla filosofia del sacrificio personale. Apparivano come uomini puri e perfetti, che dedicavano la vita al benessere della gente in prigione. Avevano il culto della prigione: la chiamavano familiarmente «casa», «chiesa» о «madre», ed erano felici di finirci dentro anche per tutta la vita, mentre tutte le altre caste, tra cui anche quella degli Urea siberiani, disprezzavano la prigione e sopportavano la detenzione come si sopporta una disgrazia.
Grazie all’arruolamento nelle sue fila di cani e porci, il Seme nero era diventata la casta più numerosa nel mondo fuorilegge russo: ma per una persona saggia e buona che potevi incontrare fra di loro, ti toccava conoscerne altre venti ignoranti e sadiche, che si davano arie e facevano i prepotenti in ogni situazione. Per questo molti rifiutavano di condividere le loro idee.
Poi c’era un’altra particolarissima casta: il Seme rosso, gente che collaborava con gli sbirri e che credeva nelle balle raccontate dalle amministrazioni delle prigioni, come il «recupero della personalità». Venivano chiamati «cornuti», «rossi», «compagni», sucha, padla – nomi molto dispregiativi nella comunità criminale.
Tutti quelli che si trovavano in mezzo erano detti Seme grigio: cioè, neutrali. Erano contro gli sbirri e condividevano le regole della vita criminale, ma non avevano le responsabilità e soprattutto la filosofia di Seme nero, non volevano certo stare tutta la vita in prigione.
Quelli di Seme nero erano obbligati a rinnegare i parenti, non potevano avere né casa né famiglia. Come tutti gli altri criminali avevano il culto della madre, ma molti di loro non rispettavano le loro madri, anzi le trattavano male. Quante povere donne ho conosciuto con dei figli che, mentre stavano dentro, si dicevano l’un l’altro in maniera teatrale che l’unica cosa che gli mancava davvero era la mamma, mamma di qua e mamma di là, tante belle parole, e poi quando uscivano si presentavano a casa solamente per sfruttarla, a volte derubarla, perché così dice la loro regola: «Ogni Blatnyj – cioè ogni membro di Seme nero – deve portare via tutto dalla propria casa, solo così dimostra di essere onesto fino in fondo…» Una pazzia, madri e padri derubati, minacciati e a volte persino uccisi. Una vita corta e violenta, come la definivano loro stessi: «Vino, carte, donne e poi caschi pure il mondo…», senza nessun impegno morale о sociale. Tutta la loro esistenza si trasforma in uno spettacolo continuo in cui devono mostrare sempre e solo i lati negativi e primitivi della loro natura.
L’equilibrio tra Seme grigio e Seme nero si regge su continue tregue; gli Uomini sono più numerosi, ma i Blatnyj sono meglio organizzati in carcere.
La casta degli Uomini non ha una gerarchia come quella di Seme nero: viene rispettata l’anzianità e la professione, si trovano più in alto quelli che rischiano di più, rapinatori e assassini di poliziotti, mentre dopo vengono i ladri, i truffatori, i bari e tutti gli altri.
Gli Uomini condividono ogni decisione e seguono regole di vita simili a quelle siberiane, ma si mantengono pili neutrali in qualsiasi situazione. Il loro motto è: «La nostra casa è fuori dal villaggio». Le loro unità criminali non si chiamano bande ma «famiglie», e anche in prigione formano famiglie dove sono tutti uguali e condividono ogni cosa; quando è necessario le famiglie si uniscono e diventano una potenza senza limiti. Quasi tutte le rivolte carcerarie sono organizzate da loro.
Il vecchio più autorevole in quel locale – che dovevo salutare personalmente prima di fare qualsiasi altra cosa – si chiamava zio Kostic, ed era soprannominato «Scaber».
Era un criminale vecchio ed esperto, conosciuto in tutto il Paese; nella nostra comunità e nella mia famiglia parlavano bene di lui, lo trattavano con molto affetto. Era un tipo tranquillo e pacifico, aveva un modo di parlare molto piace-vole, si esprimeva con pazienza e umiltà ed era sempre chiaro e diretto: se doveva dirti una cosa non ci girava tanto intorno. Viveva con sua madre, una donna cosi vecchia che sembrava una tartaruga, si muoveva piano ma era molto in gamba; avevano una casa e un po’ di terra. Zio Kostic teneva molti colombi e io ogni tanto andavo a trovarlo per fare degli scambi: lui era onesto e mi regalava sempre qualche colombo in più, mi offriva il cifir e dopo mi raccontava varie storie interessanti della sua vita. Aveva una figlia da qualche parte della Russia ma non la vedeva da tanto tempo, e secondo me soffriva molto per questo.
Da giovane – mi raccontava – non era un criminale, lavorava in una grande segheria, tagliava i tronchi degli alberi. Ma poi un giorno aveva visto un ragazzo tagliarsi in due, cadendo sulla lama di una grande sega, spinto da un tronco. Il capo squadra non aveva permesso a nessuno di smettere di lavorare neanche per un momento, e loro erano stati obbligati a continuare a tagliare il legno, macchiandosi del sangue del loro compagno. Da allora aveva cominciato a odiare il comuniSmo, il lavoro collettivo e tutto ciò che proponeva il sistema sovietico.
La sua prima condanna se l’era beccata per un articolo del codice penale chiamato in Urss «Fannullone». Secondo quell’articolo, chi non aveva un lavoro ed era disoccupato poteva essere condannato come un criminale. E cosi, Kostic era stato mandato per tre anni in un carcere a regime comune nella città di Tver'. In quel periodo era in corso una guerra tra caste, il Seme nero stava per avere il controllo delle prigioni; all’inizio non molti erano d’accordo con questo cambiamento e il sangue scorreva come un fiume a primavera. Kostic aveva cercato di stare staccato da tutti, di non legarsi a nessuno, ma man mano che passava il tempo si era accorto che in prigione è impossibile vivere per conto proprio. A lui stavano più simpatici gli Uomini che i Blatnyj perché, diceva, «sono semplici e non tentano di ottenere niente con la violenza e la prepotenza, preferiscono usare le parole e il buon senso». In carcere era entrato a far parte di una famiglia che cercava di vivere in maniera neutrale, senza prendere le parti di nessuno in quella guerra, ma un giorno uno dei loro criminali anziani era stato ucciso da un giovane e spregiudicato Blatnoi, che voleva indebolire la casta di Seme grigio per poi sfruttare i suoi membri asservendoli ai propri interessi.
Allora gli Uomini hanno organizzato prima una specie di resistenza pacifica, poi, quando hanno capito che questo atteggiamento non dava i risultati voluti, si sono decisi a entrare in guerra. E quella guerra l’hanno combattuta con i coltelli. Molti di loro, lì in prigione, lavoravano in cucina e come parrucchieri (invece i Blatnyj non lavoravano, era contro le loro regole), quindi si sono armati senza fatica di coltelli e forbici e hanno seminato la morte tra il Seme nero.
Kostic sapeva usarlo bene, il coltello: era cresciuto in campagna, da ragazzo aveva imparato ad ammazzare i maiali grazie all’insegnamento di un vecchio reduce della Prima guerra mondiale che faceva il macellaio e finiva le bestie con un colpo di baionetta. Cosi, dopo i suoi primi omicidi, Kostic si è guadagnato quel soprannome: i compagni l’hanno chiamato con il nome di un coltello. Una volta uscito di prigione, sapeva già di cosa si sarebbe occupato: è cominciata allora la sua lunga carriera di rapinatore delle navi sui fiumi Volga, Don e Danubio.
Con zio Kostic io potevo parlare liberamente, senza seguire tante regole di comportamento. Certo ero rispettoso come con qualsiasi persona anziana e autorevole, ma mi permettevo anche un po’ di confidenza: gli raccontavo le mie avventure e gli facevo tante domande, cosa che nella comunità criminale di solito non si fa.
Spesso mi chiedeva di recitargli le poesie di Esenin, Lermontov, Puskin che conoscevo a memoria, e quando avevo finito diceva ai suoi compagni:
«Avete sentito? Questo diventerà un giorno un uomo intelligente, uno studiato! Che Dio ti benedica, figliolo! Dai, ripetimi ancora quella dell’aquila dietro le sbarre…»
Era il suo pezzo preferito, la poesia di Puskin dove era raccontato in maniera metaforica lo stato d’animo di un carcerato, paragonato a quello di una giovane aquila allevata in prigionia e costretta a vivere in una gabbia stretta. Io la recitavo con tono potente e lui mi guardava dritto negli occhi, come se cercasse qualcosa che doveva arrivare e non arrivava mai, e le sue labbra piano piano si muovevano ripetendo le parole che avevo appena detto. Quando finivo con i versi «Su, voliamo via! Noi siamo liberi uccelli, è tempo, fratello, è tempo! Là, dove dietro le nubi biancheggia la montagna, là, dove l’azzurro del mare è più intenso, là, dove volo da so lo nel vento…», lui si metteva le mani tra i capelli e diceva in maniera molto teatrale:
«E così, è vero, è così! Ma anche se avessi un’altra vita, rifarei le stesse cose!»
In quei momenti mi faceva impressione capire quanto lui era semplice e com’era bella e in un certo senso pura la sua semplicità.
Un giorno Kostic aveva ammazzato di botte una coppia di giovani tossici che abitavano in Centro, colpevoli di aver provocato la morte del loro bambino di quattro mesi lasciandolo senza cibo, buttato a morire di fame in un angolo del loro appartamento, tra gli stracci sporchi e i vestiti da lavare.
Quella coppia era famosa in città per la sua arroganza. La ragazza era abbastanza bella, si vestiva in maniera molto provocante e si comportava allo stesso modo. Il marito, figlio del direttore di una fabbrica di macchine di una grossa città della Russia centrale, era un ex studente fallito, un tossicodipendente e uno spacciatore, dava fastidio a tanta gente perché seminava il suo veleno tra i giovani.
I vicini di casa, che da tempo avevano notato che il bimbo era troppo magro e piangeva sempre, una mattina li hanno visti uscire senza il piccolo e poi andare al bar, dove sono rimasti tutto il giorno. Sospettando qualcosa di brutto hanno buttato giù la porta di casa e hanno trovato quel corpicino senza vita. A quel punto hanno scatenato un inferno.
I due genitori sono stati linciati dalla folla, che li avrebbe di certo ammazzati se non fosse intervenuto il Guardiano del Centro, che li ha presi e portati a casa sua, dicendo che dovevano essere giudicati secondo le regole criminali. In verità il Guardiano voleva solamente sfruttare l’occasione per ricattare il direttore della fabbrica, e costringerlo a pagare per salvare il figlio da morte sicura. Tutti, anche se sospettavano qualcosa, hanno preferito tacere. Tutti tranne Kostic.
Kostic ha fatto un gesto spettacolare: si è presentato da solo a casa del Guardiano, a torso nudo, con un bastone tra le mani. Gli scagnozzi del Guardiano hanno tentato di fermarlo, minacciandolo con la forza, ma lui ha detto solamente una cosa:
«Volete picchiare lei?» indicando la Madonna con Bambino tatuata sul suo petto. Quelli si sono tirati indietro e l’hanno fatto entrare, e lui ha ucciso a bastonate quei due genitori snaturati buttandoli poi giù dalla finestra, in strada, dove la gente li ha pestati finché non sono diventati una specie di massa biologica.
Il Guardiano era infuriato, ma già dopo mezz’ora le persone più autorevoli in città, tra cui anche nonno Kuzja, hanno dato ragione a Kostic e hanno consigliato al Guardiano una soluzione semplice e drastica: suicidarsi.
Dopo una settimana è arrivato in città il direttore della fabbrica, con l’intenzione di vendicare il figlio. Era evidente che sapeva ben poco della nostra città, perché si è presentato con una banda di coglioni armati, composta metà da sbirri fuori servizio e metà da militari; li aveva ingaggiati per fare una spedizione punitiva contro il criminale che aveva ucciso suo figlio. Ebbene, sono spariti tutti in un vicolo, insieme ai loro tre fuoristrada. Nessuno ha visto né sentito niente, sono entrati in città e non ne sono mai usciti.
Li hanno cercati ancora per un po’: appelli sui giornali, in televisione hanno persino fatto vedere la moglie del direttore che supplicava chiunque sapesse qualcosa del marito di parlare. Non è venuto fuori niente, come si dice da noi: «annegato senza lasciare neanche i cerchi nell’acqua».
Quando io chiedevo a nonno Kuzja, non in maniera diretta ovviamente ma prendendola alla larga, se secondo lui il direttore era morto per una ragione giusta, lui mi rispondeva con una frase che doveva piacergli molto, visto che la ripeteva a ogni occasione:
«Chi viene da noi con la spada, dalla spada prenderà la morte». Dicendolo mi sorrideva come faceva sempre, ma lo faceva con lo sguardo pesante di chi si tiene dentro tante storie che sono destinate a rimanere li per sempre.
Tornando a noi: ci siamo diretti verso il tavolo di zio Kostic, io camminavo spedito e Mei si trascinava dietro di me. Zio Kostic ci ha subito offerto di sederci con lui. Era un gesto generoso, ne abbiamo approfittato all’istante.
A quel punto è arrivata zia Katja, che ci ha baciati a lungo.
– Come state, figlioli? – ha chiesto con la sua solita voce angelica.
– Grazie, zia, tutto bene… Passavamo di qui, abbiamo deciso di fare un salto, vedere come stavi, se avevi bisogno di qualcosa…
– Sono sempre qui con la mia compagnia, grazie al cielo… – e ha gettato a zio Kostic un’occhiata affettuosa.
Lui le ha preso la mano e le ha baciato il palmo come si usava fare ai vecchi tempi in segno di affetto verso una donna, spesso la madre о la sorella. Poi ha detto:
– Che Gesù Cristo sia con te, madre, respiriamo grazie alle fatiche che fai. Perdonaci per tutto, Katjusa, siamo vecchi peccatori, perdonaci per tutto.
Era un vero spettacolo assistere a questi semplici e allo stesso tempo plateali gesti di rispetto e amicizia umana tra persone dai destini così diversi, unite dalla solitudine in mezzo al caos.
Zia Katja si era seduta con noi. Il vecchio continuava a tenerle la mano e guardando lontano, sopra le nostre teste, ha detto:
– Mia figlia deve avere la tua stessa età, lo sai, Katja? Spero che stia bene, che abbia trovato la sua strada e che sia una strada buona e giusta, diversa dalla mia…
– E anche dalla mia… – gli ha risposto zia Katja con la voce un po’ tremolante.
– Dio mi perdoni, povero scemo che sono. Cosa ho detto, Katjusa, che Dio ti aiuti…
Lei non ha risposto, stava quasi per piangere.
A noi toccava solo stare zitti e ascoltare, l’aria era piena di sentimenti veri e profondi.
Quello che mi piaceva di quell’ambiente, per quanto violento e brutale potesse essere, era che non c’era posto per bugie e menzogne, sceneggiate e buffonate: era assolutamente vero e involontariamente profondo. La verità, voglio dire, aveva un aspetto naturale, spontaneo, e non coltivato, fatto apposta: la gente era veramente umana.
Dopo una corta pausa io ho detto:
– Zia Katja, ti abbiamo portato una cosa…
Mei ha messo sul tavolo il sacchetto con la pianta avvolta negli stracci del vecchio Bosja, per proteggerla dal freddo.
Lei ha tolto quegli stracci e sulla faccia le è apparso un sorriso.
– Allora, com’è? Ti piace?
– Grazie, ragazzi, è bellissima. La porto subito nella serra, altrimenti con il freddo che fa… – e se n’è andata via con la pianta tra le mani.
Noi eravamo contenti, come se avessimo fatto un gesto eroico.
– Bravi, figlioli, – ci ha detto zio Kostic. – Non dimenticatela mai questa donna santa, che solo Dio lo sa come ci si sente a perdere i propri figli…
Quando zia Katja è tornata glielo si vedeva dagli occhi, che mentre era in serra aveva pianto. Ci ha abbracciati.
– Allora, con cosa vi devo sfamare oggi?
Era una domanda retorica. Tutto quello che cucinava lei era buonissimo. Senza pensarci su due volte abbiamo ordinato un’ottima zuppa rossa con la panna acida e il pane di grano duro. Un pane buono, nero come la notte.
Lei ha portato un pentolone pieno e lo ha messo al centro del tavolo, la zuppa era talmente calda che il vapore sembrava solido come un palo. Ci siamo serviti con un grande mestolo, poi abbiamo aggiunto nei piatti un cucchiaio di panna acida, che era dura e un po’ gialla, tanto grasso conteneva. Prendevamo un pezzo di pane nero, ci spalmavamo sopra aglio e burro, e via così, una cucchiaiata di zuppa e un morso di pane.
In quelle occasioni Mei era capace di svuotare da solo un intero pentolone, mangiava in fretta, io invece masticavo lentamente, mi dedicavo tutto a quel piacere e spesso, quando giravo il mestolo nel pentolone per prendere un bis, lo sen-tivo sbattere tristemente contro le pareti vuote. In quei momenti avevo la grande tentazione di spaccare il mestolo sulla testa del mio insaziabile compagno.
Per me, dopo aver mangiato la zuppa, è come se mi si aprisse un secondo respiro dentro il corpo, mi partono a raffica emozioni positive e mi viene voglia di stirarmi su un letto caldo e comodo e farmi una dormita di dieci ore.
Ma tempo cinque minuti per il cambio dei piatti ed è arrivato il secondo: patate cotte con la carne al forno, che galleggiavano nel grasso sciolto e avevano un profumo che arrivava direttamente al cuore. E al solito, per accompagnare quella portata, i tre piatti tipici. Cavoli tagliati lunghi e sottili, marinati nel sale, una cosa buonissima: mio nonno diceva sempre che erano una medicina naturale contro qualunque malattia, e che era grazie a loro che i russi avevano vinto tutte le guerre. Io personalmente ignoravo come i cavoli salati potessero guarire le malattie e con quali strategie militari avessero vinto le guerre, però erano molto buoni e come si dice da noi «andavano giù fischiando». L’altro piatto erano i cetrioli, sempre marinati nel sale, buoni da morire, croccanti come se li avessero appena tolti dalla pianta, profumati da tante spezie ed erbette, una favola. Il terzo erano le rape bianche grattugiate, con olio di girasole e aglio fresco. Erano tutti piatti che venivano da una cucina contadina molto povera di materie prime, ma capace di sfruttarle tutte con tante ricette diverse. Poi sul tavolo erano sempre presenti dei piattini con aglio fresco, cipolla tagliata a fettine, pomodori-ni verdi, burro, panna acida, e tanto pane nero. Per me, se esiste il paradiso, dev’esserci assolutamente una tavola imbandita come quella del locale di zia Katja.
Non osavamo bere alcol davanti a lei, per non darle un dispiacere. Così bevevamo kompot, una specie di composta di frutta, una macedonia di mele, pesche, prugne, albicocche e mirtilli rossi e neri fatta bollire a lungo in un grosso pentolone. Si preparava d’estate, e per il resto dell’anno veniva conservato in bottiglioni da tre litri con un collo largo circa dieci centimetri, chiuso ermeticamente. Si teneva in fresco nelle cantine, poi andava riscaldato prima di berlo.
Ogni volta che zia Katja si allontanava, zio Kostic aggiungeva nei nostri bicchieri un po’ di vodka facendoci l’occhiolino:
– Fate bene a non farvi vedere da lei… – Noi buttavamo giù obbedienti il misto di vodka e kompot, e lui rideva delle facce che facevamo subito dopo.
Il pranzo è durato un’ora, forse un po’ di più. Alla fine è arrivato tè bollente, forte e nero, con limone e zucchero. E torta al miele, una meraviglia. Mei si è buttato su quella torta come un invasore tedesco si buttava sulle galline nei pollai dei contadini russi. Ma ha subito ricevuto da me un’amichevole sberla e le sue mani sono arretrate fino a ritirarsi sotto il tavolo.
Il compito della divisione della torta spettava a me, era mio il compleanno. Il primo pezzo, per rispetto, l’ho dato a zio Kostic, il secondo all’amico di zio Kostic, un vecchio criminale chiamato «Beba», che era una specie di sua ombra silenziosa e invisibile. Poi, con calma, lentamente, ho servito Mei, che stava quasi per esplodere: guardava concentratissimo la sua fetta come quando un cane fissa il pezzettino di cibo nella mano del padrone e segue tutti i suoi movimenti. Mi faceva ridere, cosi senza nessun rimorso torturavo la sua pazienza facendo ogni gesto al rallentatore. Alla fine Mei si è innervosito e le sue ginocchia hanno cominciato a tremare sotto il tavolo in uno spaventoso tic, allora io con calma assoluta gli ho detto:
– Attento che rischi di farla cadere.
Tutti si sono messi a ridere, e Mei più degli altri.
Dopo il dolce di solito si sta un quarto d’ora seduti immobili, come diceva mio nonno «per accumulare un po’ di grassi». E si parla di varie cose. Mei però non poteva parlare proprio di niente, perché a giudicare da come si staccava dal tavo lo e si appoggiava con la schiena alla sedia, era entrato in uno stato fisico e mentale da abuso di stupefacenti. Per questo mio zio, da quando Mei era piccolo, lo chiamava «maiale»: perché come i maiali diventava ubriaco subito dopo aver mangiato.
Cosi alle chiacchiere abbiamo partecipato solo io e zio Kostic, Beba ogni tanto infilava una parola.
– E allora, a casa tutto bene? Nonno, che Dio lo aiuti, come sta?
– Grazie, va avanti con le preghiere, meno male che il Signore ci ascolta sempre.
– E con quel povero ragazzo, Gancio, che è successo?
Kostic alludeva a una faccenda capitata qualche settimana prima: uno dei nostri, appena maggiorenne, si era scontrato in una rissa con tre georgiani e con il coltello ne aveva ferito gravemente uno. C’erano da sempre un po’ di grane con Caucaso, non era una vera guerra tra quartieri, ce l’avevamo solamente con un gruppo di reazionari georgiani. Gancio non aveva torto nel casino della rissa, però aveva commesso un errore dopo: non aveva voluto presentarsi a una specie di processo che era stato organizzato dalle autorità criminali della città su iniziativa di un famigliare del georgiano ferito. Gancio era arrabbiato e fuori di sé, e cosi, con assoluta leggerezza, aveva offeso il sistema di giustizia criminale. Se fosse andato davanti alle autorità e avesse detto la sua, sicuramente tutto sarebbe finito a suo favore, invece il famigliare del georgiano ferito aveva fatto credere che il suo parente era stato aggredito senza ragioni da un siberiano crudele e spietato.
Kostic era una delle autorità coinvolte nel processo, e stava cercando di ricostruire il motivo per cui Gancio si era comportato cosi.
– Com’è ’sto ragazzo, tu lo conosci bene, no?
– Si, zio, è un mio caro amico, abbiamo combinato parecchi guai insieme. Con me e con gli altri si è sempre comportato bene, da fratello —. Cercavo di salvargli la faccia almeno davanti a una delle autorità, sperando che poi zio Kostic avrebbe influenzato gli altri. Però non potevo neanche esagerare e dare la mia parola, del resto la mia parola di minorenne non contava granché.
– Sai perché si è comportato in maniera disonesta con della buona gente?
Kostic mi aveva fatto una domanda che dalle mie parti si chiama «quella che fa solletico», cioè una domanda abbastanza diretta a cui non puoi non rispondere, anche se non c’entri niente. A quel punto ho deciso di dire la mia, indipendentemente da quello che era successo:
– Gancio è una persona onesta, tre anni fa si è beccato sei coltellate nella rissa contro la gente di Parkan perché ha coperto con il suo corpo Mel e Gagarin. Mei era ancora un bambino, poteva rimanerci secco. A volte è difficile parlare con lui perché è un po’ solitario, ma ha un cuore grande e non ha mai mancato di rispetto a nessuno. Non so com’è andata con i georgiani: Gancio era da solo, non c’era nessuno con lui. Forse anche per questo si è sentito tradito: tre tipi estranei, anzi gente di Caucaso, ti beccano quasi sotto casa tua, nel cuore del tuo quartiere… e nessuno dei tuoi amici è li per darti una mano ad affrontarli.
L’avevo raccontato apposta, il sacrificio di Gancio in difesa di Mei, perché sapevo che queste cose contano più di tante altre. Speravo che anche Kostic la pensasse cosi, in fondo era rimasto un uomo semplice e un piantagrane unico.
– Secondo te si è comportato nel modo giusto? Non era meglio risolvere tutto a parole?
Quella domanda era una trappola tutta per me.
– Secondo me è andata com’è andata. Lo sai meglio di me, zio, che ogni volta è diverso. Prima che ti capiti non puoi sapere come reagirai.
– Se aveva ragione perché non ha voluto presentarsi davanti agli altri, per raccontare la sua versione? Allora crede di aver torto, non è sicuro di essersi comportato onestamente…
– Secondo me ha temuto di essere attaccato per la seconda volta, tutto qui. La prima sotto casa sua, con i coltelli, la seconda attraverso la giustizia della gente autorevole. Ha perso fiducia nelle autorità, si è sentito tradito: hanno accolto la richiesta dei georgiani pur sapendo che lui era stato accoltellato in quel modo, tre contro uno, e nel suo quartiere.
Finalmente ero riuscito a dire quello che pensavo.
Kostic per un momento mi ha guardato senza nessuna espressione, poi mi ha sorriso:
– Meno male che nella nostra vecchia città ci sono ancora dei giovani delinquenti… Ricordatelo sempre, Kolima, è sbagliato voler diventare un’autorità, lo diventerai se lo meriti, se sei nato per quello.
La questione di Gancio è stata risolta tre giorni dopo. Le autorità criminali hanno deciso che i georgiani avevano of-feso con la loro richiesta l’onore della giustizia, e li hanno proclamati «caproni puzzolenti», un’espressione di estremo disprezzo nella comunità criminale. Quei tre sono spariti dalla Transnistria, però prima di andarsene hanno lanciato una bomba a mano in casa di Gancio, mentre lui cenava con l’anziana madre. Per fortuna quella bomba veniva da una partita di bombe a mano che servivano per le esercitazioni militari: aveva un anello rosso disegnato con l’inchiostro e non c’era carica esplosiva, in poche parole era pericolosa quanto un mattone. I georgiani non lo sapevano, l’avevano comprata pensando che fosse funzionante.
Anche se non era morto nessuno, la gente del nostro quartiere l’aveva presa come una grave offesa alla comunità. Tanto che una sera nonno Kuzja mi aveva detto:
«Guarda il notiziario, forse vedrai qualcosa d’interessante».
Tra le ultime notizie c’era un servizio da Mosca: sette uomini con precedenti penali di nazionalità georgiana erano stati trovati uccisi nell’abitazione di uno di loro, brutalmente fucilati mentre cenavano. Le immagini mostravano una tavola capovolta, mobili pieni di buchi, corpi squarciati dalle ferite. Sul lampadario, una cintura da caccia siberiana tutta istoriata a mano, e appesa a quella cintura la finta bomba a mano. Il giornalista commentava:
«… una brutale strage, senza dubbio una resa di conti eseguita da criminali siberiani».
Ricordo che quella sera, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dall’armadio la mia cintura da caccia, l’ho guardata a lungo e ho pensato: «Com’è bello essere siberiani».
Dopo la conversazione con zio Kostic ho svegliato Mei con due buffetti. Abbiamo ringraziato zia Katja e siamo andati per la nostra strada. Lei come sempre è uscita sulle scale del locale e ci ha salutato finché non siamo spariti dietro l’angolo.
Mei si è messo a rompermi i coglioni, voleva sapere a tutti i costi di che cosa avevo parlato con zio Kostic. L’idea di dovergli riassumere tutto il contenuto del discorso mi raggelava, ma la sua faccia pura ha sciolto il mio ghiaccio.
Così ho cominciato a raccontargli tutto, e quando sono arrivato a dire che zio Kostic mi aveva chiesto di Gancio, lui si è fermato sul posto come un lampione:
– E tu non gli hai detto niente, no?
Era arrabbiato ed era un brutto segno, perché quando Mei si arrabbiava finiva che ci picchiavamo, e siccome era quattro volte pili grosso di me io le prendevo sempre. L’ho steso una sola volta in vita mia, ma avevamo poco più di sei anni: l’ho picchiato con un bastone aprendogli una ferita in testa, approfittando del fatto che era rimasto intrappolato con le braccia e le gambe in una rete da pesca.