Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
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Криминальные детективы
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Tomba è stato arrestato a Mosca nel corso di una rapina a un furgone blindato, e condannato a sedici anni di prigione. In galera ha ucciso due persone, così gli hanno dato l’ergasto lo e l’hanno trasferito nel carcere speciale di Ust'-llimsk, dove si trova tutt’ora. Impossibile contattarlo, per via del severo regolamento.
Gigit e Besa hanno rapinato insieme una serie di banche, dopo di che la squadra antirapina è riuscita a rintracciarli e li ha tenuti sott’occhio per un po’. A quel punto sono caduti in una trappola complicata. Su indicazione di un informatore manipolato dai poliziotti, Gigit e Besa hanno rapinato una certa banca: quella sera stessa però sono stati uccisi nella camera dell’albergo Inturist della città di Tver' dai poliziotti, che hanno portato via i soldi della rapina. Mei è partito da solo per riportare i loro corpi a casa, li ha seppelliti nel cimitero vecchio di Bender: al loro funerale non c’era quasi nessuno di noi amici, solo Mei e qualche parente.
Mei continua a vivere in Transnistria a casa dei suoi genitori, ogni tanto ci sentiamo al telefono. Non svolge più nessuna attività criminale, perché non è capace di cavarsela da solo e non ha nessuno a cui affiancarsi. Per un po’ ha fatto la guardia del corpo di un criminale autorevole di ultima generazione, ma poi si è stancato. Dopo aver frequentato un corso ha provato a insegnare aikido a un gruppo di bambini, ma non ce l’ha fatta, perché si presentava alle lezioni sempre ubriaco. Adesso non fa niente, gioca tutto il tempo alla PlayStation, esce con qualche ragazza, ogni tanto aiuta qualcuno a recuperare i suoi crediti.
Ksjusa non si è mai più ripresa. Dal giorno dello stupro non ha più comunicato con nessuno: se ne stava sempre zitta, con gli occhi bassi, e non usciva quasi mai di casa. Ogni tanto riuscivo a convincerla e la portavo a fare un giro in barca sul fiume, ma era come portarsi dietro un sacco. Prima le piaceva moltissimo andare in barca: si muoveva in continuazione, cambiava posto, si sdraiava a prua e metteva le mani in acqua, faceva un sacco di casino, s’intrappolava nelle reti da pesca, giocava con i pesci che avevamo appena pescato, parlava con loro, gli dava dei nomi. Dopo la violenza era immobile, spenta: al massimo allungava un dito per toccare l’acqua. Poi lo lasciava И e stava tutto il tempo a fissare la sua mano affondata nell’acqua, finché io non la prendevo in braccio per riportarla a riva.
Per un po’ ho creduto che piano piano si sarebbe ripresa, invece è peggiorata sempre di più, fino a smettere di mangiare. Zia Anfisa piangeva in continuazione, ha provato a portarla in diversi ospedali, da vari specialisti, ma tutti dicevano la stessa cosa: quel comportamento era da attribuire al suo vecchio disturbo mentale, non c’era niente da fare. Nei momenti peggiori, per tenerla in vita zia Anfisa le faceva iniezioni di vitamine e la alimentava attraverso la flebo.
Il giorno in cui me sono andato via dal Paese, Ksjusa era seduta sulla panchina davanti al portone di casa sua. Teneva tra le mani il suo gioco, il fiore di lana, che in Siberia viene usato come elemento decorativo per i maglioni.
Sei anni dopo questa triste storia, una notte ho ricevuto una chiamata da Mei: Ksjusa era morta. «Non si muoveva più da tanto tempo, – mi ha detto, – si è lasciata morire a poco a poco». Dopo la sua morte, zia Anfisa era andata a vivere a casa di un vicino, che aveva bisogno di qualcuno che aiutasse sua moglie con i bambini.
Io ho lasciato il mio Paese, sono passato attraverso tante esperienze e storie diverse, ho cercato di fare della mia vita quello che credevo giusto, ma sono ancora tanto incerto su molte cose che fanno girare questo mondo. Soprattutto, più vado avanti più mi convinco che la giustizia è sbagliata come concetto, almeno quella umana.
Due settimane dopo aver fatto giustizia a modo nostro, si è presentato a casa mia uno sconosciuto che ha detto di essere un amico di Pancia. Mi ha spiegato che Pancia era partito per non so dove e che non sarebbe più tornato dalle nostre parti, ma che prima di partire gli aveva chiesto di farmi avere una cosa. Mi ha dato un pacchetto, io l’ho preso senza aprirlo, e per essere educato con lui l’ho invitato a entrare e gli ho presentato mio nonno.
Quell’uomo è rimasto a casa nostra fino al giorno dopo, ha bevuto e mangiato con mio nonno discutendo di varie questioni criminali: di etica, assenza di educazione tra i giovani, di com’erano cambiate le comunità criminali nel tempo, e soprattutto dell’influenza dei Paesi europei e americani, che stava distruggendo la giovane generazione di criminali russi.
Io ero sempre vicino a loro due, e quando svuotavano la bottiglia correvo in cantina a riempirla dalla botte.
Dopo che l’ospite se n’è andato ho aperto il pacchetto di Pancia. Ci ho trovato dentro un coltello chiamato finka, che significa finlandese, la tipica arma dei criminali di San Pietroburgo e del nord ovest della Russia. Era un’arma usata, come dicono da noi e anche da voi era «vissuta», con un bel manico in osso bianco. C’era anche un foglio di carta, dove Pancia aveva scritto a matita:
«La giustizia umana è orribile e sbagliata, per questo motivo solamente Dio può giudicare. Peccato che in alcuni casi noi siamo obbligati a superare le sue decisioni».
Caduta libera
Quando ho compiuto diciotto anni, ero fuori dal mio Paese. Studiavo educazione fisica in una scuola sportiva, stavo cercando di crearmi un futuro diverso, fuori dalla comunità criminale.
Era un periodo molto strano per me, leggevo tanto, conoscevo persone sempre nuove e cominciavo a capire che la via del crimine, che prima definivo buona e onesta, era una via estrema, che la società definiva «fuori dal comune». Ma anche la società non mi faceva una gran bella impressione, la gente mi sembrava cieca e sorda ai problemi degli altri e persino ai suoi stessi problemi. Non riuscivo a capire i meccanismi che mandavano avanti il mondo «normale», dove le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune, senza provare il piacere di condividere le cose. La tipica morale russa mi faceva arrabbiare, tutti erano pronti a giudicarti, a criticare la tua vita, ma poi loro stessi non andavano oltre le serate davanti alla televisione, la voglia di riempire il frigo con cibo buono e a poco costo, di ubriacarsi tutti insieme alle feste di famiglia, invidiare i vicini e cercare di essere a loro volta invidiati. Macchine belle, preferibilmente straniere, vestiti uguali per essere come tutti gli altri, sabato sera al bar del paese per farsi belli, bere una birra in lattina prodotta in Turchia, raccontare agli altri che tutto è a posto, che «gli affari» vanno bene, anche se sei solo un umile lavoratore sfruttato e non sei capace di vedere la vera realtà della tua vita.
Il consumismo russo post-sovietico era una cosa impressionante, per uno come me. La gente si lasciava affogare nei detersivi di marca e nei dentifrici, tutti bevevano per forza solo bevande provenienti dall’estero e le donne si spalmavano addosso una quantità industriale di creme francesi, pubblicizzate ogni giorno in televisione, credendo che le avrebbero fatte diventare come le modelle degli spot.
Ero stanco, disorientato, non credevo che in questa vita sarei riuscito a realizzarmi in qualche modo onesto e utile.
Però non avevo mai smesso di frequentare la sezione sportiva della mia città. Facevo yoga, ero magro e flessibile, gli esercizi mi riuscivano bene e tutti erano contenti di me. Un mio maestro di lotta mi aveva consigliato di provare a seguire le lezioni di yoga che teneva un insegnante in Ucraina, uno che aveva studiato molti anni in India. E cosi andavo spesso in Ucraina per dei corsi di perfezionamento, e ogni anno d’estate insieme a un gruppo della mia sezione sportiva andavo per un mese e mezzo in India.
A diciotto anni stavo per ottenere il diploma da istruttore di yoga, ma non mi piaceva come erano gestite le cose nella mia scuola, spesso litigavo con l’insegnante, che mi diceva che ero un ribelle e non mi buttava fuori solo perché tanti ragazzi erano dalla mia parte.
Quell’insegnante sfruttava molti allievi, ad esempio gli faceva tenere la contabilità pagandoli due soldi, e poi giustificava tutto con strani discorsi legati alla filosofia yoga, ma secondo me opportunistici. Io sopportavo tutto questo solo perché avevo bisogno di prendere quel diploma che mi avrebbe dato la possibilità di continuare gli studi in qualsiasi università governativa, e in questo modo evitare il servizio militare obbligatorio. Sognavo di aprire una mia scuola sportiva e di insegnare yoga alla gente della mia città.
Sognavo, appunto. Perché poco prima della fine degli studi è successo un fatto molto brutto: un ragazzo che faceva yoga con noi è morto d’infarto.
Molte persone che fanno yoga credono in cose lontane dalla realtà. L’insegnante raccontava sempre di gente che dopo anni di esercizi si metteva a volare, si trasformava in varie forme vitali, e diceva un mucchio di altre sciocchezze che io non ascoltavo mai, lasciando il posto agli altri del mio gruppo più interessati a quegli argomenti. Tra questi c’era anche Sergeij.
Aveva problemi di cuore fin dalla nascita, doveva ricevere cure mediche, essere seguito dai dottori, ma il nostro insegnante gli aveva fatto credere che il suo problema cardiaco poteva essere risolto con l’aiuto degli esercizi. Sergeij credeva davvero che la sua grave cardiopatia poteva essere curata cosi. Tante volte ho cercato di spiegargli che lo yoga non era affatto in grado di guarire nessuna malattia seria, ma lui non mi voleva ascoltare, diceva sempre che era solo questione d’esercizio.
Un giorno Sergeij è andato a un grande raduno delle scuole di yoga in Ungheria, e al ritorno, sul treno, ha avuto un infarto ed è morto. Ci sono stato male, niente di pili, non ero molto legato a lui e non eravamo grandi amici, però secondo il mio modo di vedere la sua morte era completamente sulla coscienza del nostro insegnante.
E finita che io ho detto all’insegnante tutto quello che pensavo, e abbiamo litigato. Lui mi ha espulso dalla scuola, così il diploma non l’ho avuto: al posto del diploma d’istruttore mi hanno dato una specie di attestato di partecipazione che mi permetteva di esercitare alcune discipline in pubblico. Insomma, una presa in giro.
Tutto questo è successo in primavera, quando la Transnistria fioriva e sembrava una sposa vestita di bianco, tutta piena di sapori e freschezze.
Sono stato fermo un periodo a riflettere su quello che era successo, poi sono andato a trovare mio nonno Nikolaj nella Taiga. Andavamo insieme a caccia, costruivamo le reti e i labirinti per catturare i pesci di fiume, facevamo la sauna e parlavamo tanto della vita.
Nonno Nikolaj viveva da solo nel bosco da quando aveva ventiquattro anni, e aveva una saggezza tutta sua. Mi faceva bene stare con lui in quel periodo.
Quando sono tornato in Transnistria ho organizzato una grande festa sul fiume, con gli amici, per festeggiare il mio compleanno ormai passato da qualche mese. Abbiamo preso dieci barche, le abbiamo riempite di bottiglie di vino, del pane che faceva la nonna di Mei e di attrezzi per la pesca, poi siamo partiti controcorrente, per raggiungere un posto che si chiamava «Grande Goccia».
Quel posto era famoso per la sua bellezza e la sua tranquillità, e si trovava a una cinquantina di chilometri da noi. Li il fiume si allargava e a tratti formava tanti piccoli laghetti attaccati l’uno all’altro, dove l’acqua era calda e ferma. La corrente non arrivava quasi, raggiungeva quella zona solo quando il fiume era in piena, a marzo e fino a metà aprile, nel periodo delle alluvioni. Tanti pesci, soprattutto i siluri, si fermavano lì, e noi andavamo a prenderli. Uscivamo di notte con le barche e accendevamo la pila grande, appoggiandola all’acqua: attirati dalla luce i siluri venivano in superficie, e allora li ammazzavamo con una specie di martello di legno dal manico lungo, fatto apposta per quel tipo di pesca. Uno teneva la pila mentre un altro era pronto a colpire con il martello, l’importante era fare tutto in silenzio, perché il minimo rumore о movimento spaventava i siluri e poi per farli tornare di nuovo a galla ci volevano come minimo un paio d’ore. Io pescavo con Mei, perché nessun altro voleva pescare con lui, dato che non riusciva mai a stare zitto nei momenti decisivi.
La cosa fondamentale era non permettergli di dare le martellate ai siluri: Mei era molto forte ma poco preciso, e una volta era successo che aveva mancato il siluro, colpendo però il suo compagno di pesca, il nostro amico Besa. Gli aveva spaccato il braccio, e da quel giorno nessuno voleva più Mei come compagno. Tutti lo evitavano, trovavano delle scuse, gli dicevano:
«Non ti offendere, ma io e lui avevamo già stabilito prima di stare insieme, quindi trovati un altro compagno…»
Visto che nessuno lo voleva, di solito lo prendevo io con me, a mio rischio. Del resto ero l’unico che poteva al momento giusto metterlo in riga.
Abbiamo fatto un bel viaggio sul fiume fino alla Grande Goccia, il tempo era splendido, l’acqua sembrava benedetta dal Signore, non faceva nessuna resistenza, anche se andavamo controcorrente. Il motore della mia barca quel giorno funzionava benissimo e non si è fermato neanche una volta: insomma, tutto era perfetto, come su una cartolina.
Appena arrivati abbiamo fatto pranzo, io ho esagerato un po’ con il vino, e quindi sono diventato troppo buono, più del solito, cosi per l’ennesima volta ho accettato di fare coppia con Mei, che era felice non lo lasciassimo sulla riva da so lo come spesso succedeva.
Ero talmente rilassato che gli ho permesso di tenere il martello. «Permesso» non è la parola giusta, diciamo che lui si è seduto sulla mia barca e senza chiedere niente ha preso in mano il martello, guardandomi come se niente fosse. Io non ho detto niente, gli ho fatto solo vedere il pugno, per fargli capire che se sbagliava rischiava grosso.
Siamo partiti per il nostro laghetto. Ogni barca entrava in un laghetto tutto suo: bisognava essere completamente so li altrimenti, cacciando i siluri nello stesso lago, le altre barche sarebbero rimaste senza preda perché i pesci con il rumore del colpo si sarebbero nascosti sul fondo.
La notte era bella, c’erano tante stelle in cielo e nel mezzo una leggera sfumatura bianca che brillava e ondeggiava, sembrava qualcosa di magico. Lontano si sentiva il rumore del vento che passava sui campi, e ogni tanto il suo fischio lungo e sottile arrivava vicino, come se stesse passando in mezzo a noi. L’odore del fiume si mischiava a quello del bosco e cambiava sempre, sembrava di sentire le foglie di acacia e di tiglio, distinte, e poi quello del muschio in riva al fiume. Le rane cantavano le loro serenate in coro, ogni tanto qualche pesce si alzava in superficie e produceva un bel suono, una specie di spalsh! nell’acqua. A un tratto dal bosco sono usciti tre piccoli cervi reali per abbeverarsi: facevano rumore con la lingua e dopo starnutivano, come fanno i cavalli.
In quell’incanto io ero come sciolto, momenti come quel li per me erano fra i più preziosi nella vita, e se mi avessero chiesto cos’è il paradiso io senza dubbio potevo dire che era un momento simile che dura per sempre.
L’unica cosa che m’impediva di salire con tutti i miei sensi all’irraggiungibile altezza celeste era la presenza di Mei: non appena lo guardavo mi riempivo di nuovo di pesanti sensi di realtà, e capivo che finché quel soggetto – quella specie di condanna che per via del mio destino dovevo sopportare – continuava a starmi accanto, io non potevo liberarmi completamente dalle mie grezze spoglie umane.
– Mei, tieni il becco chiuso, altrimenti ti spacco il martel lo in testa… – ho detto cominciando a remare piano, per non causare tanto rumore.
Mei era tutto concentrato; seduto in mezzo alla barca, teneva il martello con entrambe le mani, come se avesse paura che quello scappava via.
Una volta arrivati a metà del laghetto, ho tirato fuori una vecchia pila subacquea. Ho acceso la luce e piano piano l’ho fatta scivolare giù, sporgendomi dal bordo della barca. La luce sott’acqua faceva un bell’effetto, si spargeva per una decina di metri in profondità, si vedevano tanti piccoli particolari, pesciolini che circondavano la pila facendo una specie di giro d’onore.
Mei stava sopra di me, pronto con il martello. Aspettava il mio segnale.
Di solito l’arrivo del siluro si manifestava con una grande ombra nera che saliva dal fondo e andava verso la luce. Non appena si vedeva l’ombra bisognava muovere immediatamente la pila: farla salire piano, senza far rumore, in modo che il siluro la seguisse ma senza mai raggiungerla. Quando la lampada arrivava in superficie e usciva dall’acqua era il momento culminante: la persona col martello doveva colpire con tutta la sua forza li, dove poco prima c’era la lampada, per centrare in pieno il siluro. Se tardavi un momento, se il siluro riusciva a toccare la lampada, subito ridiscendeva giù, perché i siluri sono molto vigliacchi e hanno paura di qualsiasi contatto con gli oggetti che non conoscono. Quindi, per pescare il siluro con questa tecnica, era importante muoversi in perfetta sintonia.
Guardavo l’acqua con attenzione, e a un certo punto ho visto un’ombra salire dal fondo, così ho cominciato ad alzare la pila, tirando piano la corda. Mei, dietro di me, ha sollevato il martello, pronto a colpire.
Non avevo dubbi: era chiaramente un siluro, veniva su velocissimo. Dovevo solo recuperare la pila in tempo.
Quando ormai l’avevo tirata su quasi tutta, ed era rimasta solo una piccola parte in acqua, Mei ha buttato giù il martello con una violenza tale che ho sentito un fischio nell’aria, come se vicino alle mie orecchie fosse passata una pallottola.
– Cristo! – ho urlato, e ho fatto appena in tempo a spostare le mani dalla pila che il martello di Mei l’ha colpita con una forza brutale. Quella si è spaccata, e la luce si è subito spenta. Nel buio ho sentito un leggero sospiro di Mei:
– Ma cazzo, che pesce stupido, pensavo che saliva più veloce…
Stava ancora sopra di me, con il martello in mano. Io mi sono alzato in piedi, ho preso un remo e senza dire niente gli ho dato una botta sulla schiena.
– Perché? – mi ha chiesto lui impaurito, indietreggiando verso la poppa della barca.
– Ma porca puttana, Mei, sei un imbecille! Che cazzo tiri martellate sulla pila?
Dalla riva ho sentito le voci di Gagarin, Gigit e Besa.
– Che succede? Siete impazziti? – chiedeva Gagarin.
– Che vuoi che succeda, è solo che il pesce è troppo grosso, non riescono a caricarlo in barca, – ha sottolineato con ironia Gigit, che sapeva perfettamente che quel deficiente di Mei doveva aver sputtanato come al solito la pesca.
– Ehi, Kolima! – ha urlato Besa. – Puoi ammazzarlo subito, tanto nessuno di noi ha visto niente, dopo racconteremo che è annegato da solo.
Io ero arrabbiato ma nello stesso momento la situazione mi faceva ridere.
– Accendi ’sto motore, torniamo a riva… – ho detto a Mei con tono cattivo.
– Non vuoi fare un altro giro? – mi ha chiesto con un certo senso di umiliazione nella voce.
L’ho guardato: la sua faccia nel buio sembrava appartenere a un demonio. Gli ho detto sorridendo:
– Ah si, ancora un giro? E con quale pila lo facciamo, ’sto cazzo di giro?
A riva, tutti ridevano.
Quando siamo arrivati, Besa, che scherzava sempre in un modo tutto suo, ha guardato dentro la barca e ha confermato:
– Proprio come pensavo, fratelli! Questi due hanno mangiato tutto il pesce da soli! E per non condividerlo con noi, lo hanno persino mangiato crudo!
E tutti giù a ridere come dei matti. Rideva anche Mei, so lo io ero un po’ triste, perché sentivo che stava per accadere qualcosa di nuovo nella mia vita, avevo addosso una specie di aria di cambiamento.
Abbiamo fatto una bella festa. Gli altri avevano pescato dei siluri grandi, li abbiamo puliti e preparati per cuocerli in terra. Mi sembravano tutti un po’ strani, però, come se fossero consapevoli che stavamo per attraversare un periodo particolare che ci avrebbe cambiati per sempre. Si parlava di cose passate, ognuno raccontava episodi dell’infanzia e gli altri ridevano о stavano in silenzio, rispettando l’atmosfera che si creava dal racconto.
Siamo stati intorno al fuoco tutta la notte, fino all’alba, a guardare come le scintille e i pezzi di cenere diventati polvere si alzavano nell’aria, mischiandosi con le leggere sfumature del mattino che stava portando un altro, nuovo giorno.
Io ridevo e raccontavo anch’io qualche storia, ma ero pieno di un sentimento nuovo, paragonabile a una triste nostalgia. Mi sentivo come se avessi davanti a me un grande vuoto verso il quale dovevo fare il primo passo, e per l’ultima volta potessi guardare indietro, per conservare nella memoria quanto di più bello о più importante stavo per lasciarmi alle spalle.
Dopo aver bevuto il vino e mangiato e parlato fino all’alba, sono andato dormire nel bosco. Ho preso una coperta dalla mia barca, me la sono messa addosso e sono partito verso i cespugli, dove si sentiva una freschezza nell’aria che dava sollievo. I miei amici erano sparsi in giro, qualcuno stava dormendo davanti alle braci quasi spente, Mei era sdraiato in mezzo alla stradina che portava al laghetto dove avevamo lasciato la barca: era un sentiero tutto infangato, ma lui dormiva come morto, abbracciato a un remo. Besa girava con una bottiglia vuota e chiedeva ai ragazzi se qualcuno sapeva dov’erano le scorte. Nessuno gli rispondeva, non perché non sapevano dov’erano, ma semplicemente perché erano tutti in uno stato disastroso.
Mentre camminavo avvolto nella mia coperta, ho provato un senso di disgusto, mi ricordo che anche se ero ubriaco e camminavo storto, pensavo con assoluta lucidità che eravamo un branco di miserabili ubriaconi, capaci solo di piantare grane e rovinarsi.
Appena mi sono sdraiato a terra, mi ha preso il sonno. Mi sono svegliato solo quando ormai era già sera, e cominciava a scendere il buio. I miei amici gridavano il mio nome. Ho aperto gli occhi e sono rimasto lì, senza muovermi; sentivo ancora più forte della notte precedente che stava davvero per capitare qualcosa nella mia vita. Non volevo alzarmi, volevo restare nei cespugli.
Quando siamo tornati a casa, ho fatto la sauna. Ho acceso la stufa e bruciato un po’ di legna, dopo ho preparato i rami secchi di quercia e li ho messi nell’acqua calda per utilizzarli poi nel massaggio. Ho mischiato l’estratto di pino con l’essenza di tiglio e ho messo il tutto vicino alla stufa, per impregnare l’aria che avrei respirato. Mi sono preparato due litri di tisana di rosa canina, tiglio, menta e fiori di ciliegio. Ho passato la giornata a rilassarmi nella sauna, sdraiato nudo sulle panche di legno che mi cuocevano piano. Circondato da quel vapore aromatizzato, ogni tanto bevevo la tisana caldissima a grandi sorsi, senza accorgermi di quanto bruciava.
La notte ho dormito privo di sensi, come se fossi caduto nel vuoto. Il giorno dopo mi sono svegliato e sono uscito di casa, ho aperto la cassetta della posta per vedere se c’era qualcosa e ho trovato un piccolo bigliettino di carta bianca con una riga rossa che lo attraversava da un angolo all’altro. Lì c’era scritto che l’ufficio militare della federazione russa mi chiedeva di presentarmi per accertamenti, munito di documenti personali. Aggiungevano che era la terza e ultima volta che mi mandavano quell’invito, e che se non mi fossi presentato entro tre giorni mi aspettava una condanna penale per, letteralmente, «rifiuto di pagare il debito con la patria sotto forma di servizio militare».
Ho pensato che quella cartaccia era una sciocchezza, una formalità, qualcosa di poco importante. Sono tornato a casa, ho preso i documenti e, senza neanche cambiarmi, sono partito in ciabatte verso il luogo indicato, un posto che si trovava dall’altra parte della città, dove c’era una vecchia base militare russa.
All’ingresso ho mostrato il biglietto alle guardie e loro mi hanno aperto la porta, senza dire niente.
– Dove devo andare? – ho chiesto a uno di loro.
– Vai dritto, tanto fa lo stesso… – mi ha risposto un soldato, senza entusiasmo e con evidente fastidio.
«E un imbecille», ho pensato, e mi sono diretto verso un grande ufficio dove c’era scritto: «Sezione leva e nuovi arrivati».
L’ufficio era buio, non si vedeva quasi niente. In fondo c’era una piccola finestrina nel muro, uno sportello da dove usciva una debole luce, molto gialla e triste. Si sentiva il ticchettio di una macchina da scrivere.
Mi sono avvicinato e ho visto una giovane donna, vestita con l’uniforme militare, che seduta davanti a un tavolino con una mano batteva a macchina e con l’altra teneva stretto un bicchiere di tè. Faceva piccoli sorsi e soffiava spesso dentro il bicchiere per raffreddarlo.
Mi sono appoggiato sul bancone e ho sporto la testa: ho visto che sulle ginocchia, sotto il tavolo, la donna teneva un giornale aperto. C’era un articolo sulle star musicali russe, con la foto di un cantante che aveva in testa una corona decorata con piume di pavone. Mi sono sentito ancora più triste.
– Salve, chiedo perdono, signora, ho ricevuto questo, – ho detto allungando il biglietto.
La donna si è girata verso di me e per un secondo mi ha guardato come se non riuscisse a capire dove si trovava e cosa stava succedendo. Era evidente che avevo interrotto un’onda di pensieri e di sogni personali. Con un movimento veloce ha preso il giornale che teneva sulle gambe e lo ha messo capovolto dietro la macchina da scrivere, in modo che io non potessi vederlo. Poi ha posato il bicchiere di tè, e senza alzarsi né dire qualcosa, con la faccia indifferente ha preso dalle mie mani il foglio bianco con la riga rossa. L’ha guardato un attimo e poi ha chiesto con una voce che mi sembrava appartenere a un fantasma:
– Documenti?
– Quali documenti, i miei? – ho chiesto io goffamente, prendendo dalla tasca dei pantaloni il passaporto e il resto.
Lei mi ha guardato con un po’ di disprezzo, dicendo a denti stretti:
– Beh, certo non i miei.
Ha ritirato i miei documenti e li ha messi in una cassaforte. Poi ha preso da uno scaffale un modulo e ha cominciato a compilarlo. Mi ha chiesto nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza. Poi è passata a informazioni più personali. Dopo aver chiesto le generalità dei miei genitori, mi ha detto:
– Sei mai stato arrestato, hai avuto problemi con la legge?
– Beh, problemi con la legge non li ho mai avuti, è la legge che sembra ogni tanto avercela con me… Sono stato arrestato molte volte, non mi ricordo quante. E ho scontato due condanne in carcere minorile.
Dopo le mie parole lei era cambiata. Ha strappato il foglio che stava compilando e ne ha preso un altro, più grande, con una riga rossa che andava da un angolo all’altro, come quella del biglietto postale.
Siamo ripartiti da capo, di nuovo tutte le informazioni personali, questa volta anche sulle condanne: i numeri degli articoli, le date. Poi la salute: malattie, vaccinazioni, mi ha persino chiesto se consumavo alcol о droghe, se fumavo sigarette. Cosi per un’ora… Io non ricordavo con precisione le date delle condanne, quindi le inventavo sul momento, cercando almeno di azzeccare il periodo, il mese.
Quando abbiamo finito ho cercato di spiegarle che doveva esserci stato uno sbaglio, che io non potevo fare il servizio militare, avevo chiesto e ottenuto un rinvio di sei mesi, promettendo che nel frattempo avrei finito un ciclo di studi e poi sarei andato all’università. Se tutto fosse andato come previsto, ho aggiunto, avrei aperto una scuola di educazione fisica per ragazzi lì a Bender.
Lei mi ascoltava. Senza guardarmi in faccia, il che mi preoccupava. Poi mi ha dato un foglio: c’era scritto che da quel momento io ero proprietà del governo russo e la mia vita era protetta dalla legge.
Non riuscivo a capire cosa significava concretamente tutto questo.
– Significa che se cerchi di scappare, farti del male о sui-ridarti, sarai processato per danni alla proprietà del governo, – mi ha detto lei con tono freddo.
Improvvisamente mi sono sentito intrappolato, tutto intorno a me ha cominciato a sembrarmi molto più pesante e macabro di prima.
– Senti, – sono sbottato, – non me ne frega niente della vostra legge, sono un criminale e basta. Se devo andare in galera ci vado, ma non prenderò mai in mano le armi dal tuo cazzo di governo…
Ero furibondo, e quando ho cominciato a parlare cosi mi sono subito sentito forte, persino più forte di quell’assurda situazione. Ero sicuro, assolutamente sicuro, di riuscire a cambiare il meccanismo che doveva regolare la mia vita.
– Dove cazzo avete qui un generale, о come si chiamano le vostre autorità? Voglio vederne uno, parlare con lui, dato che con te non ci capiamo! – ho alzato la voce, e lei mi ha guardato con la stessa faccia indifferente di prima.
– Se vuoi parlare con il Colonnello, lui c’è, però non credo che risolverai qualcosa… Anzi, cerca di non peggiorare la tua situazione, ti consiglio di stare tranquillo…
Era un buon consiglio, se ci penso adesso. Stava dicendomi una cosa importante, ne sono sicuro, mi stava indicando una via migliore, ma in quel momento ero accecato.
Mi sentivo male. Ma come, mi dicevo, solo stamattina ero libero, avevo i miei piani per la giornata, per il mio futuro, per il resto della vita, e adesso, per colpa di un foglio di carta, stavo perdendo la mia libertà. Volevo urlare e litigare con qualcuno, far sentire quant’ero arrabbiato. Ne avevo bisogno. L’ho interrotta, urlandole in faccia:
– Ma Gesù, Signore Benedetto sulla croce! Se voglio parlare con qualcuno, gli parlo e basta! Dove cazzo si trova quel vostro comandante, generale, che cazzo è?
Lei si è alzata dalla sedia e mi ha chiesto di calmarmi e aspettare una decina di minuti seduto sulla panchina. Ho guardato intorno e non ho visto nessuna panchina. «Porca puttana, dove sono finito, qui sono tutti matti», pensavo aspettando nel buio.
Improvvisamente si è aperta una porta e un militare, un uomo di mezz’età, mi ha chiamato per nome.
– Nicolai, vieni, il Colonnello ti aspetta!