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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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In città facevamo sempre casino, quando andavamo in un altro quartiere spesso finiva in rissa, con sangue per terra, bastonate e coltellate da tutte le parti. Avevamo una fama bestiale, tutti avevano paura di noi e molte volte eravamo aggrediti proprio per via di questa paura, perché si trova sempre qualcuno che vuole andare contro gli istinti naturali, tentare il destino, cercare di vincere la propria paura buttandosi contro il motivo che la provoca.

Non sempre finiva in rissa, certe volte grazie alla diplomazia riuscivamo a convincere qualcuno a cambiare idea, allora tutto si limitava a qualche schiaffo che volava dalle due parti, e a quel punto si cominciava a parlare. Era bello quando finiva cosi. Ma più spesso finiva nel sangue, e in una catena di relazioni rovinate con un intero quartiere, relazioni che dopo la loro morte era molto difficile rianimare.

I nostri vecchi ci avevano insegnato bene.

Come prima cosa, bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici.

Poi bisognava credere in Dio e in Suo Figlio Gesù, e amare e rispettare gli altri modi di credere in Dio diversi dal nostro. Ma la Chiesa e la religione non dovevano mai essere considerate una struttura. Mio nonno diceva che Dio non ha creato i preti, ma solamente uomini liberi, e che comunque esistono anche preti buoni: in quel caso non è peccato andare nei luoghi dove loro svolgono la loro attività, ma è senz’altro peccato pensare che davanti a Dio i preti abbiano più potere di altri uomini.

Infine, non dovevamo fare agli altri quello che non volevamo fosse fatto a noi: ma se un giorno eravamo obbligati a farlo, doveva esserci un buon motivo.

Uno dei vecchi con cui parlavo tanto di queste cose, voglio dire della nostra filosofia di vita e della nostra primitiva ignoranza, diceva che secondo lui il nostro mondo era pieno di persone che seguivano strade sbagliate, e che dopo aver fatto un passo falso si allontanavano sempre più dalla retta via. Lui era dell’idea che in molti casi era inutile cercare di farli ritornare sulla strada giusta, perché erano troppo lontani, e l’unica cosa che rimaneva da fare era sospendere la loro esistenza, «toglierli dalla strada».

– Uno che è ricco e potente, – diceva il vecchio, – camminando sulla sua strada sbagliata rovina tante vite, mette nei guai tante persone che in qualche maniera dipendono da lui. L’unico modo per far tornare tutto al suo posto è ucciderlo, e cosi distruggere il potere che ha costruito sul denaro.

Io ribattevo:

– E se anche l’omicidio di questa persona fosse un passo falso? Non sarebbe meglio evitare di avere contatti con lui e basta?

Il vecchio mi guardava stupito, e rispondeva con tale convinzione che mi girava la testa:

– Ragazzo, chi ti credi di essere, Gesù Cristo? Soltanto Lui può fare miracoli, noi dobbiamo solo servire Nostro Signore… E quale servizio migliore di togliere dalla faccia del mondo i figli di Satana?

Era troppo buono, quel vecchio.

Insomma, per via dei nostri vecchi eravamo sicuri di essere nel giusto. «Piangano quelli che ci vogliono male, – pensavamo, – perché Dio è con noi»: avevamo mille modi tutti particolari per giustificare le nostre violenze e i nostri comportamenti.

Il giorno del mio tredicesimo compleanno, però, mi è successa una cosa che mi ha fatto venire qualche dubbio.

Tutto è cominciato cosi: la mattina di quel freddo e gelido giorno di febbraio, il mio amico Mei si è presentato a casa mia chiedendomi di accompagnarlo dall’altra parte della città, nel quartiere Ferrovia, dove per ordine del Guardiano della nostra zona doveva portare un messaggio a un criminale.

Il Guardiano gli aveva detto che poteva farsi accompagnare da una sola persona, non di più, perché portare messaggi in gruppo è maleducato, è considerata un’esibizione di violenza, quasi una minaccia. E Mei purtroppo aveva scelto me.

Io non avevo nessuna voglia di trascinarmi fin là nel freddo, tanto più il giorno del mio compleanno: avevo già fissato l’appuntamento per quella sera con tutto il branco per fare una festa a casa di mio zio, che era vuota perché lui era in galera. Mi aveva lasciato casa sua e io potevo farci tutto il casino che volevo: bastava tenerla pulita, dare da mangiare ai suoi gatti e bagnargli i fiori.

Quella mattina volevo occuparmi dei preparativi per la festa, e quando Mei mi ha chiesto di accompagnarlo mi sono sentito proprio giù di morale. Ma non potevo rifiutare, sapevo che era troppo stordito e che da solo avrebbe combinato qualche guaio. Cosi mi sono vestito, abbiamo fatto colazione insieme e siamo partiti per il quartiere Ferrovia. C’era troppa neve, non si poteva usare la bicicletta, cosi siamo andati a piedi. Il pullman io e i miei amici non lo prendevamo mai perché ci toccava aspettarlo troppo, si faceva più in fretta a piedi. Camminando di solito si parlava di tante cose, di quello che succedeva nel quartiere о in città. Ma con Mei era molto difficile parlare, perché Madre Natura lo aveva reso incapace di creare frasi comprensibili. Diceva cose che io non ho il coraggio di tradurre dal russo all’italiano perché non saprei come seguire il filo, anzi l’assenza di filo, del discorso.

Le nostre conversazioni avevano una forma di dialogo che era tenuto su esclusivamente da me, con corti inserimenti suoi tipo «Da», «А-ha», «M-m-m» e altre unità minime di suono che lui riusciva a emettere senza nessuna fatica.

Ogni tanto Mei si fermava improvvisamente, si bloccava, e la sua faccia diventava una specie di maschera di cera tutta colata da una parte: significava che non aveva capito di cosa stavo parlando. Allora dovevo fermarmi immediatamente anch’io e partire con le spiegazioni: solo allora Mei tornava ad avere la sua faccia di sempre e riprendeva a muoversi, a camminare.

Non che la sua faccia di sempre fosse un granché: era attraversata da una cicatrice ancora fresca e al posto dell’occhio sinistro aveva un buco. A conciarlo cosi era stato un incidente: aveva fatto tutto da solo, maneggiando in modo maldestro la carica di un proiettile antiaereo che gli era esploso a pochi centimetri dal viso. Il calvario dei microinterventi chirurgici per ricostruirgli il volto non era ancora terminato, e Mei all’epoca girava ancora con quell’orrendo, enorme buco nero al posto dell’occhio mancante. L’occhio finto, di vetro, l’avrebbe messo solo tre anni più tardi.

Mei era così in tutto, non aveva un collegamento tra il corpo e la mente, quando pensava doveva stare fermo, altrimenti non riusciva ad arrivare a una conclusione decente, e se stava facendo un qualsiasi movimento non era in grado di pensare. Per questo io, un po’ per scherzo un po’ sul serio, lo chiamavo «asino»: un gesto molto cattivo e indegno da parte mia, lo riconosco, ma se mi permettevo un simile comportamento era solo perché mi toccava sopportarlo dalla mattina alla sera, e spiegargli tutto come a un bambino. Lui non si offendeva, ma diventava serio di colpo, come se stesse pensando al misterioso motivo per cui gli davo del somaro. Una volta mi ha scioccato, quando dal niente, in una situazione che non c’entrava nulla con il fatto che di solito lo chiamavo «asino», improvvisamente mi ha detto:

«Ho capito perché mi chiami cosi! Perché secondo te ho le orecchie troppo lunghe!»

A quel punto si è incazzato e si è messo a difendere le dimensioni delle sue orecchie.

10 non ho risposto niente, mi sono limitato a guardarlo.

Era irrecuperabile, e aggravava la situazione fumando e bevendo come un vecchio alcolizzato.

Insomma, io e Mei quella mattina di febbraio camminavamo per le strade coperte di neve. Quando c’è poca umidità la neve è molto secca e fa un rumore ridicolo, quando ci cammini sopra è come se stessi camminando sui cracker.

11 mattino era pieno di sole e il cielo vuoto prometteva una giornata buona, ma tirava un vento leggero e costante che avrebbe potuto ribaltare le previsioni.

Abbiamo deciso di attraversare il quartiere Centro e di fermarci a mangiare un boccone in un posticino – una via di mezzo tra un bar e un ristorante – gestito da zia Katja, la mamma di un nostro buon amico che era morto l’estate prima, annegato nel fiume.

Andavamo spesso a trovarla, e per non farla sentire sola le raccontavamo come stavano le cose nella nostra vita. Lei ci voleva bene, anche perché il giorno in cui suo figlio è annegato eravamo insieme e quella storia, anche se era segnata da un enorme dolore, ci aveva uniti tutti quanti.

Il corpo di Vitalic (cosf si chiamava il nostro amico) non era stato trovato subito. Le ricerche erano state difficili perché due giorni prima, cento chilometri più su, era crollata una grossa diga.

Questa è un’altra storia, ma è una storia che va raccontata.

Era estate, e faceva molto caldo. La diga ha ceduto di notte, e io mi ricordo che mi sono svegliato perché ho sentito un rumore spaventoso, come di una tempesta in arrivo.

Siamo usciti dalle case e abbiamo capito che il rumore veniva dal fiume. Siamo andati a vedere e abbiamo trovato un disastro: gigantesche ondate d’acqua bianca, come di schiuma, arrivavano sempre più forti, sbattevano contro la riva e si portavano via barche e battelli.

Qualcuno aveva con sé una pila e con quella illuminava il fiume, c’erano tanti oggetti nell’acqua che giravano come dentro a una grande lavatrice: mucche, barche, tronchi d’albero, botti di ferro, stracci e pezzi di stoffa che sembravano lenzuola. Qua e là, in quel disastro d’acqua, spuntavano dei mobili. Si sentivano delle urla.

Il nostro quartiere per fortuna si trovava sulla riva alta, e l’onda di piena non ci era arrivata addosso in maniera devastante: era tutto allagato anche da noi, le case e le cantine erano piene d’acqua, ma senza grossi danni.

Il giorno dopo il fiume era sporchissimo, e noi abbiamo deciso di prenderci l’impegno di pulirlo, di togliere quello che riuscivamo usando le nostre forze. Avevamo a disposizione alcune barche a motore risparmiate dall’ondata, perché quando la diga aveva ceduto si trovavano a riva.

Anche le mie barche si erano salvate. Ne avevo due, una grossa e pesante, che usavo per trasportare grandi carichi (passavamo tutta l’estate a devastare i giardini di mele e i magazzini alimentari in territorio moldavo…), e un’altra piccola e stretta, che usavo per andare a pesca di notte. Era veloce e maneggevole, con quella barca «guidavo la rete», cioè mi spostavo in continuazione controcorrente, cercando di chiudere con la rete da pesca la parte centrale del fiume, dove passava la maggior parte del pesce.

La barca più piccola si era salvata perché si trovava a casa mia, dovevo farci dei lavoretti. L’altra invece perché era in un rimessaggio a riva: da un pezzo avevo chiesto al custode di riverniciarmela con una lacca speciale. Si chiamava Ignat, il custode, era un uomo buono e povero. Doveva verniciarmela da un mese, quella barca, ma non trovava mai il tempo: doveva sempre fare qualcosa di più urgente о ubriacarsi fino a perdere i sensi.

In tutto avevamo otto barche e ci siamo divisi in quattro squadre, due barche per squadra, quattro ragazzi per barca.

Il lavoro era organizzato in modo da tenere il fiume sempre «chiuso» da due barche, che pescavano l’immondizia: una squadra, armata di lunghi bastoni con grandi ganci di ferro sulla punta, recuperava rami e tronchi, corpi di animali e vari oggetti di grandi dimensioni. Il tutto veniva legato allo scafo con le corde, e quando non c’era più spazio per altri relitti l’equipaggio tornava verso riva, dov’era atteso da altri ragazzi che entravano in acqua e scaricavano tutto quanto. Sulla riva, già dal mattino presto avevano cominciato a bruciare tanta legna, facendo un enorme falò. Così buttavamo i relitti sulle braci: dopo mezz’ora anche i tronchi più fradici si seccavano e, bagnati con un po’ di benzina, finalmente prendevano fuoco.

Verso mezzogiorno il fuoco era diventato enorme, non ti potevi più avvicinare senza morire di caldo. Faticando in tanti e con grande difficoltà abbiamo buttato tra le fiamme il corpo di una mucca, oltre a varie carcasse di pecore, cani, galline, oche.

Poi, verso le quattro di pomeriggio, abbiamo ripescato il primo corpo umano.

Era un uomo di mezza età, vestito, con la testa spaccata. Cadendo in acqua travolto dall’onda doveva aver sbattuto contro qualcosa di duro, una pietra о un tronco.

Un’altra squadra invece era armata di retini, e pescava dal fiume i piccoli oggetti che galleggiavano in superficie: barattoli di conserve, bottiglioni, frutta e verdura fresca di vario tipo, mele con pesche, angurie con patate, e poi giocattoli di bambini, palette e secchielli di plastica, fotografie, tanta carta, giornali e documenti, tutto in un’enorme ratatouille.

E poi c’erano tante, tantissime bottiglie di acqua con sciroppo, minerale e naturale, perché qualche chilometro più su c’era la fabbrica dell’acqua sciroppata con i macchinari per l’imbottigliamento e i depositi. L’onda era passata anche da li, spazzando via tutto il contenuto del magazzino.

Abbiamo deciso di recuperarle tutte quante, quelle bottiglie, di metterle da parte e di distribuirle poi tra tutti quelli che avevano partecipato alla pulizia del fiume. Ma già nella prima ora di lavoro ne avevamo ripescate talmente tante che non sapevamo più dove metterle. Allora due nostri amici le hanno portate via dalla riva con grandi carriole, per liberare il posto per le altre, e le hanno lasciate nei cortili della gente che abitava lì vicino. Hanno riempito di bottiglie tutta la prima via del quartiere, circa cinquanta case, e quando ripassavano di li con le carriole piene, la gente gridava:

«No, qui non ci sta più niente, ragazzi, andate nella prossima casa!»

Il fiume dalla nostra parte è molto stretto e profondo, e dunque molto pericoloso. A causa della forte corrente si formano parecchi mulinelli, che possono raggiungere grandi dimensioni, anche più di tre metri di diametro.

Quando l’onda era passata da noi, la maggior parte della sporcizia che aveva portato con sé era rimasta sui bordi del fiume, radunata in grandi mucchi che galleggiavano in acqua, in attesa che li prendessimo. Abbiamo lavorato tutto il giorno senza fermarci un attimo e abbiamo smesso solo a sera, quando per via del buio non si vedeva più niente.

Avevamo incasinato per bene la riva, quasi non si poteva più passare: dove mettevi il piede, trovavi qualcosa.

Ci siamo fermati a dormire davanti al fuoco.

Prima di dormire abbiamo mangiato, qualcuno si era portato qualcosa da casa, da bere ne avevamo in abbondanza: credo di aver bevuto più acqua con lo sciroppo quella sera che in tutta la mia vita.

Alla fine eravamo tutti a terra, illuminati dal fuoco. Facevamo gare di rutti, vista tutta quell’acqua gasata che ci eravamo scolati.

A una decina di metri da noi c’era il cadavere dell’uomo che avevamo ripescato nel pomeriggio. Gli abbiamo messo tra le mani una croce e una candela, per non farlo arrabbiare. Qualcuno gli ha anche portato un bicchiere d’acqua minerale e un pezzo di pane, seguendo la tradizione siberiana di offrire sempre qualcosa ai morti.

Abbiamo deciso che il giorno dopo era meglio chiedere aiuto alla gente degli altri quartieri, dato che il fiume era ancora pieno di roba e anche di altri cadaveri. Con il caldo i corpi sarebbero andati in putrefazione, e a quel punto ci sarebbe toccato lavorare in un inferno. Credevamo che con l’aiuto di altri ragazzi saremmo riusciti a ripulire il fiume in fretta.

Il giorno dopo, verso le dieci, sono arrivati i rinforzi. Molti ragazzi del Centro, qualcuno di Caucaso e di Ferrovia: erano venuti tutti per aiutarci, e noi eravamo contenti.

Perché non rischiassero di cadere in acqua (tanti di loro non sapevano nuotare, non erano cresciuti sul fiume come noi), li abbiamo fatti lavorare a riva. Portavano via la roba con le carriole о nei sacchi.

Molte bottiglie d’acqua gasata le abbiamo vendute alla gente che veniva in macchina a caricarsele, per poi rivenderle nei negozi. Gli facevamo un prezzo basso, basandoci non sulla quantità di bottiglie che gli davamo, ma sui giri che quel li riuscivano a fare con la macchina: un giro cinquanta rubli, e caricate quanto potete. Se erano veloci guadagnavano il triplo. Era un affare per tutti, noi sgomberavamo in fretta la riva ricavandoci pure qualche soldo, loro prendevano a quasi niente merce che poi rivendevano.

A lavorare con noi c’era anche Vitalic.

Anche se era del Centro, eravamo molto amici con lui. Veniva spesso a fare il bagno con noi nel fiume, era un ottimo nuotatore. Faceva gare di canottaggio, aveva un fisico allenato e una buona resistenza, quando nuotavamo insieme non si stancava mai, poteva andare controcorrente per ore.

Visto che era cosi in gamba, lo abbiamo messo a dirigere la squadra dei ragazzi che slegavano gli oggetti dalia barca vicino a riva. Bisognava saper nuotare bene, perché la barca non poteva avvicinarsi a riva pili di tanto. Una volta sganciato, l’oggetto veniva portato a riva da cinque о sei nuotatori; era un’operazione difficile perché sott’acqua non si vedeva niente, era tutto sporco di terra e foglie e altra merda, e insomma non si capiva neanche com’era fatto quello che si stava trasportando. Un ragazzo si era ferito il giorno prima, mentre trasportava un tronco gli si era conficcato nel polpaccio un ramo, aveva perso tanto sangue in acqua, e prima ancora di realizzare cosa gli era successo era svenuto. Per fortuna gli altri se n’erano accorti subito e lo avevano portato a riva immediatamente e tutto era finito bene.

A mezzogiorno sono arrivati alcuni parenti delle persone che erano scomparse nel fiume. Hanno fatto un giro intorno al corpo dell’annegato, finché una donna non l’ha riconosciuto:

«E mio marito», ha detto.

Era accompagnata dal fratello di lui e da altri due uomini, amici di famiglia. C’era anche una bambina di dieci anni, una ragazzina molto piccola, con i capelli e gli occhi neri che hanno tante moldave.

La donna ha cominciato a piangere, urlando e buttandosi sul corpo del morto. Lo abbracciava, lo baciava. Anche la sua bambina ha cominciato a piangere, ma piano, come se si vergognasse di noi.

Alla fine i moldavi si sono presentati e hanno anche detto il nome del morto, che ora non ricordo più.

Il fratello dell’annegato ha cercato di tranquillizzare la donna, l’ha portata in macchina, ma lei continuava a piangere e a urlare anche da li.

I tre uomini hanno caricato il corpo sul sedile posteriore della loro macchina. Hanno ringraziato e ci hanno offerto dei soldi, ma noi li abbiamo rifiutati. Qualcuno di noi gli ha riempito il bagagliaio di bottiglie, e loro ci hanno guardati con una domanda negli occhi.

«Così risparmierete sulle bibite il giorno del funerale», gli abbiamo detto.

A quel punto sono esplosi in mille ringraziamenti. La donna si è messa a baciarci le mani e noi, per sottrarci a tutti quei baci, siamo tornati al lavoro.

Altra gente, intanto, cercava i propri morti. Qualcuno di loro ci ha offerto il suo aiuto e noi l’abbiamo accettato: poveracci, speravano di assistere al recupero dei corpi dei loro cari. Ma non è semplice trovare un morto annegato, di solito per almeno tre giorni i corpi stanno sott’acqua, e solamente dopo, quando cominciano a putrefarsi e si riempiono di gas, risalgono in superficie. Era stato un puro caso se avevamo trovato il corpo di quel povero moldavo, doveva essere stato spinto a galla da una forte corrente, e se non lo avessimo acchiappato subito sarebbe certo tornato sott’acqua.

Vitalic con altri cinque ragazzi stava trascinando a riva un albero con tanti rami che spuntavano dall’acqua: si capiva che sotto doveva essere enorme.

Avevano deciso di girarlo al contrario, con la chioma verso riva, per dare più punti d’appiglio a quelli che dovevano afferrarlo da terra.

Mentre lo stavano girando, Vitalic è rimasto impigliato con un piede tra quei rami. E riuscito a urlare, ad avvertire gli altri che era rimasto incastrato, ma improvvisamente l’albero ha funzionato come un’elica: si è ribaltato con tutto il suo peso portando Vitalic sott’acqua.

Non riuscivamo a crederci.

Tutti si sono buttati in acqua per tirarlo fuori, ma lui non c’era già più, né attaccato all’albero né altrove, nel raggio di molti metri.

A quel punto abbiamo immediatamente chiuso con la rete la zona H intorno, per evitare che la corrente lo portasse via. Poi abbiamo cominciato a esplorare il fondale.

Ci buttavamo nell’acqua sporca, dove non si vedeva niente, rischiando di andare a sbattere contro qualcosa. Uno di noi infatti è stato colpito da un tronco, ma per fortuna non troppo forte.

Di Vitalic, però, nessuna traccia.

Dopo dieci minuti di inutili ricerche, ci siamo guardati con rabbia.

Mi ricordo che continuavo a tuffarmi in acqua: scendevo giù, fino al fondo, cinque о sette metri, e cercavo con le mani nel vuoto.

A un certo punto ho trovato qualcosa, una gamba! L’ho stretta forte, appoggiandola al mio corpo, e piegandomi ho puntato i piedi sul fondale; mi sono dato una bella spinta, come se liberassi di colpo una molla, dopo di che in un attimo mi sono ritrovato in superficie.

Soltanto lì ho capito che avevo afferrato la gamba di Mei. La sua testa spuntava dall’acqua e lui mi guardava con una faccia stupita.

Mi sono arrabbiato e l’ho colpito con un pugno in testa. Lui mi ha risposto nello stesso modo, e mi ha fatto parecchio male.

Non siamo riusciti a trovarlo, il corpo di Vitalic, nella prima ora di ricerche.

Eravamo tutti stanchi e nervosi, molti si sono messi a litigare tra loro: volavano le offese, ognuno voleva scrollarsi di dosso la colpa scaricandola sugli altri. In momenti come quelli, di slealtà totale verso tutti, cominci a vedere quali sono le vere facce delle persone, e ti viene uno schifo per quel lo che sei e per dove ti trovi.

Io non sentivo più le braccia e le gambe, non riuscivo più a nuotare, allora sono tornato a riva e mi sono sdraiato.

Non ricordo come, ma mi sono addormentato.

Quando mi sono svegliato era sera. Qualcuno mi stava chiedendo se stavo bene. Era il mio amico Gigit, aveva una bottiglia di vino in mano.

Gli altri erano seduti davanti al fuoco e si stavano ubriacando.

Mi sono sentito di nuovo pieno di forze e ho chiesto a Gigit se il corpo di Vitalic era stato trovato. Lui ha fatto un segno negativo con la testa.

Allora sono andato dagli altri e gli ho chiesto perché si ubriacavano, quando il corpo del nostro amico stava ancora nel fiume.

Mi hanno guardato con indifferenza, qualcuno era ciucco marcio, i più erano stanchi e depressi.

«Sentite, – ho detto, – io adesso vado a mettere le reti alla Falce».

La Falce era un posto a una ventina di chilometri più giù, sul fiume. La chiamavano cosi perché in quel punto il fiume faceva una curva larga che assomigliava a una falce. In quell’ansa l’acqua si fermava e allagava la riva, cosi la corrente sembrava quasi ferma.

Tutto quello che portava via la corrente prima о poi arrivava li. Bloccando con la rete il passaggio sul fondo, si poteva recuperare il corpo di Vitalic.

L’unico problema era che con l’alluvione il fiume si era riempito di tutta quella roba, e allora bisognava cambiare la rete in continuazione, altrimenti si riempiva troppo e rischiavi di romperla, mentre la tiravi su.

Con me sono venuti anche Mei, Gigit, Besa e Muto. Siamo andati con le mie due barche, con la mia rete e con quella di Mei.

Le reti che vengono usate per pescare gli annegati dopo vanno buttate via, о conservate solo per essere usate in un’altra occasione triste.

Io avevo una decina di reti diverse per usi diversi, le migliori erano quelle da fondo, che potevano sopportare grandi pesi e stare in acqua tanto tempo. Avevano tre strati sovrapposti, per un maggior effetto di cattura, ed erano molto spesse.

Ho preso la migliore rete da fondo che avevo e siamo partiti.

Abbiamo buttato la rete tutta la notte, la pulivamo in continuazione dalla sporcizia: c’era di tutto sul fondo del fiume, tante carcasse di animali diversi. Ma il peggio erano i rami, perché quando s’infilavano nella rete era difficile toglierli e rompevano le maglie.

Fino a mattina abbiamo avuto le mani fradice, non facevamo in tempo ad asciugarle che si bagnavano di nuovo, perché appena finivi di pulire la rete da una parte era già piena dall’altra, allora correvi di là, e appena la svuotavi dovevi tornare dov’eri prima.

A un certo punto è arrivato Gagarin con gli altri, per darci il cambio. Eravamo stanchi, cascavamo dal sonno. Ci siamo buttati subito a terra, nell’erba, e ci siamo addormentati all’istante.

Verso le quattro di pomeriggio, Gagarin e gli altri hanno trovato il corpo di Vitalic.

Era tutto pieno di graffi e di tagli, il piede destro era rotto, con un pezzo d’osso che fuoriusciva. Vitalic era blu, come tutti gli annegati.

Abbiamo chiamato la gente del nostro quartiere. Lo hanno portato a casa, da sua mamma. Siamo andati anche noi, per raccontarle com’era successo. Lei era disperata, piangeva senza fermarsi e ci abbracciava tutti insieme, stringendoci forte fino a far male. Penso che lei abbia capito da sola, о forse glielo aveva detto qualcuno dei ragazzi del Centro, quanto ci eravamo sbattuti per trovare il corpo di suo figlio.

Ci ringraziava di continuo, e mi faceva effetto sentirla dire:

«Grazie, grazie che me lo avete portato a casa».

Non riuscivo a guardarla in faccia, sapendo che non avevo fatto tutto il possibile per trovare il corpo di suo figlio.

Eravamo tutti scioccati, sconvolti. Non riuscivamo neanche a pensarlo, che il destino ci aveva tolto una persona come Vitalic.

E così, quando eravamo nei paraggi del Centro, passavamo sempre da zia Katja, la mamma di Vitalic.

Non era sposata: il suo primo compagno, il padre di Vitalic, non aveva fatto in tempo a sposarla perché era stato arruolato nell’esercito e spedito in Afghanistan, dov’era stato dato per disperso quando lei era ancora incinta.

Zia Katja gestiva quel piccolo locale che dicevo, tipo un ristorante, e viveva con un nuovo compagno, un uomo buono, criminale, che si occupava di vari traffici illeciti.

Ogni volta che andavamo a trovarla portavamo sempre dei fiori in regalo perché sapevamo che li amava moltissimo.

Un giorno ci aveva detto che le sarebbe piaciuto più di ogni altra cosa al mondo avere un albero di limoni. Noi avevamo deciso di procurarcelo, l’unico problema era che non sapevamo dove, nessuno di noi aveva mai visto un albero di limoni.

Qualcuno allora ci aveva consigliato di provare nei giardini botanici, dov’erano esposte tutte ’ste piante che crescono nei Paesi caldi. Dopo un po’ di tempo e di esplorazioni abbiamo individuato il giardino botanico più vicino: era a Belgorod, in Ucraina, sul Mar Nero, a tre ore di viaggio da casa nostra.

Siamo partiti con un gruppo organizzatissimo, eravamo una quindicina, tutti volevano partecipare all’affare dei limoni, perché tutti volevano bene a zia Katja e cercavano di aiutarla e farla contenta come potevano.

Arrivati a Belgorod abbiamo comprato un solo biglietto per il giardino botanico: uno di noi entrava, andava in bagno e passava dalla finestra quel biglietto a un altro del gruppo, e via cosi, finché non siamo entrati tutti.

Abbiamo seguito una scolaresca in visita e ci siamo avvicinati al nostro obiettivo. Era un albero non tanto grande, un po’ più alto di un cespuglio, con le foglie verdi e tre limoni gialli che dondolavano al vento.

Mei ha subito detto che i limoni erano finti, attaccati con la colla per far figura, e che quell’albero era un cespuglio qualunque. Abbiamo dovuto fermarci ed esaminare velocemente l’albero, per capire se quei dannati limoni erano veri о no. Li ho annusati tutti e tre personalmente: avevano un tipico odore di limone.

Mei si è preso una sberla da Gagarin e gli è stato impedito di parlare fino alla fine dell’operazione.

Dopo aver afferrato il vaso siamo saliti al secondo piano di un edificio ai margini del giardino. Abbiamo aperto una finestra e abbiamo buttato con cautela l’alberello sul tetto di un box auto. Da li siamo saltati giù anche noi e abbiamo fatto una corsa fino alla stazione, aggrappati a quel pesante vaso con l’albero dentro. In treno abbiamo realizzato che nonostante gli urti e gli scrolloni i limoni non si erano staccati: eravamo così contenti di non averli persi…

Zia Katja, quando le abbiamo portato il nostro regalo, si è messa a piangere dalla gioia, о forse piangeva perché aveva visto il timbro del giardino botanico sul vaso che noi, per distrazione, non avevamo eliminato. Comunque era cosi contenta che quando ha raccolto il primo limone maturo ci ha invitati tutti quanti a bere il tè col limone.

Così anche quel giorno – il giorno del mio tredicesimo compleanno, mentre io e Mei attraversavamo la città diretti al quartiere Ferrovia – abbiamo pensato di portarle una pianta, e abbiamo fatto un salto nel negozio del vecchio Bosja.

Prendevamo sempre le piante e i fiori per zia Katja da lui, gli chiedevamo di scriverci i nomi di quelle creature a noi sconosciute su un foglio di carta, per non rischiare di comprare due volte la stessa cosa.

Ogni cinque piante Bosja ci faceva un piccolo sconto о ci dava in regalo dei sacchetti con vecchi semi che ormai non servivano più a niente perché erano tutti secchi. Ma noi li prendevamo lo stesso e, strada facendo, passavamo dal distretto di polizia; se trovavamo parcheggiate le macchine dei poliziotti fuori dal cancello buttavamo i semi nei loro serbatoi: quei semi erano leggeri, non andavano subito in fondo, ed erano così piccoli che riuscivano a passare attraverso il filtro della pompa di benzina, cosi quando arrivavano al carburatore il motore si fermava. In poche parole facevamo buon uso di quello che in altre circostanze veniva buttato via.

Nonno Bosja era un bravo ebreo rispettato da tutti i criminali, anche se oltre ad avere un negozio di fiori (che non vendeva), nessuno sapeva cosa faceva di preciso, talmente segreti teneva i suoi affari. Girava voce che fosse legato alla comunità ebraica di Amsterdam e che trafficasse in diamanti. Beh, questa informazione nessuno ce l’ha mai confermata, e noi lo prendevamo sempre in giro, quando andavamo nel suo negozio, cercando di scoprire cosa combinava in realtà. Era diventata una tradizione, noi cercavamo di farlo parlare e lui ogni volta riusciva a svicolare.


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