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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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Ksjusa

Ksjusa era una ragazza molto bella, aveva tipici lineamenti russi. Era alta, bionda, ben fatta, con la faccia piena di lentiggini e gli occhi di un colore blu scuro e profondo.

Aveva la mia stessa età e viveva con una zia, una brava donna che tutti noi chiamavamo zia Anfisa.

Fin da piccolo sono stato circondato da adulti e bambini handicappati, come il mio caro amico Boris, il macchinista, che ha fatto la fine tragica di cui ho già parlato. Molti malati mentali abitavano nella nostra zona, e hanno continuato a trasferirsi in Transnistria fino agli anni Novanta, quando la legge che vietava di tenere in casa i malati mentali è stata abolita.

Adesso mi accorgo che la cultura siberiana ha sviluppato dentro di me un profondo senso di accettazione delle persone che al di fuori della mia società nativa vengono definite anormali, anomale, non normali. Per me, appunto, non si trattava mai di un’anomalia.

Sono cresciuto con i malati mentali e ho imparato da loro molte cose, così sono arrivato alla conclusione che hanno dentro una purezza naturale, qualcosa che non si può sentire se non si è liberati completamente dal peso terrestre.

Ksjusa era una mia amica speciale.

Ricordo il giorno in cui l’ho vista per la prima volta. Stava camminando verso casa nostra col suo passo un po’ timido e allo stesso tempo forte e deciso: sembrava un animale selvatico che zampetta nel bosco. Io ero seduto insieme a mio nonno, sulla panchina. Quando lei si è avvicinata, mio nonno l’ha guardata per un po’ e poi ha detto, come se parlasse con qualcuno che io non riuscivo a vedere:

«Grazie per aver mandato un altro angelo in mezzo a noi peccatori».

Ho capito che si trattava di una bambina «Voluta da Dio», come si dice da noi, una che in altri posti sarebbe stata chiamata semplicemente matta.

Era affetta da una forma d’autismo, ed era cosi da sempre.

«Lei ha sofferto per tutti noi, come Nostro Signore Gesù Cristo», mi ha detto il nonno. E io ero d’accordo con lui, non tanto perché capivo il motivo della sofferenza di Nostro Signore, ma semplicemente perché avevo imparato che nella mia famiglia, per sopravvivere e avere possibilità di prosperare, bisognava essere sempre d’accordo con il nonno, anche nei casi che oltrepassavano il limite delle capacità intellettuali, altrimenti non si andava avanti.

Come tanti bambini e adulti Voluti da Dio, Ksjusa era molto spesso a casa nostra: entrava e usciva quando voleva lei, a volte stava fino a tarda notte, finché zia Anfisa non veniva a riprenderla.

Ksjusa era espansiva, persino chiacchierona certe volte. Le piaceva raccontare a tutti le ultime notizie che aveva sentito in giro.

L’avevano educata i criminali, cosi era cosciente che gli sbirri erano i cattivi e quelli che vivevano nella nostra zona erano i buoni, e tutti noi eravamo una famiglia.

Questa cosa aveva creato un’atmosfera di protezione intorno a lei, e lei si sentiva libera di esistere.

Anche quando è cresciuta, Ksjusa ha continuato a entrare in casa nostra liberamente come prima: senza chiedere il permesso a nessuno si metteva a cucinare quello che le pareva, oppure andava nell’orto ad aiutare mia zia, о stava li a guardare mia mamma fare la calza.

Spesso io e lei andavamo sul tetto, dove mio nonno teneva i suoi colombi. A lei piacevano molto i colombi, quando vedeva il modo in cui zampettavano e mangiavano, rideva e allungava le mani, come a volerli toccare tutti quanti.

Insieme a mio nonno li facevamo volare. Prima nonno prendeva una colomba femmina, piccola e povera di colori e di piuma, e la lanciava; quella cominciava a salire in aria, volava sempre più in alto, e quando diventava piccola come un puntino nel cielo nonno dava in mano a ognuno di noi un maschio bello grande, con la piuma ricca e lucida, un vero spettacolo di colombo. Dopo il segnale di nonno lo lanciavamo in alto, e quello allora saliva verso la colomba, facendo capriole per attirare la sua attenzione. Sbatteva forte le ali, faceva un rumore tipo il battito delle mani. Dovevate vedere come rideva Ksjusa in quel momento, era lei il vero spettacolo.

Le piaceva imitare i gesti e le frasi del nonno. Quando vedeva un bel colombo, qualche nuovo acquisto, si metteva le mani sul petto proprio come faceva nonno Boris, uguale uguale, e con la sua stessa tonalità di voce diceva, come cantando:

– Ma che meraviglia di colombo è questo, è sceso qua direttamente da Dio!

Scoppiavamo tutti a ridere, per come riusciva a cogliere bene il modo di gesticolare del nonno e la particolarità della sua pronuncia siberiana, e lei rideva insieme a noi, capendo di aver fatto qualcosa di bello.

Ksjusa non aveva i genitori, e nemmeno altri parenti, sua zia non era una vera zia, si faceva chiamare cosi per semplificare le cose. Zia Anfisa aveva un passato da klava о zentrjaska о sachamaja: così nel gergo criminale chiamano le donne ex carcerate che una volta tornate in libertà si sistemano con l’aiuto dei criminali, trovano un lavoro normale, fanno finta di vivere una vita onesta per distogliere da sé l’attenzione della polizia. Per i criminali in difficoltà – che so, ricercati о evasi – sono come un punto d’appoggio nel mondo civile, è grazie a loro che comunicano con gli amici e riescono a ottenere vari aiuti per i quali c’è bisogno della mediazione di una persona pulita e insospettabile. Queste donne sono molto rispettate nel mondo criminale, e spesso mandano avanti affari criminali secondari, come piccoli traffici о vendita di merce rubata. Secondo il regolamento criminale non possono sposarsi, perché sono e devono restare le spose del mondo criminale. L’ex Urss è piena di queste donne: la gente dice di loro che non si sono sposate perché in passato hanno avuto delle brutte esperienze con gli uomini, ma la verità è un’altra. Vivono in posti isolati, fuori città, in quartieri tranquilli, nei loro appartamenti non c’è nessuna traccia di quel mondo a cui sono legate in maniera stretta e definitiva. L’unico segno visibile della loro identità può essere un tatuaggio sbiadito in qualche parte del corpo.

Gli indirizzi di queste donne non si trovano su nessun elenco, e in ogni caso non serve a niente conoscerli, devi essere mandato da qualcuno, da un criminale autorevole; non ti apriranno mai la porta se non sono state avvertite in tempo del tuo arrivo, о se non riconoscono la firma sul tuo braccio.

Zia Anfisa prima di trasferirsi in Transnistria viveva in una piccola città della Russia centrale, e ogni tanto ospitava i criminali nel suo appartamento. Andavano da lei appena usciti di galera almeno per due ragioni: per passare del tempo insieme a una donna capace di amare cosi com’è abituato un criminale, e per chiedere aiuto per la nuova vita, ritrovare gli amici e avere informazioni sul mondo criminale.

Una sera era arrivato da lei un uomo in fuga, ricercato da tempo dalla polizia. Insieme alla sua banda aveva fatto parecchie rapine alle casse di risparmio, ma un giorno qualcosa era andato storto e i poliziotti erano riusciti a rintracciarli. Era cominciata una fuga violenta: i criminali, scappando e cercando di far perdere le tracce, si erano divisi, spartendosi il bottino. Ognuno era andato per la sua strada, ma – da quel che ne sapeva Anfisa – solamente due di loro ce l’avevano fatta a fuggire, gli altri sei erano stati uccisi negli scontri con la polizia. Il gruppo aveva sulla coscienza più di trenta morti, tra agenti e guardie giurate, quindi per la polizia era quasi una questione d’orgoglio non lasciarsi scappare neanche uno dei rapinatori e dare a tutti una punizione esemplare, per far passare alla gente la voglia di andare in giro ad ammazzare sbirri.

Questo ricercato si era presentato da Anfisa insieme a una bambinetta di pochi mesi. Aveva raccontato che il suo progetto di fuga attraverso il Caucaso, la Turchia e la Grecia era andato in fumo sul nascere: la polizia aveva fatto irruzione nel suo appartamento e un agente gli aveva ucciso la moglie (la madre della bambina) ma lui era riuscito a scappare, e adesso era arrivato da lei, da Anfisa, mandato da un amico.

Aveva lasciato ad Anfisa – insieme a una borsa piena di soldi, qualche diamante e tre lingotti d’oro – la sua bambina, chiedendole di prendersene cura. Lei aveva accettato, e non solo per i soldi: Anfisa non poteva avere bambini e, come ogni donna che desidera averne, non aveva saputo resistere.

L’uomo le aveva detto che se voleva vivere tranquilla doveva sparire. Le aveva consigliato di andare in Transnistria, nella città di Bender, terra di criminali, dove lui aveva gli agganci giusti e dove nessuno poteva trovarla e farle del male.

Quella notte stessa Anfisa, con una borsa piena di soldi e di roba da mangiare e con la piccola tra le braccia, era partita per la Transnistria. Più tardi aveva saputo che il padre della bimba era stato ucciso in una sparatoria con la polizia, mentre tentava di raggiungere il Caucaso.

Anfisa non sapeva neanche il nome della bambina, in mezzo a tutto quel casino l’uomo aveva dimenticato di dirle come si chiamava sua figlia. Così aveva deciso di darle il nome della santa protettrice dei genitori, Santa Ksenja: «Ksjusa», appunto, come la chiamavamo noi affettuosamente.

Fin dall’inizio Anfisa aveva capito che Ksjusa era diversa dagli altri bambini, ma questo non le ha mai impedito di essere fiera di lei: avevano un bellissimo rapporto quelle due, erano una vera famiglia.

Ksjusa andava sempre per i fatti suoi, solo lei sapeva dove, e dappertutto trovava porte aperte e gente che le voleva bene.

Il suo autismo a volte era più evidente del solito: in certi momenti si bloccava e rimaneva ferma per parecchio tempo, guardando lontano, come se stesse concentrandosi su qualcosa di molto distante. In quei momenti niente poteva svegliarla, farla tornare in sé. Poi usciva improvvisamente da quello stato e ricominciava a fare quello che stava facendo prima.

Nella nostra zona abitava un vecchio dottore che aveva una sua teoria su Ksjusa, e sui suoi momenti d’assenza.

Era un medico speciale, e un uomo che amava la letteratura e la vita. Mi prestava molti libri, soprattutto scrittori americani vietati in Unione Sovietica, e anche delle traduzioni non censurate di classici europei, come ad esempio Dante.

Ai tempi di Stalin era stato messo in un lager perché aveva nascosto nel suo appartamento una famiglia di ebrei che, come tanti ebrei in quegli anni, erano stati dichiarati nemici del popolo. Per collaborazione con i nemici del popolo si era beccato una condanna pesante di carattere politico e, come molti prigionieri politici in quegli anni, era stato mandato in un lager insieme ai prigionieri comuni, che odiavano quelli politici. Già sul treno verso il lager si era dimostrato utile alla comunità fuorilegge aggiustando le ossa rotte di un criminale importante, picchiato selvaggiamente dai militari di guardia. Nel lager era stato dichiarato ufficialmente leptla, dottore dei criminali.

Dopo diversi anni di lager aveva sviluppato un rapporto cosi stretto con la comunità criminale, pur non essendo un criminale, che quando era stato liberato non si era più sentito appartenere al mondo civile. Quindi aveva deciso di continuare a vivere nella comunità criminale e per questo motivo era venuto in Transnistria, nella nostra zona, dove aveva un amico.

Questo dottore era un individuo molto interessante perché complicato, fatto a strati: un medico, un intellettuale che aveva conservato la finezza e la raffinatezza di una persona con un’istruzione universitaria, ma anche un uomo con un passato da galeotto, amico di criminali, di cui parlava perfettamente la lingua e a cui somigliava quasi in tutto.

Bene, parlando di Ksjusa lui diceva che era molto importante non disturbarla mentre era immobile, ma soprattutto era necessaria una cosa: quando lei tornava alla realtà, tutto intorno a lei doveva essere come al momento del distacco.

Quindi noi ragazzi sapevamo che non bisognava toccarla, quando entrava in quello stato. Lo sapevamo, e cercavamo con tutte le nostre forze di proteggere la nostra Ksjusa da ogni possibile trauma, ma come succede spesso tra giovani qualche volta abbiamo pure esagerato, seguendo i consigli del dottore.

Una volta ad esempio stavamo facendo un giro in barca: eravamo in tre più Ksjusa, risalivamo il fiume controcorrente, e a un certo punto si è spento il motore. Abbiamo messo i remi in acqua, ma dopo qualche minuto ho notato che Ksjusa era cambiata, stava seduta con la schiena diritta e la testa ferma, come una statua, e fissava l’ignoto… Allora noi, poveri deficienti, ci siamo messi a remare come matti controcorrente, perché avevamo paura che se al risveglio di Ksjusa il paesaggio intorno cambiava, la sua salute veniva gravemente danneggiata.

Abbiamo remato come disperati per quasi un’ora, facevamo i turni ma eravamo sfiniti lo stesso, la gente ci guardava dalla riva cercando di capire cosa stavano facendo ’sti imbecilli su una barca in mezzo al fiume, proprio dove la corrente è più forte, e perché continuavano a remare controcorrente per restare sempre allo stesso punto.

Quando Ksjusa si è svegliata abbiamo tirato tutti un bel sospiro e siamo tornati subito a casa, anche se lei continuava a chiedere di andare ancora un po’ più avanti…

Volevamo un casino di bene alla nostra Ksjusa, era la nostra sorellina.

Quando sono uscito dal carcere dopo la mia seconda condanna minorile, ho fatto festa per una settimana. Poi mi sono fatto un giorno intero di sauna, mi sono addormentato sotto il vapore caldo, profumato dall’estratto di pino, che mi ha inchiodato alla branda di legno bollente. Dopo sono andato a pesca con i miei amici.

Abbiamo preso quattro barche e delle reti lunghe, e siamo andati lontano: abbiamo risalito il fiume fin sotto le colline, dove cominciavano le montagne. Li il fiume era molto più largo, a volte non si vedeva la riva opposta, e la corrente era meno forte: tutta una pianura piena di piccoli laghi tra boschi selvatici e campi, e un profumo di fiori ed erbe portato dal vento che a respirarlo ti sentivi in paradiso.

Pescavamo di notte e ci rilassavamo di giorno, facevamo il fuoco e preparavamo la zuppa di pesce oppure il pesce cot-to nella terra, i nostri piatti preferiti. Parlavamo tanto, io raccontavo quello che avevo visto in galera, le storie quotidiane del carcere, la gente che avevo incontrato e le cose interessanti che avevo sentito raccontare dagli altri. I miei amici mi mettevano al corrente di quello che era successo nella nostra zona mentre ero in prigione: chi se n’era andato, chi era stato messo dentro, chi era morto, chi si era ammalato о era sparito; i casini capitati da noi о le grane con qualcuno di un’altra zona, le risse scoppiate durante la mia assenza. Qualcuno raccontava della sua condanna precedente, qualcun altro di quello che aveva sentito dire dai suoi parenti tornati dalla galera. Così passavamo le giornate.

Dopo una decina di giorni siamo tornati a casa.

Ho legato la mia barca al molo. Era una bella giornata, faceva caldo, anche se tirava po’ di vento. Ho lasciato in barca tutto: la mia borsa con il sapone, lo spazzolino da denti e il dentifricio, ho lasciato lì anche le mie ciabatte, volevo camminare senza avere niente tra le mani. Mi sentivo bene, come ci si sente quando sei cosciente di essere veramente libero.

Ho messo il mio cappello a otto triangoli storto sul lato destro della testa, ho infilato le mani in tasca, toccando con la destra il mio coltello a scatto, ho raccolto un filo d’erba aromatica in riva al fiume e l’ho stretto tra i denti.

E così, a piedi scalzi, in compagnia dei miei amici, con passo rilassato sono partito verso casa.

Già nella prima via del nostro quartiere abbiamo capito che era successo qualcosa: la gente usciva dalle case, le donne con i bambini piccoli tra le braccia andavano dietro agli uomini, si era formata una fila immensa di persone. Seguendo la folla, aumentando il passo abbiamo raggiunto la coda della fila, chiedendo subito cos’era accaduto. Zia Marfa, una donna di mezz’età, moglie di un amico di mio padre, ci ha risposto con una faccia spaventatissima, quasi terrorizzata:

– Figlioli, che disgrazia ci è capitata, che disgrazia… Il Signore ci sta punendo tutti quanti…

– Ma cos’è successo, zia Marfa? E morto qualcuno? – ha chiesto Mei.

Lei lo ha fissato con uno sguardo pieno di dolore e ha detto una cosa che non dimenticherò mai:

– Ti giuro su Gesù Cristo che quando è morto in galera mio figlio non stavo così male…

Poi si è messa a piangere e a farfugliare qualcosa, ma non si capiva niente, abbiamo colto solo tre parole, «residuo di aborto», un insulto molto pesante per noi, perché oltre a offendere la persona che viene chiamata così offende il nome della madre, che secondo la tradizione siberiana è sacro.

Quando una donna, una madre, insulta il nome di un’altra madre, significa che la persona a cui è rivolto quell’insulto ha fatto qualcosa di veramente orribile.

Cosa stava succedendo? Non ci capivamo niente.

Per di più in pochi istanti tutte le donne presenti nella fila si sono messe a urlare, piangere e sputare maledizioni insieme a zia Marfa. Gli uomini, come previsto dalla legge siberiana, le lasciavano urlare e mantenevano la calma: soltanto gli sguardi pieni d’ira, le strette fessure degli occhi quasi chiusi dalla rabbia, indicavano il loro stato d’animo.

A zia Marfa si è avvicinato zio Anatolij, un vecchio criminale che da giovane aveva perso l’occhio sinistro in una rissa e per questo era soprannominato «Ciclope». Era alto e robusto e non portava mai la benda su quel buco dove una volta c’era stato il suo occhio: preferiva mostrare a tutti quel vuoto nero e spaventoso.

Ciclope aveva il compito di occuparsi di zia Marfa e di badare alla sua famiglia, mentre il marito – che era il suo migliore amico – era in galera. Così si usa tra criminali siberiani: quando uno deve scontare una lunga condanna, chiede a un amico, una persona di cui si fida, di aiutare la sua famiglia a tirare avanti, di controllare che la moglie non lo tradisca con qualcun altro (cosa quasi impossibile nella nostra comunità), di vigilare sull’educazione dei figli.

Abbracciando zia Marfa, Ciclope cercava di calmarla, ma lei continuava a gridare sempre più forte, e le altre donne facevano lo stesso. Così hanno cominciato a piangere pure i bambini piccoli, e poi anche quelli un po’ più grandi.

Sembrava un inferno: veniva da piangere pure a me, anche se nemmeno sapevo il motivo di tutta quella disperazione.

Ciclope ci ha guardati, e ha capito dalle nostre facce che nessuno ci aveva ancora detto niente. Ha mormorato con la voce triste e piena di rabbia:

– Qualcuno ha violentato Ksjusa… Ragazzi, è un mondo di bastardi questo!

– Ma stai zitto, Anatolij, non far arrabbiare ancora di più Nostro Signore! – lo ha interrotto nonno Filat', un vecchissimo criminale che tutti chiamavano «Inverno», ma non ho mai capito perché.

Si diceva che da ragazzo Filat' avesse derubato Lenin in persona. Cioè, lui e la sua banda avevano fermato alla periferia di San Pietroburgo la macchina di Lenin e di alti membri del partito. Lenin – raccontavano – non aveva voluto consegnare ai rapinatori la macchina e i soldi, e Inverno allora lo aveva picchiato sulla testa: dopo quel trauma a Lenin era venuto il suo famoso tic, insomma aveva cominciato a girare involontariamente la testa verso sinistra. Ho sempre creduto poco in questa storia, chissà cosa c’era di vero, però era divertente vedere persone adulte che raccontavano queste cose convinte che fossero vere.

Insomma, Inverno era una vecchia autorità che poteva dire la sua e tutti lo ascoltavano. Toccava a lui rimproverare Ciclope perché aveva parlato con troppa rabbia, lasciandosi scappare bestemmie che un criminale siberiano educato non dovrebbe mai pronunciare.

– Chi sei, ragazzo, per chiamare questo mondo «un mondo di bastardi»? Lo ha creato Nostro Signore, ed è pieno anche di uomini giusti. Vuoi mica offendere tutti loro? Bada alle tue parole, perché una volta volate via non tornano indietro.

Ciclope teneva la testa bassa.

– E vero, – ha continuato nonno Filat', – ci è capitata una grande disgrazia e ingiustizia, non siamo riusciti a proteggere l’angelo del Nostro Signore e adesso Lui ce la farà pagare. Magari tu stesso domani ti beccherai una lunga condanna, qualcuno morirà per mano degli sbirri, qualcun altro perderà la fede nella Madre Chiesa… Il castigo ci aspetta tutti, perché il peccato è di tutti. Anch’io, vecchio come sono, sarò punito in qualche modo. Però adesso non è tempo di perdere la testa, dobbiamo dimostrare al Signore che siamo attenti ai Suoi segnali, dobbiamo aiutarlo a compiere la Sua giustizia… – il resto del discorso di Inverno me lo sono perso, perché mi ero messo a correre fortissimo verso casa di Ksjusa.

Tutte le porte e le finestre erano spalancate.

Zia Anfisa si spostava per casa come un fantasma: aveva la faccia bianca, gli occhi gonfi di lacrime e le mani che tremavano talmente che trasmettevano un tremito in tutto il corpo. Non urlava e non diceva niente, si limitava a fare un verso lungo e sottile, come quello dei cani quando sentono un dolore fisico.

Trovarmela davanti in quello stato mi ha fatto paura. Sono rimasto per un attimo come paralizzato, poi lei è venuta verso di me e con le sue mani tremolanti mi ha preso per la faccia, per le guance, mi ha guardato piangendo e sussurrando qualcosa di cui io non riuscivo a capire il senso, perché ero come avvolto nella nebbia. Non sentivo niente, nelle mie orecchie andava aumentando un rumore tipo un fischio, come quando vai sott’acqua scendendo sempre più giù. Mi è venuto un violento mal di testa, ho chiuso gli occhi schiacciandomi le tempie più forte che potevo, e in quel momento sono tornato alla realtà e ho capito il senso di quella domanda che continuava a sussurrarmi zia Anfisa:

– Perché?

Semplicemente, un corto e tagliente «Perché?»

Stavo male, non mi sentivo più i piedi. Ho perso le forze, doveva vedersi che non stavo niente bene, perché mentre cercavo di camminare per raggiungere la stanza di Ksjusa ho sentito due miei amici tenermi su per i fianchi, stringermi i gomiti. Passo dopo passo mi sono reso conto che stavo barcollando, come ubriaco, mi era venuto un male nuovo dentro il petto, sentivo un peso nel cuore e nei polmoni, non riuscivo a respirare. Tutto girava intorno a me, cercavo di tenere fisso lo sguardo, ma la giostra che avevo in testa diventava sempre più veloce, sempre più veloce… a un tratto, però, sono riuscito a cogliere l’immagine di Ksjusa. Era sfocata, ma scioccante anche nella sua imprecisione: stava sul letto come una neonata, con le ginocchia che le arrivavano alla faccia, le mani strette intorno. Chiusa, completamente chiusa. Volevo guardarla in faccia, volevo fermare il mio capogiro, ma non sono riuscito a controllarmi, ho visto una forte luce e ho perso i sensi, cadendo tra le braccia dei miei amici.

Mi sono risvegliato fuori, nel cortile, circondato dai miei amici. Uno mi ha dato da bere un po’ d’acqua, mi sono alzato in piedi e mi sono sentito subito bene, forte, come dopo un lungo riposo.

La gente intanto aveva riempito il cortile, c’era una lunga fila vicino al cancello e sulla strada, tutti chiedevano in continuazione perdono a zia Anfisa, le donne continuavano a piangere e a urlare maledizioni contro i violentatori.

Io, in quel momento, ero preso da un solo desiderio: quel lo di sapere chi aveva potuto fare un gesto simile.

Un nostro amico, «Strabico» – soprannominato così perché da piccolo aveva gli occhi storti ma poi si erano aggiustati, insomma erano cambiati, mentre il suo soprannome no – si è avvicinato a noi ragazzi e ci ha detto che nonno Kuzja ci aspettava tutti da lui per un chodnjak, che è una specie di grande riunione tra criminali di tutti i livelli dove sono obbligati a presentarsi anche i minorenni.

Gli abbiamo chiesto se sapeva chi era stato a violentare Ksjusa, e com’era successo.

– Tutto quello che so, – ci ha detto, – è che l’hanno trovata nel quartiere Centro due donne della nostra zona. Vicino al mercato. Buttata tra i cassonetti dell’immondizia, svenuta.

Come segno di rispetto, le riunioni si tengono sempre nelle case dei vecchi criminali che hanno fatto il nodo: grazie alla loro esperienza sono in grado di dare consigli preziosi, ma essendosi ritirati e non avendo più responsabilità sono in un certo senso fuori dal gioco. Facendo le riunioni in case non loro, tutti i criminali con qualche responsabilità possono dire quello che pensano senza essere legati alla legge dell’ospitalità, secondo la quale il padrone di casa deve evitare di contraddire l’ospite. Cosi possono discutere liberamente, evitando di oltrepassare i limiti del buon senso.

Quando siamo arrivati a casa di nonno Kuzja, la porta era aperta, spalancata come sempre. Siamo entrati senza chiedere permesso, anche questa è una regola di buon comportamento: non si deve mai chiedere a un criminale vecchio e autorevole il permesso d’entrare in casa sua, perché secondo la sua filosofia lui non ha niente di suo, niente gli appartiene in questa vita, solo il potere della parola. Neppure la casa in cui abita è sua: vi dirà sempre di essere un ospite. Nonno Kuzja, poi, ospite lo era veramente, perché viveva nella casa di sua sorella minore, una simpatica vecchietta, nonna Ljusja.

In casa c’erano tanti criminali di Fiume Basso, anche mio zio Sergeij, fratello minore di mio padre. Abbiamo salutato i presenti stringendo la mano e baciandoli tre volte sulle guance, come si fa in Siberia. Nonna Ljusja ci ha fatti sedere e ha portato una grossa damigiana di kvas. Abbiamo aspettato che arrivassero tutti, poi il nostro Guardiano, Trave, ha fatto segno che potevamo cominciare.

Lo scopo di quelle riunioni è risolvere insieme una situazione anomala nella zona, in maniera che tutti siano d’accordo sulla soluzione e ognuno contribuisca secondo le sue possibilità.

Come ho già detto, ogni zona ha un Guardiano. Ed è lui il responsabile dell’applicazione delle leggi criminali davanti alle massime autorità, che non partecipano mai a riunioni come quelle. Quello del Guardiano è un compito molto difficile, perché devi tenerti sempre al corrente della situazione nella tua zona, e se succede qualcosa di grave le autorità ti «chiedono» – come si dice in gergo criminale —, cioè ti puniscono. Nessuno dice mai «punire», si dice «chiedere» per qualcosa. Si può chiedere in tre modi: leggero, e allora si dice «chiedere come a un fratello»; più pesante, e si dice «mettere la cornice»; о in modo definitivo e molto pesante, che cambia la vita del criminale decisamente in peggio, quando proprio non la elimina alla radice, «chiedere come dal Gad».

Di solito le vecchie autorità non risolvono i singoli problemi personalmente: a questo serve appunto il Guardiano, che viene scelto da loro e in qualche modo li rappresenta, almeno finché si comporta come si deve. Ma se la situazione è difficile e superiore alle sue capacità, il Guardiano può rivolgersi a un’autorità e, alla presenza di alcuni testimoni scelti tra i criminali comuni, presentare il caso senza fare i nomi delle persone coinvolte. Si fa cosi per garantire l’imparzialità nel giudizio; se il Guardiano si permette di nominare qualcuno о fa in qualche modo capire di quale persona si tratta, il vecchio può punirlo, e rinunciare lui stesso a quel caso per passarlo a un altro, di solito una persona lontana da lui, con cui ha pochi legami. Tutto questo per assicurare al processo della giustizia criminale la massima imparzialità: cosi non si tiene conto di niente al di fuori della legge criminale.

E chiaro che quando capita qualcosa il Guardiano è il primo interessato a voler risolvere tutto in maniera efficace e veloce, per non far diventare il caso troppo complicato, per non coinvolgere le autorità.

Trave era un vecchio rapinatore educato alla vecchia maniera. Per dare inizio alla riunione ha salutato alla siberiana, come si usa da noi, e cioè ringraziando Dio per aver dato a tutti la possibilità di essere presenti.

Parlava lentamente, ma con voce profonda, sembrava che a parlare fosse un orso e non un uomo. Noi lo ascoltavamo, ogni tanto qualcuno faceva un triste sospiro, a sottolineare la situazione pesante che avevamo davanti.

Il senso del discorso di Trave era semplice: era successa una cosa gravissima, già una violenza su una donna è una cosa inammissibile per la comunità criminale siberiana, ma una violenza su una donna Voluta da Dio è una violenza nei confronti di tutta la tradizione siberiana.

– Avete una settimana di tempo, – ha concluso guardando noi ragazzi. – Dovete trovare il colpevole, о i colpevoli se sono stati in tanti, e ammazzarli.

Quell’incarico spettava a noi. Siccome Ksjusa era minorenne, le regole del nostro quartiere imponevano che fossero i minorenni a fare le indagini e a occuparsi dell’esecuzione finale.

Non ci avrebbero lasciati soli, anzi ci avrebbero dato una grossa mano, ma davanti alle altre comunità dovevamo comparire solamente noi, per far capire come funziona la nostra^ legge.

E la regola siberiana: gli adulti non si mettono mai a fare qualcosa che riguarda i minorenni; possono aiutarli, dare consigli, sostenerli, ma tocca a loro esporsi. Anche nelle nostre risse non ci sono adulti, invece i ragazzi degli altri quartieri possono chiamarli a dare rinforzo. In Siberia un adulto non si permette mai di alzare le mani su un minorenne, altrimenti perde la sua dignità criminale, e allo stesso tempo anche il minorenne deve stare al suo posto e non rompere l’anima agli adulti.

Insomma, per far capire agli altri che la nostra legge è forte, noi ragazzi siberiani dobbiamo dimostrare che siamo capaci di occuparci di noi stessi.

– Per cominciare, andrete di quartiere in quartiere alla ricerca d’informazioni, – ci ha detto Trave. – E questi vi saranno utili, – ha concluso allungandoci un pacco di soldi. Erano diecimila dollari, una gran bella cifra.

La riunione era finita, e con la benedizione del nostro branco ora potevamo partire per la città.

Ma prima che uscissi di casa, nonno Kuzja mi ha chiamato con un gesto, come faceva sempre quando aveva qualcosa da dirmi «occhio nell’occhio», come si dice da noi.


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