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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

Текст книги "Сибирское воспитание"


Автор книги: Николай Лилин



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Adesso Mei se ne stava li, fermo immobile sulla strada con la faccia incattivita e i pugni stretti. L’ho guardato a lungo, e proprio non arrivavo a capire che cosa potesse passargli per la mente.

– Ma come «niente», ho detto quello che pensavo… – non sono riuscito a finire la frase che mi ha buttato sulla neve e si è messo a pestarmi gridando che ero un traditore.

Mentre mi picchiava, ho fatto scivolare la mano destra nel taschino della giacca, dove tenevo un tirapugni. Ho infilato per bene le dita nei buchi, poi ho tirato fuori la mano di scatto e gli ho dato un gran colpo in testa. Mi faceva un po’ d’impressione picchiarlo proprio li dov’era era già pieno di traumi e dolori, però era l’unico modo di fermarlo. Infatti mi ha mollato e si è seduto vicino a me, sulla neve.

Io ero sdraiato, ansimavo e non riuscivo ad alzarmi, mi limitavo a controllare le sue mosse, a guardarlo. Lui si toccava il punto dove l’avevo colpito e con la faccia schifata continuava a picchiarmi leggermente con il piede, più per disprezzo che per farmi male.

Quando ho ripreso fiato mi sono alzato sui gomiti:

– Ma che diavolo ti è preso? Mi volevi ammazzare? Che ho detto?

– Hai parlato di Gancio e adesso lui avrà dei problemi. Mi ha salvato la vita, è nostro fratello. Perché hai fatto la spia a zio Kostic?

A quelle parole mi è preso un crampo, non riuscivo a crederci. Mi sono tirato su, ho tolto la neve dalla giacca e dai pantaloni, e prima di riprendere la strada gli ho girato la schiena. Volevo che capisse bene la lezione.

– Ho parlato bene di Gancio, scemo, l’ho difeso, – gli ho detto. – E se Dio vuole, zio Kostic ci aiuterà a toglierlo dai guai.

Dopo sono partito, sapendo già cosa sarebbe successo. Per un’ora buona avremmo camminato come una compagnia teatrale: io davanti, come Gesù appena sceso dalla croce, con la testa alta e lo sguardo pieno di promesse che si perde cinematograficamente nell’orizzonte, e Mei dietro, con le spalle basse, tutto umile, con la faccia di uno che ha appena commesso un reato vergognoso, costretto a fare saltelli come il gobbo di Notre-Dame e a ripetere con voce piagnucolante e pietosa sempre la stessa frase, come una preghiera monotona:

– Dài, Kolima, non ti arrabbiare. Non ci siamo capiti, succede, no?

«Ma porca puttana, – pensavo, – porca puttana!»

E cosi siamo usciti dal Centro, lasciandoci alle spalle l’ultima fila delle vecchie case a tre piani. Dovevamo attraversare tutto il parco fino a un edificio orribile e triste, un palazzo costruito due secoli prima per ospitare la zarina di Russia nei suoi viaggi nelle terre di confine. Non so niente di architettura, ma era chiaro persino a me che quel palazzo era un miscuglio di stili mal assemblati: un po’ di Medioevo e un po’ di Rinascimento italiano, copiato malamente dai russi. Era grezzo, con decorazioni che non c’entravano un tubo, e per di più era tutto coperto di muffa. Quello schifo di posto, che secondo il mio parere poteva andar bene solamente per feste sataniche e sacrifici umani, ospitava invece i malati termina li di tubercolosi. Beh, in un certo senso, i sacrifici umani in quel posto erano all’ordine del giorno…

A Bender quell’ospedale veniva chiamato morìlka, che nella lingua antica indica qualcosa che ti fa soffocare. I medici che lavoravano li erano per lo più medici militari del sistema penitenziario, insomma erano i dottori delle carceri. Arrivavano da tutta l’Urss, si trasferivano a Bender per qualche anno con le famiglie e poi se ne andavano; venivano subito sostituiti da altri, che prima di andarsene a loro volta proponevano nuovi cambiamenti, piccole e inutili rivoluzioni. Quei poveri malati ormai erano abituati ai continui trasferimenti da un piano all’altro, da un’ala all’altra, erano costretti a veder finire i loro giorni in mezzo al casino, con intorno gente sconosciuta che va e viene come al mercato.

L’ospedale era di tipo «chiuso», cioè sorvegliato come qualsiasi prigione, perché molti dei pazienti erano ex carcerati. Intorno aveva il filo spinato, con tanto di sbarre alle finestre.

Era vietato fumare in tutto l’edificio, ma gli infermieri portavano di nascosto le sigarette e le vendevano ai fumatori incalliti al triplo del costo normale, speculando alla grande.

Tra i pazienti c’erano tanti finti malati: autorità del mondo criminale che sfruttando le loro conoscenze erano riuscite a farsi fare certificati medici falsi dove venivano dichiarati «terminali». Cosi se ne stavano in un bell’ospedale anziché in un carcere tutto freddo, umido e puzzolente. Quando ne avevano voglia facevano arrivare le prostitute da fuori, organizzavano festini con gli amici e persino riunioni di autorità criminali a livello nazionale. Tutto era permesso e coperto, bastava pagare.

A garantire la felice permanenza delle autorità in ospedale era una donna, un’infermiera cicciona di nazionalità russa, sempre allegra: zia Marusja. Sembrava più sana di Nostro Signore, aveva le guance rosse e parlava a voce alta, con dentro una forza tremenda. Era molto amata dai criminali, perché non c’era niente che lei non potesse fare per loro.

L’ospedale era diviso in tre blocchi non comunicanti. Il primo, il più bello, era esposto al sole: aveva grandi vetrate e una piscina calda; era il blocco dei malati terminali, dove ogni paziente aveva la sua stanzetta pulita e calda ed era oggetto di continue attenzioni da parte del personale. Era lì che stavano le autorità: fingevano di essere moribondi e invece erano sani e pieni di forze, passavano le giornate a giocare a carte, a guardare film americani in videocassetta, a scopare le infermiere giovani e a ricevere le visite degli amici che gli fornivano tutto il necessario per una vita bella e piena di gioie.

Nonno Kuzja parlava male di quella gente, li chiamava urody, che significa «mutilati»: diceva che erano la vergogna del mondo criminale moderno, e che se esistevano persone così si doveva ringraziare la cultura che veniva dall’America e dall’Europa.

Il secondo blocco era destinato ai malati cronici. Stavano in sei in una stanza; niente televisione, niente frigo, solo la mensa e il letto. Dormire alle nove di sera, sveglia alle otto del mattino. Non si poteva uscire dalla stanza senza il permesso del personale autorizzato, neanche per andare al cesso. In caso di bisogno, fuori dalla fascia oraria prevista si doveva usare una vecchia latrina mobile che ogni sera veniva svuotata. Il mangiare era discreto, tre volte al giorno. In questo blocco stavano i malati veri, criminali e non, e poi molti senza tetto, vagabondi. Le cure mediche erano uguali per tutti: pastiglie e qualche iniezione, inalazioni di vapore due volte alla settimana. I locali venivano puliti dagli infermieri con un disinfettante potentissimo, la creolina, lo stesso che si usava per le stalle: puzzava così tanto che se lo respiravi per più di mezz’ora ti veniva un mal di testa tremendo. Lì dentro, pure il cibo puzzava di creolina.

Il terzo blocco era per i malati di tubercolosi in fase acuta, infettivi. Era tutto in ombra, orientato verso gli alberi del parco, con piccole finestre sempre appannate; era talmente umido che l’acqua gocciolava dal soffitto. Tre piani, per ogni piano cinquanta stanze e in ogni stanza circa trenta persone. Per dormire c’erano brande di legno come quelle del carcere, materassini e lenzuola che venivano cambiate una volta al mese, coperte grezze, di lana sintetica. Non tutti avevano i cuscini. In quelle stanze strapiene la gente moriva di continuo. Faceva schifo lì dentro, molti non riuscivano nemmeno ad andare in bagno da soli, e visto che nessuno li aiutava si facevano tutto addosso; per di più molti di loro, mentre tossivano, sputavano sangue, lo sputavano di continuo, direttamente sul pavimento. Niente televisore, radio о altri divertimenti. Zero cure, tanto non servivano più a niente. Mangiare poco e male, tanto si va a morire, quindi il cibo è uno spreco.

Ai malati del terzo blocco ovviamente non arrivava il mercato degli infermieri, e quindi si erano inventati un sistema ingegnoso per procurarsi le sigarette. Usavano i ragazzini, gente come noi, di strada. I malati lanciavano dalle finestre un bullone pesante, intorno al quale era legato un doppio filo da pesca. Quando il bullone finiva dietro il muro, i ragazzini agganciavano al filo un sacchettino con le sigarette, e i malati uno con i soldi. Tirando il filo, facevi muovere i due sacchettini che cominciavano il loro viaggio in direzione opposta, i soldi verso i ragazzi e le sigarette verso i malati.

I ragazzi vendevano le sigarette più о meno al costo di mercato, ma ci guadagnavano lo stesso perché erano rubate e a loro non erano costate niente.

I malati avevano sempre fame di sigarette, sempre. L’amministrazione dell’ospedale, nel tentativo di bloccare questo tipo di traffico, era arrivata a seminare la paura tra i ragazzi di strada, facendo credere che potevano ammalarsi e morire, toccando i soldi dei malati. Ma i ragazzi come sempre avevano trovato una soluzione: passavano velocemente intorno alle banconote la fiamma di un accendino per «ammazzare» il batterio mortale. L’idea di fare una cosa vietata e pericolosa li attraeva ancora di più.

Le guardie dell’ospedale avevano l’ordine d’intervenire. Molte chiudevano un occhio, ma certi pezzi di merda si divertivano a mandare a monte lo scambio proprio all’ultimo: aspettavano il momento in cui il malato allungava la mano per prendere il pacchetto e, zac! strappavano il filo. Le sigarette cadevano a terra, accompagnate dal grido disperato del malato. Le guardie se la ridevano a lungo: sbirri da sgozzare come maiali, secondo me.

Io e Mei avevamo ormai attraversato già tutto il parco. Mei continuava a chiedermi scusa, e io continuavo a non considerarlo e a camminare come se fossi solo.

Improvvisamente, mentre costeggiavamo il muro del terzo blocco, mi è caduto un bullone tra i piedi. Mi sono fermato e l’ho raccolto: aveva il filo da pesca legato. Ho guardato in su: a una finestra del terzo piano era affacciato un uomo di mezza età, con la barba lunga e i capelli tutti spettinati. Mi fissava con occhi spalancati e faceva il gesto di fumare, come se tenesse tra le dita una sigaretta.

Io gli ho fatto capire che mi sarei organizzato in un momento. Mi sono girato verso Mei, che non aveva neanche capito perché mi ero fermato, e gli ho chiesto di darmi tutte le sigarette che aveva.

Mei mi ha guardato con sospetto, ma io gli ho detto in tono schifato:

– Dai, quella gente non ha da fumare, tu tra poco puoi ricomprarti un altro pacchetto.

– Ma non ho i soldi dietro!

Mi è montata una rabbia spaventosa, ma con la rabbia non si poteva ottenere niente da Mei, così mi sono calmato e gli ho detto:

– Se me le dai ti perdono e non racconto niente agli altri.

Mei, senza dire niente, ha tirato fuori dalla tasca due pacchetti di Temp, le Marlboro sovietiche.

Gli ho indicato il punto della giacca dove teneva l’accendino.

– Ma me l’hai regalato tu, non ti ricordi? – ha detto, tentando di salvare almeno quello, però nel frattempo già metteva la mano nel taschino per prenderlo.

– L’ho rubato in un chiosco a Tiraspol', te ne rubo uno più bello, con la donnina nuda sopra…

– E va bene, va bene… – Il trucco della donna nuda aveva funzionato, a Mei sembrava di aver fatto un affare. – Ma ricordalo, Kolima, con la donna nuda, l’hai promesso!

– Io mantengo sempre le mie promesse, – gli ho detto prendendo l’accendino dalla sua pesante ma ingenua mano.

Uno dei pacchetti era iniziato, mancava qualche sigaretta. Ci ho infilato dentro l’accendino e poi ho fatto passare il filo tutt’intorno, infiocchettandolo come un regalo. All’ultimo ho aggiunto la sola cosa che avevo con me, il mio fazzoletto di stoffa pulito, mettendolo tra i due pacchetti. Poi ho cominciato a tirare il filo. Quando il mio fagotto ha raggiunto la finestra, la mano dell’uomo si è allungata al di là delle sbarre e le urla di gioia sono arrivate fino a noi.

Io sono rimasto con il sacchettino dei malati tra le mani. L’ho aperto: dentro c’era una banconota tutta strappata, sporca e umida. Un rublo. Vicino, un foglio di carta con una scritta: «Scusate, non possiamo pagare di più».

Non l’ho nemmeno toccato, quel rublo, ho richiuso il sacchettino e ho mosso i due fili, per avvertire i malati. L’uomo alla finestra ha tirato il filo verso di sé, ha ripreso il suo rublo e mi ha gridato:

– Grazie di tutto!

– Che Dio vi benedica, gente! – ho risposto urlando con tutta la mia forza.

Sulla destra si è subito materializzata una guardia, che agitando il suo Kalasnikov ci ha gridato:

– Allontanarsi dal recinto, allontanatevi о sparo!

– Ma chiudi ’sta fogna di becco, fottuto sbirro di merda! – abbiamo risposto contemporaneamente io e Mei, anche se con parole un po’ diverse: ma insomma, il senso era quello.

Senza agitarci abbiamo ripreso il nostro cammino. Poi ci siamo voltati. Lo sbirro stava zitto, ci fissava con una cattiveria negli occhi che sembrava sul punto di esplodere. Dalla finestra, il malato continuava a guardarci: sorrideva e si fumava una sigaretta.

– Però quel rublo potevi anche prenderlo, – ha detto dopo un po’ Mei.

Non potevo ammazzarlo perché gli volevo bene, allora ho fatto come mi diceva sempre di fare nonno Kuzja con tutti quelli non possono capire le cose essenziali: gli ho augurato buona fortuna. Era un vero imbecille, il mio amico Mei, e lo è ancora: non è migliorato con gli anni, anzi forse è pure un po’ peggiorato.

Ormai non mancava molto al quartiere Ferrovia, dove Mei doveva portare ’sto messaggio a un criminale. Superando l’ospedale, siamo passati vicino ai magazzini alimentari. Un posto che conoscevamo bene, perché spesso ci andavamo a rubare di notte.

Era una costruzione vecchia, d’inizio secolo, composta da tanti edifici in mattoni con i muri alti e senza finestre. Davanti passava la ferrovia, così i treni si fermavano direttamente lì e i vagoni venivano scaricati о caricati in fretta.

Per rubare lì dentro non serviva l’agilità dei ladri, ma un po’ di diplomazia. Non scassinavamo mai le porte, avevamo dentro un nostro uomo, un infiltrato, una specie di talpa che ci avvertiva, segnalandoci il momento giusto. Di solito, dopo aver caricato la merce, i treni rimanevano fermi per qualche ora, i macchinisti si riposavano per poi ripartire all’alba. Cosi noi aprivamo i vagoni di notte e portavamo via la roba: era più facile lavorare sui treni che rompere le porte dei magazzini. Caricavamo tutto in macchina e filavamo via.

Quei treni andavano nei Paesi del blocco sovietico, tanti in Romania, Bulgaria e Jugoslavia. Portavano zucchero, conserve, prodotti alimentari a lunga conservazione. A volte erano già carichi a metà, con capi d’abbigliamento, cappotti caldi, tute da lavoro, guanti e uniformi militari. In certi vagoni potevi trovare anche elettrodomestici, trapani, flessibili, articoli da ferramenta, stufe elettriche, ventilatori. Quando capitava un’occasione cosi facevamo anche tre о quattro giri, per portare via il più possibile. Ma non riuscivamo mai a caricare tutto in macchina: per fortuna il nostro uomo ci lasciava depositare temporaneamente la merce in certi nascondigli del magazzino.

La nostra talpa infatti era proprio il vecchio guardiano del magazzino, un giapponese che ormai, a forza di vivere con i russi, si chiamava Boriska.

Era molto vecchio, ed era finito nella nostra città insieme ai siberiani con la seconda ondata di deportazione alla fine degli anni Quaranta, dopo la vittoria dei russi nella Seconda guerra mondiale.

Era stato fatto prigioniero di guerra nel conflitto russogiapponese, nella battaglia di Chalchin-Gol. Aveva battuto la testa ed era svenuto, poi era rimasto vivo per pura fortuna, perché sopra i cadaveri distesi a terra erano passati i carri armati russi. Dopo i carri era passata la cavalleria: lo avevano trovato H, sbandato, che girava come un fantasma in mezzo ai morti. Per pietà l’avevano preso con loro, altrimenti sarebbe stato ammazzato dai fanti che andavano in cerca di giapponesi vivi per vendicare i compagni uccisi nella notte precedente, quando le forze giapponesi avevano attaccato le prime divisioni russe.

I cosacchi non l’avevano consegnato alle forze armate, per qualche tempo lo avevano tenuto con loro, come addetto alle scuderie. Doveva pulire e accudire i cavalli dei cosacchi di Altaj, del sud della Siberia. Lo trattavano bene e tra lui e i cosacchi era nato un rapporto d’amicizia.

Boriska veniva da Iga, terra di ninja e assassini. Fin da ragazzo era stato addestrato a combattere con le armi e con le mani. Anche i cosacchi amavano i combattimenti con le armi bianche e la lotta, e cosi Boriska gli insegnava le tecniche del suo Paese e imparava le loro.

Boriska ce l’aveva con i giapponesi e soprattutto con i samurai e con l’imperatore, diceva che vivevano alle spalle del popolo, che era costretto a subire tante ingiustizie. Diceva di essersi arruolato solo per disperazione, a causa di una storia d’amore finita male. La ragazza di cui si era innamorato era stata data in sposa a un altro, ricco e potente.

L’ataman dei cosacchi, cioè il loro capo (un uomo grande e forte, un tipico siberiano del sud), gli voleva particolarmente bene. Un giorno – raccontava Boriska – lo aveva chiamato fuori dalla scuderia. Lui era uscito sul piazzale, dove i cosacchi lo aspettavano riuniti in cerchio.

«Adesso i giapponesi sono tutti morti, – aveva detto l’ata-man, – il Giappone ormai ha perso la sua guerra e tu puoi tornartene a casa. Però prima voglio che fai una cosa…» L’ataman aveva fatto segno a un giovane cosacco e quello aveva portato due spade: una era di Boriska, ce l’aveva alla cintura quando i cosacchi l’avevano salvato, e l’altra, la saska, era la tipica spada dei cosacchi siberiani, ben più pesante di quella dei cosacchi di altre parti della Russia, perché i siberiani la usavano anche per spaccare la legna. Una spada così può arrivare a pesare fino a sette chili e le persone capaci di usarla potevano, in tempi di guerra, aprire in due un uomo dalla testa alle anche.

L’ataman aveva preso quelle due spade e gli aveva detto davanti a tutti:

«Ti abbiamo trattato bene e non hai da lamentarti, ma adesso voglio sapere se tentare di occupare l’Urss ti è servito da lezione. Ecco a te le due spade. Se hai capito che fare la guerra contro di noi è stato ingiusto, spacca la tua spada giapponese con la nostra spada cosacca, e noi ti lasceremo stare con noi e sarai un cosacco anche tu. Se invece pensi che la vostra è stata una guerra giusta, spacca la nostra spada con la tua, e ti lasceremo andare libero dove vuoi e che Dio ti aiuti, non ti faremo del male».

Boriska non sapeva cosa fare. Non voleva diventare un cosacco, ma non pensava neanche che la guerra contro i russi fosse stata una cosa buona e giusta. E poi soprattutto odiava i giapponesi.

Allora aveva preso in mano la sua spada, l’aveva baciata come fanno i cosacchi con le loro spade e se l’era appesa alla cintura, al suo posto.

L’ataman lo guardava con interesse, tentando di capire cosa combinava. Molti cosacchi erano sicuri che Boriska avrebbe spaccato la loro spada.

Invece lui aveva preso la saska, aveva baciato anche quella e poi l’aveva restituita all’ataman.

Erano rimasti tutti senza parole, e l’ataman si era messo a ridere:

«Ecco, Boriska… Sei in gamba, giapponese!»

«Non sono giapponese, sono di Iga, e la mia spada è di Iga!» aveva risposto lui.

«Bene, sei davvero un brav’uomo, Boriska, non devi mai dimenticare chi sei e mai tradire la tua tradizione… Devi essere fiero, solo così conserverai la tua dignità!»

E così Boriska era rimasto con i cosacchi ancora per tanto tempo, però da quel giorno gli era stato concesso di portare sempre con sé la sua spada.

Quando i cosacchi erano tornati in Siberia, nell’Altaj, Boriska li aveva seguiti. L’ataman l’aveva ospitato in casa sua, e lì Boriska aveva incontrato la sua futura moglie, la figlia maggiore dell’ataman, Svetlana. Si erano sposati. Boriska per rispetto verso di lei si era battezzato nella fede ortodossa con il nome di Boris, per poter fare la cerimonia in chiesa. Avevano costruito la loro casa e vivevano lì, in un piccolo paese sul fiume Amur.

Poi un giorno l’ataman era stato arrestato improvvisamente dai servizi segreti di Stalin, e dopo qualche tempo fucilato come traditore. Boriska l’aveva presa malissimo, aveva pensato che fosse tutta colpa sua, invece non c’entrava niente: in quegli anni molti cosacchi erano stati presi di mira dal governo sovietico perché non condividevano le idee comuniste, e conservavano da sempre una certa simpatia verso l’anarchia e l’autonomia.

Dopo la sua morte, l’ataman era stato dichiarato «nemico del popolo», e i membri della sua famiglia erano stati deportati in Transnistria con tanti altri siberiani.

Boriska se lo ricordava ancora, quel lungo viaggio. I treni – diceva – sostavano a lungo sui binari, e non si poteva uscire perché erano sorvegliati da soldati armati. A volte capitavano vicini due treni che andavano in direzioni opposte, su uno c’era la gente della parte europea dell’Urss che veniva mandata in Siberia, e sull’altro il contrario. Lui sentiva gridare da un treno:

«Oddio, ci portano in Siberia, fa troppo freddo li, moriremo tutti!»

E dall’altro treno rispondere:

«Oh Cristo, ci mandano in Europa, niente boschi, solo colline vuote, moriremo di fame!»

In quel viaggio Boriska ha conosciuto degli Urea siberiani. Si è affiancato a loro perché erano gli unici a non sembrargli disperati: in un certo senso andavano sul sicuro, in Transnistria c’era già ad attenderli una comunità abbastanza sviluppata.

Boriska ha raccontato la sua storia a uno di loro, un uomo anziano, rispettato da tutti gli altri, e quello lo ha rassicurato: «Non aver paura, stai vicino a noi: in Transnistria ci sono i nostri fratelli. Se sei un uomo giusto, presto avrai una casa e potrai crescere i tuoi bambini assieme ai nostri figli, che il Signore ci benedica tutti…»

Gli Urea e i cosacchi erano da sempre in sintonia, andavano d’accordo: entrambi rispettavano le vecchie tradizioni, amavano la patria e la loro terra e credevano nell’indipendenza da qualsiasi forma di potere. Entrambi sono stati perseguitati da vari governi russi in epoche diverse, per la loro voglia di libertà. Solo che gli Urea erano pili estremisti, e avevano una particolare struttura gerarchica. I cosacchi invece si definivano un esercito libero e quindi avevano una struttura paramilitare; in tempo di pace si occupavano per lo più di allevamento di bestiame.

Arrivati in Transnistria, Boriska e la moglie sono stati ospitati da una famiglia di Urea, proprio come gli aveva promesso il vecchio.

Boriska si è sentito subito a casa. Per lui gli Urea avevano molto in comune con la gente della sua terra di origine, Iga. Erano uniti, estremamente anarchici e con una forte tradizione criminale.

Presto è entrato nel giro d’affari dei criminali siberiani, che lo rispettavano perché lui capiva tutto della loro legge, era un uomo di parola e giusto.

E poco alla volta è diventato uno di noi. Viveva nella nostra zona con la sua famiglia. Sua moglie, che noi tutti ormai chiamavamo nonna Svetlana, gli aveva dato due figli che seguivano la strada degli Urea.

Da vecchio, Boriska ha sfruttato un aggancio con il direttore dei magazzini alimentari che lo ha assunto come guardiano. Hanno fatto un accordo: il direttore non faceva casini quando la merce spariva e Boriska doveva dividere la sua fetta con lui. Organizzava ogni colpo alla perfezione, era molto preciso e serio, quando si trattava d’affari. Soprattutto sapeva gestire le sue emozioni molto bene, non l’ho mai visto perdere la testa.

Una volta, d’autunno, quando in ogni casa da noi la gente prepara le conserve per l’inverno e accende un gran fuoco dove mette a bollire un grosso pentolone pieno d’acqua, a casa nostra si sono riunite cinque famiglie vicine per fare insieme le conserve. Come al solito, le donne tagliavano le verdure e i legumi, e gli uomini badavano al fuoco e preparavano i barattoli di vetro. Noi bambini eravamo li vicini, giocavamo in mezzo agli adulti. C’era anche il vecchio Boriska, con suo figlio e i nipotini.

A un certo punto la staffa sotto il grosso pentolone si è spaccata in due, e il pentolone si è ribaltato e ha rovesciato fuori duecento litri di acqua bollente in un attimo. A pochi metri da li era seduto per terra un bimbo, figlio di un nostro vicino, zio Sanja. Io ero andato in giardino a cercare altri barattoli. Quando ho sentito il rumore del pentolone che si rovesciava, sono corso in casa e ho visto il vecchio Boriska prendere una grossa bacinella di lega, lanciarla a terra e saltarci dentro, scivolando come su una tavola da surf. E H, in quel vapore bianco e denso come la nebbia sul fiume di mattina, ho visto diventare piano piano sempre più visibile la figura di un uomo che stava dentro una bacinella con un bimbo in braccio, circondato dall’acqua bollente. La madre del bimbo ha perso i sensi, il padre, zio Sanja, si è messo a urlare; gli unici a essere tranquilli erano quei due, Boriska e il piccolino.

Aveva agito d’istinto, senza pensarci su, e dopo gli era tornato il solito aspetto sereno di sempre, come se facesse cose cosi quattro volte al giorno.

Era una persona molto interessante, mi piaceva parlare con lui, sentirlo raccontare le storie della sua vita. Andava spesso a pescare con una canna che si era fatto da solo, e mentre pescava stava con i piedi nell’acqua e cantava canzoni giapponesi. Quando ero piccolo me ne ha insegnata una molto bella: parlava di una montagna e di un giovane che l’attraversava per trovare la sua fidanzata.

Avevamo fatto un patto, con Boriska: quando passavamo dai magazzini dovevamo fare finta di non conoscerlo. Se lo vedevamo vicino al cancello, non dovevamo neanche salutarlo. Lui stava spesso H a fare la guardia in compagnia di un vecchio cane pastore che aveva problemi con le zampe di dietro e faceva fatica a spostarsi; tutti e due di solito erano seduti su una panchina, e mentre il cane dormiva Boriska leggeva il giornale. Di giornali Boriska ne leggeva solamente uno: la «Pravda», che significa «La verità», il giornale della propaganda comunista, che leggevano tutti quelli che volevano credere di vivere nel Paese più bello e libero del mondo. Nella «Pravda» qualsiasi notizia veniva trasformata in una fonte di pura propaganda: anche quando leggevi di disastri e guerre, alla fine ti veniva un senso di felicità e ti sentivi fortunato a essere finito in Urss. Non so come mai Boriska era così affezionato a quel giornale, una volta ho cercato di chiederglielo, e lui mi ha risposto letteralmente così:

«Quando sei costretto a sentire cantare le vacche, bisogna sfruttare almeno la possibilità di scegliere quella che canta meglio».

Passando vicino al cancello io guardavo sempre da un’altra parte, per non vedere neanche se Boriska c’era о meno, tanto non potevo salutarlo. Invece il mio amico Mei non riusciva mai a ricordarsi questa semplice ma importante regola. Fissava ogni volta il cancello, e se vedeva Boriska lo salutava agitando la mano in aria e sorridendo con quella sua faccia sfigurata. Allora io gli lanciavo un’occhiataccia e lui subito si ricordava del patto che avevamo fatto con Boriska e cominciava a darsi le botte da solo, picchiandosi la fronte con il palmo della mano. Era un trionfo d’idiozia, Mei. Non per niente nonno Kuzja diceva che uno come lui rischiava di far impazzire i matti.

Boriska si arrabbiava moltissimo, quando Mei lo salutava. Tornando a casa dal lavoro, veniva a cercare me о Gagarin e diceva con la voce piena di rabbia, però bassa, cantilenante:

«E così state bene, siete finalmente diventati ricchi!»

«Che dici? Non siamo ricchi…»

«E invece sì che siete ricchi, perché vi permettete di rifiutare di lavorare con me, di guadagnare i soldi…»

A quelle parole mi venivano i capelli dritti. Rifiutare di lavorare con Boriska significava dire addio alla metà dei nostri guadagni.

«Non abbiamo fatto niente, zio Boriska».

«Niente, come no. Insegnate a quell’imbecille del vostro amico come ci si comporta. E se non ci arriva, non portatelo più davanti ai magazzini, fate il giro largo piuttosto…»

Noi parlavamo con Mei, gli rispiegavamo tutto da capo, ma era inutile. La volta dopo, appena ci avvicinavamo ai magazzini, cercava il vecchio per salutarlo. Era come una punizione per noi, la sua presenza.

Un giorno, passando vicino a casa di Boriska, nel nostro quartiere, ci siamo fermati per scambiare due parole con lui. Mentre parlavamo, ci siamo accorti che Mei stava lontano, dall’altra parte della strada, girato di schiena. Boriska ci ha guardati tutti quanti, poi ha indicato lui, e la faccia gli è diventata a un tratto molto seria.

«Per il vostro bene, sbarazzatevi del vostro amico, – ci ha detto. – Non portatevelo più dietro, farà solo guai. Anzi, sono disposto a pagarlo purché se ne stia a casa e non vada in giro».

Io gli ho detto, facendo finta di non capire:

«Ma zio Boriska… E vero, Mei è un po’ stordito, però è un bravo ragazzo».

Boriska mi ha guardato come se gli avessi parlato in una lingua che non capiva.

«Un po’ stordito, dici? Ma guardalo: è un disastro, quello! Neanche lui sa che cosa sta succedendo dentro la sua testa! Sentite, io vi voglio bene, per questo vi dico le cose come stanno. Voi siete ancora giovani, il vostro amico adesso vi fa ridere, ma presto combinerà tanti di quei guai che vi farà piangere».

Che parole sante erano quelle, peccato che l’ho capito troppo tardi, molti anni dopo.

Quando ce ne siamo andati ho chiesto a Mei perché se n’e-ra stato in disparte. Lui mi ha fatto una faccia da torturato, piena di sofferenza, e ha detto quasi piangendo:

«Prima mi dite di non salutarlo, poi lo saluto e mi sgridate, dopo non lo saluto e mi sgridate lo stesso! Io non ci capisco più niente, per me può anche non esistere ’sto Boriska!»

Io ho riso, ma aveva ragione Boriska: c’era poco da ridere. E avremmo dovuto capirlo da tempo.

Quando avevamo una decina d’anni, siamo andati al cinema a vedere un film che si chiamava Lo scudo e la spada. Il protagonista, un agente segreto sovietico, si esibiva in varie scene d’azione, sparando ai nemici capitalisti con la sua silenziosa pistola e facendo un sacco d’acrobazie. Quello rischiava la vita come se stesse facendo una cosa normale, di routine, per combattere l’ingiustizia nei Paesi della Nato. Era una specie di risposta nostrana ai tanti film americani e inglesi sulla guerra fredda, dove di solito i sovietici apparivano come stupide e incapaci scimmie che giocavano con la bomba atomica e volevano distruggere il mondo. Noi, nonostante il divieto dei nostri vecchi, eravamo andati a vederlo nell’unico cinema della città (non c’era ancora il secondo cinema, destinato a durare pochissimo, distrutto nella guerra del ’92: proprio lì dentro si piazzeranno i militari rumeni, e i nostri padri per ucciderli faranno saltare in aria di notte tutto il complesso, insieme al ristorante e alla gelateria). Bene, in quel film a un certo punto il protagonista saltava dal tetto di un palazzo altissimo usando un grande ombrello al posto del paracadute, per poi atterrare comodamente e senza danni. In poche parole, faceva quello che ha sempre fatto Mary Poppins.


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