Текст книги "Сибирское воспитание"
Автор книги: Николай Лилин
Жанр:
Криминальные детективы
сообщить о нарушении
Текущая страница: 3 (всего у книги 24 страниц)
– E poi, perché fanno finta di essere neri americani e non, per dire, coreani del Nord о palestinesi? Te lo dico io perché: questa è sporcizia che arriva dal diavolo, attraverso la televisione, il cinema, i giornali e tutte le porcherie che una persona degna e onesta non tocca mai… L’America è un Paese maledetto dimenticato da Dio, e ogni cosa che esce da lì dev’essere ignorata, invece questi stupidi si divertono a giocare agli americani, tra un po’ cominceranno pure a parlare urlando come scimmie…
Nonno Kuzja odiava tutto ciò che era americano perché, come tutti i criminali siberiani, si opponeva a quello che rappresentava il potere nel mondo. Quando sentiva parlare di gente fuggita in America, di tanti ebrei che negli anni Ottanta avevano fatto una grandiosa fuga dall’Urss, diceva stupito:
– Ma come mai vanno tutti in America dicendo che cercano la libertà? I nostri antenati si sono rifugiati nel bosco, in Siberia, mica sono andati in America. E poi perché fuggire dal regime sovietico per finire in quello americano? Sarebbe come se un uccello scappato dalla gabbia andasse volontariamente a vivere in un’altra gabbia…
Per questi motivi, a Fiume Basso era vietato usare qualsiasi cosa americana. Le macchine americane, che circolavano liberamente per tutta la città, non potevano entrare nel nostro quartiere, e così erano banditi i capi di abbigliamento, gli elettrodomestici о qualsiasi altro oggetto «made in Usa». Per me personalmente quest’aspetto era abbastanza doloroso, dato che io avevo un debole per i jeans: mi piacevano, ma non li potevo mettere. Ascoltavo di nascosto la musica americana, mi piaceva il blues, il rock e il metal, ma rischiavo di grosso a tenere in casa i dischi e le cassette; quando mio padre faceva ispezione nei miei nascondigli e li trovava scatenava un inferno, mi picchiava e mi obbligava a rompere tutte le registrazioni con le mie mani davanti a lui e al nonno, e poi per una settimana di seguito ogni sera dovevo suonare con la fisarmonica per un’ora a lui e agli altri membri della famiglia le melodie russe, e cantare le canzoni popolari о criminali russe.
Io non ero affascinato dalla politica americana, solo dalla musica e dai libri di qualche scrittore. Una volta, scegliendo il momento giusto, ho provato a spiegarlo a nonno Kuzja: speravo che lui con i suoi poteri potesse intercedere per me e ottenere il permesso di farmi ascoltare la musica e leggere i libri americani senza dovermi nascondere dai miei famiglia-ri. Mi ha guardato come se l’avessi tradito e ha detto:
– Figliolo, lo sai perché quando c’è la peste la gente brucia tutto ciò che apparteneva ai malati?
Io ho fatto un gesto negativo con la testa. Ma già immaginavo dove voleva andare a parare.
Lui ha fatto un triste sospiro e ha concluso:
– Il contagio, Nicolai, il contagio.
E cosi, dato che tutto ciò che era americano era vietato, com’era vietato esibire la ricchezza e il potere attraverso le cose materiali, la gente del nostro quartiere si vestiva molto umilmente. Noi ragazzi eravamo messi proprio male con l’abbigliamento, ma ne eravamo anche orgogliosi, portavamo come trofei le scarpe vecchie di nostro padre о dei nostri fratelli più grandi, i loro vestiti fuori moda, che dovevano sottolineare l’umiltà e la semplicità siberiana.
Era impressionante come i nostri vecchi gestivano il denaro. Eravamo una comunità antica e molto ricca, le case nella nostra zona erano enormi, la gente avrebbe potuto vivere «alla grande», come si dice da noi e da voi, godersi fino in fondo la vita, invece il denaro veniva usato in maniera strana: niente vestiti, gioielli, macchine costose, giochi d’azzardo; i siberiani spendevano volentieri i loro soldi solo per due cose: armi e icone ortodosse. Eravamo tutti pieni di armi, e anche di icone, che costavano tantissimo.
Per il resto eravamo umili, umili e in divisa. D’inverno portavamo tutti pantaloni imbottiti, neri о blu scuro, molto caldi e comodi. Le giacche erano di due tipi: о la classica fufajka imbottita con cui ai tempi dell’Urss si vestiva metà della popolazione, perché era la giacca che davano ai lavoratori, о la tulup, con un enorme collo di pelliccia che si poteva alzare fino agli occhi per proteggersi dal freddo più forte. Io portavo la fufajka, perché era più leggera e mi permetteva di muovermi abbastanza bene. Le scarpe erano pesanti, imbottite di pelliccia, e si usavano anche lunghe calze di lana per non rischiare il congelamento. In testa si portava il cappello di pelliccia: io ne avevo uno bellissimo, di ermellino bianco, molto caldo, leggero e comodo.
D’estate mettevamo normali pantaloni di stoffa, sempre con la cintura, secondo la regola siberiana. La cintura è legata alla tradizione dei cacciatori, per i quali era ben più di un portafortuna: era una richiesta d’aiuto. Se un cacciatore si perdeva nel bosco, о gli succedeva qualcosa, legava la cintura al collo del suo cane e lo mandava a casa; così, quando gli altri vedevano tornare il cane capivano che era nei guai.
Insieme ai pantaloni si portava una camicia, di solito bianca о grigia, con il collo dritto e i bottoni sulla destra, che si chiama kosovorotka, «colletto storto». Sopra la camicia giacche leggere, grigie о nere, molto grezze, all’uso militare. E sulla testa infine il mitico cappello dei criminali siberiani, una specie di bandiera, chiamato «otto triangoli». E fatto da otto pezzi di stoffa cuciti insieme in modo da formare una specie di cupola con un bottone in cima; ha anche una piccola visiera. Il colore non può che essere chiaro, se non bianco. In Russia questo tipo di cappello si chiama kepka, e ne esistono molte varietà. Otto triangoli è solo la variante siberiana. Il vero otto triangoli di un criminale audace e scaltro deve avere la visiera piegata bene, arrotondata, mai rotta, che fa uno spigolo a metà. In segno di disprezzo la si spacca al nemico, piegandola finché non si deforma.
Il mio otto triangoli me l’aveva regalato mio zio, era un cappello vecchio e mi piaceva proprio per questo. Ma avevo la testa piccola, e per farlo stare su dovevo mettermelo dietro le orecchie: la cosa mi preoccupava molto perché credevo che a furia di portarlo le mie orecchie si sarebbero allargate per sempre, però non avevo scelta: о dietro le orecchie о quello mi copriva metà della faccia. Un giorno mia mamma lo ha preso e lo ha adattato alla mia testa, e quello è stato proprio un bel giorno.
L’otto triangoli era un cappello cosi importante che raccontava storie e generava modi di dire. In gergo criminale la frase «portare otto triangoli» vuol dire compiere un crimine о partecipare alla gestione di affari criminali. La frase «tenere otto triangoli dritti» significa stare all’erta, essere preoccupati per qualche pericolo. «Mettere otto triangoli sulla nuca», invece, significa avere un comportamento aggressivo, prepararsi a un’aggressione. «Otto triangoli messo storto» vuol dire mostrare un comportamento tranquillo, rilassato. «Mettere otto triangoli sugli occhi» significa annunciare la necessità di sparire, nascondersi. «Riempire otto triangoli» significa prendere qualcosa in abbondanza.
Spesso io riempivo davvero il mio cappello, ad esempio quando noi ragazzi andavamo a trovare zia Marta, una donna che abitava da sola in riva al fiume ed era famosa per le sue marmellate. Le portavamo le mele che avevamo rubato dai giardini delle fattorie collettive dall’altra parte del fiume, e l’aiutavamo a pulirle, per fare la marmellata. Preparava i pirozki, piccoli biscotti che riempiva di marmellata. Ci mettevamo tutti in cerchio seduti su piccoli sgabelli nel cortile davanti a casa sua, con la porta della cucina spalancata, dove bolliva sempre qualcosa sul fuoco; pescavamo le mele dai sacchi, le sbucciavamo con i nostri coltelli e poi le buttavamo in un grosso pentolone con l’acqua dentro. Quando quello era pieno, lo portavamo in casa tutti quanti, usando due lunghe assi di legno che agganciavamo al pentolone come maniglie. Zia Marta ci voleva bene, ci dava da mangiare in abbondanza, tornavamo sempre a casa con le pance piene e con i pirozki tra le mani. Io i miei li mettevo nel cappello e li mangiavo mentre camminavo.
Al cappello a otto triangoli sono dedicate molte opere della tradizione criminale: proverbi, poesie, canzoni. Siccome io passavo tanto tempo con i vecchi criminali, ad ascoltarli cantare о recitare poesie, ne sapevo molte a memoria. Una canzone, la mia preferita, diceva cosi:
Ricordo, portavo un cappello a otto triangoli,
bevevo vodka e fumavo un tabacco un po’ forte,
ero innamorato della mia vicina Nina
e con lei andavo al ristorante.
Portavo uno scaber[3]3
Coltello-baionetta usato per andare all’arrembaggio delle navi sui fiumi.
[Закрыть] dentro i miei scricchiolanti chromacij[4]4
Cioè «lucidati»: cosi vengono chiamati gli stivali.
[Закрыть],
sotto la camicia una tel'njaska[5]5
Maglia da marinaio a righe bianche e blu, con le maniche lunghe.
[Закрыть],
regalo di ladri di Odessa…
L’otto triangoli era al centro di tutto: lo si nominava di continuo, si scommetteva su di lui in varie situazioni. Spesso nei discorsi tra criminali, sia minorenni che adulti, capitava di sentire la frase: «Che il mio cappello a otto triangoli prenda fuoco sulla mia testa se non è vero quel che dico», о «Che il mio cappello voli via dalla mia testa», oppure la variante più macabra: «Che il mio cappello mi soffochi a morte».
Nella nostra società era vietato giurare, era considerata una specie di debolezza, un’offesa verso se stessi, perché chi giura insinua che quel che sta dicendo non è vero. Ma tra ragazzi, parlando, tante volte i giuramenti scappavano, e si giurava sul proprio cappello. Non si doveva mai giurare sulla madre, sui genitori e parenti in genere, su Dio e sui santi. Né sulla propria salute о ancor peggio sulla propria anima, perché veniva considerato come un «danneggiamento alla proprietà di Dio». Non restava che sfogarsi sul proprio cappello.
Una volta il mio amico Mei ha giurato sul suo cappello di fronte a tre ragazzi della nostra banda, me compreso, che avrebbe «infilato il suo otto triangoli nel culo di Amur», (così si chiamava il cane di zio Peste, un nostro vicino), se non riusciva a saltare il cancello della scuola da fermo, in un balzo.
Anche a ripensarci adesso non ho la più pallida idea di come Mei credesse di poter saltare ’sto cancello, e perché fosse così convinto di superare con un solo balzo un ostacolo di quattro metri d’altezza. Ma quello che mi preoccupava di più, allora, era come avrebbe eseguito l’operazione con il cappel lo nel caso avesse perso la scommessa, dato che Amur era il cane più grosso e cattivo del nostro quartiere: aveva una fama terribile, era un incrocio tra un pastore tedesco e la razza di cani che da noi in Siberia viene chiamata Alabaj, «schiaccia lupi». Di solito Amur gironzolava tranquillo nel cortile del suo padrone, ma a volte diventava incontrollabile, soprattutto se sentiva il rumore di un fischietto. Gli avevano già sparato due volte, dopo che aveva aggredito qualcuno, ma lui era sopravvissuto perché, come diceva mio padre, «più spari a quella bestia, più diventa forte». Personalmente a me quel mostro di cane faceva un casino di paura, una volta l’avevo visto attraversare il fiume e uccidere una capra sbranandola come se fosse fatta di stracci.
Beh, l’idea di Mei mi sembrava più che sciocca per i motivi che ho appena spiegato. Ma una volta detta, la parola non poteva essere rimangiata, e non rimaneva che assistere a quel folle spettacolo di cui Mei, per sua pura idiozia, era sia regista che attore.
Così ci siamo diretti verso il cancello della scuola.
Mei ha fatto un tentativo, ha saltato mezzo metro, battendo il naso contro il cancello. Dopo, seduto in terra, ha tratto le sue conclusioni:
«Accidenti, è veramente alto, non riuscirò mai…»
Io lo guardavo e non riuscivo a credere che una persona fatta di carne e ossa come tutti noi potesse essere così ingenua. Tentando di salvare la situazione, ho detto che era stato tutto molto divertente e che adesso potevamo anche tornarcene a casa. Ma lui mi ha ammazzato con la sua stupidità, dicendo che per una questione d’onore ora doveva tenere fede al giuramento.
Mi veniva da ridere e piangere contemporaneamente. Gli altri due miei amici, Besa e Gigit, invece erano entusiasti e già si figuravano tutti i modi in cui Mei avrebbe potuto avvicinarsi al cane ed eseguire il suo piano maledetto con la massima efficienza: camminavano davanti a me, spiegando a Mei tutti i dettagli della cosa, e io come un fantasma mi trascinavo dietro.
Una volta arrivati di fronte alla casa di Peste, Mei ha scavalcato il recinto e si è buttato nel cortile. Peste non era in casa, era andato a pescare: mancava la rete che di solito veniva stesa lungo il recinto.
Amur stava accucciato vicino alla porta: con una leggera ironia sulla sua faccia brutalmente orrenda ci fissava con interesse per capire come avremmo organizzato la penetrazione del suo ano con il cappello a otto triangoli.
Mei si era portato una corda per legare il cane, e aveva anche un tubetto di vaselina che degli amici avevano chiesto a zia Natalia, l’infermiera, per rendere più efficace il passaggio del cappello nella carne di cane. Mei si avvicinava a lui e quello non faceva una mossa, lo guardava con i suoi occhi indifferenti e pieni di noia, come se stesse guardando attraverso di lui. A ogni passo Mei prendeva più coraggio, se prima sembrava aver paura di fare movimenti forti e decisi e si spostava piano, come una tartaruga, gli ultimi passi invece li ha fatti quasi saltando, tutto contento che il cane non reagiva.
Quando tra Mel e Amur non c’erano che un paio di metri, Gigit si è messo due dita in bocca e ha fatto un forte fischio, provocando un rumore così fastidioso che pure a me è venuta la cresta dritta. In pochi istanti ho visto Mei volare magicamente oltre il recinto, passare sopra la mia testa e atterrare sul marciapiede, battendo la fronte contro l’asfalto bollente, scaldato dal generoso sole d’estate. Subito dopo, il cancello si è spostato sotto il peso del corpo di Amur, che ci sbatteva forte contro, accompagnando la sua rabbia con uno strano verso che io non avevo mai sentito prima da nessun essere vivente. Era una specie di urlo umano mischiato a un disperato e rabbioso coro di voci animali. Come se un elefante, un leone, un lupo, un orso e un cavallo avessero gareggiato a chi grida di più. Se in quel momento mi avessero chiesto quale voce poteva avere il demonio, avrei detto quella di Amur.
Mei aveva i pantaloni strappati sul sedere, e sotto si vedevano strisce rosse di sangue, le tracce della zampata di Amur. Era terrorizzato e ancora non capiva cosa gli fosse successo, invece Gigit e Besa si rotolavano a terra dal ridere e continuavano a fischiare, per scatenare ancora di più il cane, che dall’altra parte del cancello continuava a sputare schiuma e lanciare i versi della sua rabbia animale.
Il cancello era chiuso, per fortuna, perché se fosse stato aperto sicuramente Amur ci avrebbe fatti a pezzi tutti quanti.
Mei alla fine ha perso la sua scommessa, ma noi, dopo uno spettacolo così divertente, l’abbiamo perdonato.
A dodici anni finii in un casino. Fui processato per «minacce in luogo pubblico», «tentato omicidio con gravi conseguenze» e, ovviamente, per «resistenza a un rappresentante del potere nell’adempimento dei doveri di difesa dell’ordine pubblico». Era il mio primo processo penale, e date le circostanze (ero un ragazzino e la vittima era un pregiudicato più grande di me di un paio d’anni) il giudice decise di limitarsi a una condanna che da noi in gergo viene chiamata «coccola». Niente prigione, nessun obbligo di frequentare quei programmi di rieducazione e balle varie dopo i quali la gente di solito diventa ancora più incarognita e arrabbiata. Era solo necessario seguire una specie di coprifuoco personale: restare in casa dalle otto di sera fino alle otto di mattina, presentarsi ogni settimana nell’ufficio minorile e frequentare la scuola.
Dovevo vivere cosi per un anno e mezzo, dopo avrei potuto tornare alla vita normale. Ma se nel frattempo commettevo qualche reato finivo dritto dritto sulle brande di un carcere minorile, о come minimo in una colonia rieducativa.
Per un anno è andato tutto liscio, cercavo di tenermi il più possibile lontano dai guai; certo, spesso uscivo di notte, perché ero sicuro di non venire scoperto. L’importante, mi dicevo, era non farsi beccare in un posto lontano da casa nell’orario sbagliato e soprattutto non farsi trovare immischiato in qualche questione seria.
Ma un pomeriggio Mei e altri tre amici sono venuti da me. Ci siamo riuniti in giardino, sulla panca sotto l’albero, per discutere di una grana capitata una settimana prima con un gruppo di ragazzi di Tiraspol'. Avevamo un amico, un ragazzo che si era trasferito nel nostro quartiere di recente; la sua famiglia era stata costretta a lasciare San Pietroburgo perché il padre aveva avuto problemi con la polizia. Erano ebrei, ma viste le circostanze particolari, e qualche affare comune, i siberiani avevano garantito la loro protezione.
Il nostro amico aveva tredici anni e si chiamava Lyéza, un vecchio nome ebraico. Era un ragazzo molto chiuso e debole: aveva problemi di salute, era quasi sordo e portava occhiali enormi, quindi nella comunità siberiana è stato subito trattato con compassione e comprensione, come tutti i disabili. Mio padre ad esempio non faceva che raccomandarmi di badare a lui e di tirare fuori la lama nel caso qualcuno lo aggredisse о lo offendesse. Lyéza era molto istruito, aveva maniere raffinate e parlava sempre con serietà, tutto quello che diceva sembrava convincente. Non a caso l’avevamo subito battezzato con un soprannome alla sua altezza: «il Banchiere».
Lyéza girava sempre con noi, non portava mai coltelli о altre armi e non era capace nemmeno di fare a pugni, però sapeva tutto, era una specie di enciclopedia vivente, raccontava in continuazione le storie che si trovano sui libri: come vivono e si moltiplicano gli insetti, come si formano i bran-chi degli animali, perché gli uccelli migrano, cose cosi. Mi ricordo che una volta è riuscito a fare l’impossibile, e cioè a spiegare a Mei come si riproducono i vermi ermafroditi: ci ha messo parecchio tempo, però alla fine ce l’ha fatta, Mei girava come fulminato, come se avesse visto Gesù, Dio Padre e la Madonna tutti in una volta, e diceva:
«Ma tu pensa che storia! I vermi non hanno una famiglia! Niente papà e mamma, fanno tutto da soli!» Far capire qualcosa, anche una piccolissima cosa, al mio amico Mei era segno di grandi qualità umane e intellettuali.
Mei e gli altri tre miei amici, Besa, Gigit e Tomba, mi hanno raccontato che Lyèza era andato da solo a Tiraspol', al mercatino settimanale dell’usato, per scambiare dei francobolli, visto che lui era un appassionato collezionista. Al ritorno, in pullman, era stato aggredito da un branco di coglioni che lo avevano picchiato (per fortuna non tanto forte, solo qualche schiaffo) e gli avevano fregato il suo album di francobolli. Mi era salita la carogna, cosi abbiamo fissato per la sera stessa un appuntamento con gli altri minori del nostro quartiere, per fare una spedizione punitiva a Tiraspor.
Tiraspor era la capitale della Transnistria, si trovava a una ventina di chilometri da noi, sul lato opposto del fiume. Era una città più grande della nostra, e molto diversa. La gente di Tiraspor stava lontana dal crimine, li c’erano tante fabbriche di armi, reparti militari e uffici vari, quindi gli abitanti erano tutti lavoratori о militari. Avevamo un pessimo rapporto con i ragazzi di quella città, li chiamavamo «mammoni», «caproni», «senza palle». A Tiraspor non vigevano le leggi crimina li di onestà e rispetto tra le persone, e i minori si comportavano da veri e propri animali. Non a caso nessuno di noi si era sorpreso di quello che era successo a Lyèza: a Tiraspol' essere aggrediti da qualche gruppetto di bastardi era la norma.
Siamo andati a casa di Lyèza per vedere come stava e chiedergli se gli andava di venire con noi per aiutarci a riconoscere gli aggressori. Abbiamo spiegato a suo padre che saremmo andati a Tiraspol' per compiere un atto di giustizia, per punire coloro che avevano aggredito suo figlio. Suo padre gli ha dato il permesso di seguirci e ha augurato fortuna a tutti quanti: era molto contento che Lyèza avesse degli amici come noi, perché rispettava profondamente la filosofia siberiana di fedeltà al gruppo.
Lyéza non ha detto niente, ha preso la giacca ed è uscito con noi. Insieme siamo tornati a casa mia, dove abbiamo progettato tutto.
Verso le otto di sera una trentina di amici si sono radunati H davanti. Mia madre ha capito subito che stavamo per combinare qualche guaio:
– Forse è meglio che stai tranquillo, non puoi rimanere a casa?
Cosa dovevo risponderle?
– Dài, non ti preoccupare, mamma, facciamo un giro veloce e poi torniamo…
Povera mamma mia, non ha mai osato opporsi alle mie decisioni, anche per questo ha sofferto tanto.
Ma noi avevamo una meta: a Tiraspol' c’era un posto, in mezzo a un parco della periferia, dove di sera si radunavano tutti i deficienti della città. Si chiamava «il Poligono». Li di solito i minorenni giravano con i motorini, cuocevano carne alla griglia, consumavano alcol e droga in libertà fino a tarda notte.
Va detto che anche se in quel posto c’erano sempre tante persone, noi ci andavamo con la certezza di ottenere giustizia e seminare caos e distruzione, perché sapevamo bene che tra la gente di quella città non si usava essere uniti nel male: facevano gruppo solo per combinare guai e per divertirsi, ma quando arrivava il momento di pagare i conti ognuno se ne andava per la sua strada.
Per non dare nell’occhio siamo arrivati in città con il pullman di linea, poi, divisi in gruppi di cinque, ci siamo incamminati verso il parco.
Il mio amico Mei mi ha mostrato una pistola a tamburo a cinque colpi, un’arma vecchia, di piccolo calibro, che io chiamavo affettuosamente «la preistorica».
– Gliela farò vedere, stasera! – ha detto con un sorriso largo, e si capiva chiaramente che non vedeva l’ora di fare qualcosa di brutto.
– Cristo Santo, Mei, mica andiamo in guerra! Nascondi ’sta merda che non la voglio neanche vedere… – Non mi piaceva proprio l’idea di tirar fuori le pistole. Un po’ perché secondo la nostra educazione un’arma da fuoco si usa solo in casi estremi, ma soprattutto perché se viene fuori che alla prima occasione tu ti aggrappi alla pistola, poi la gente parla male di te. Fin da piccolo ho imparato da mio zio che la pistola è uguale al portafoglio, si tira fuori solo per usarla, tutto il resto è da imbecilli.
– Ma è pericoloso andare senza, chissà quanto ferro hanno addosso quelli, sono preparati… – Mei cercava di convincermi che il suo comportamento aveva senso.
– Immagino come sono preparati, tutti già strafatti, fumati e con i buchi nelle vene… Ma per la passione di Cristo, Mei, sono alcolizzati о tossici, si cagano sotto quando vedono la loro stessa ombra, non ti vergogni a tirar fuori il ferro davanti a loro?
– E va bene, non la uso, però la terrò pronta, e se la situazione precipita…
Io lo guardavo come fosse un malato mentale, era impossibile spiegargli qualcosa.
– Mei, te lo giuro, l’unica persona che stasera potrà far precipitare la situazione sei tu, con la tua cazzo di pistola! Se ti vedo usarla, puoi non salutarmi mai pili, – ho tagliato corto.
– Va bene, Kolima, non ti arrabbiare, non la userò, se non ti va. Però sappi che ognuno è libero di fare quello che gli pare —. Il mio amico cercava d’insegnarmi la nostra legge.
– Certo, come no, ognuno è libero di fare quello che gli pare quando è da solo, però se è con gli altri deve stare in riga, quindi niente più discussioni… – Io ci tenevo ad avere sempre l’ultima parola, con Mei, solo cosi potevo sperare che gli rimbalzasse in testa come una pallina di gomma.
Arrivati al parco, il gruppo s’è riunito. I «principali», cioè quelli che avevano la responsabilità dei minori, eravamo so lo io e Jurij, detto «Gagarin», che aveva tre anni più di me. Dovevamo decidere come fare a individuare con esattezza gli aggressori di Lyéza, e come spingerli a venire allo scoperto.
– Prendiamone un paio, due qualsiasi, e minacciamo di ammazzarli se gli aggressori non si fanno vedere! – ha proposto Besa, che nella strategia era paragonabile a un carro armato: andava avanti piegando anche gli alberi.
– E sai che succede? In tre secondi scappano tutti e noi ci ritroviamo tra le mani due idioti strafatti che non c’entrano nulla…
Io avevo un piano da proporre, però volevo farlo con delicatezza, perché per come la vedevo io, il suo esito dipendeva tutto da Lyèza.
– … Sentite, scalzi, ho un’idea che funzionerà di sicuro, ma serve il coraggio di una persona. Il tuo, Lyèza. Serve che tiri fuori le palle —. L’ho guardato, sembrava proprio quello che era: uno che non c’entrava niente col nostro branco. Con la giacca perfettamente abbottonata, le lenti spesse che lo rendevano un mostro e i capelli tagliati alla maniera degli attori degli anni Cinquanta, era completamente fuori dalla scena. Lyèza mi si è avvicinato, per sentire meglio quello che stavo per dire. – Devi andare lì da solo, cosi quei bastardi ti vedono e sicuramente faranno qualcosa, si faranno riconoscere. Noi circondiamo la zona e stiamo dietro gli alberi, pronti ad agire… Tu appena li riconosci grida, fai un fischio, e noi gli saltiamo addosso in un baleno. Il resto è già nelle mani del Signore…
– Niente male, Kolima, un bel piano, se Lyèza è d’accordo, – ha commentato Gagarin guardando Lyèza in attesa della sua reazione.
Lyèza si è aggiustato gli occhiali sul naso, e con la voce decisa e determinata ha detto:
– Certo che sono d’accordo. Solo che dopo, quando ci sarà casino, non so come fare, non credo che riuscirò a picchiare qualcuno, non l’ho mai fatto in vita mia…
Mi faceva impressione la dignità con cui quel ragazzo diceva la verità su se stesso. Non aveva nessuna paura, spiegava solamente i fatti. Il mio rispetto verso di lui cresceva sempre di più.
– Quando saltiamo fuori dagli alberi tu nasconditi dietro, Besa ti starà vicino nel caso qualcuno avesse voglia di prendersela con te, – Gagarin ha fatto un gesto a Besa indicando gli occhi, poi ha puntato le due dita su Lyèza. – Dalla sua testa non deve cadere nemmeno un capello!
Ci siamo diretti verso il centro del parco. Camminando nel buio, abbiamo evitato il vialetto principale. Siamo arrivati agli alberi dietro cui si apriva lo slargo asfaltato con le panchine disposte in cerchio, sotto la luce gialla e sporca di tre lampioni. Il Poligono.
Si sentiva la musica, si vedevano i ragazzi seduti sulle panchine, per terra, sui motorini. Erano una cinquantina, tra loro c’erano anche delle ragazze. L’atmosfera era molto rilassata.
Ci siamo divisi in sei gruppi e abbiamo circondato l’area. Al momento giusto ho dato una leggera spallata a Lyéza:
– Dai, fratellino, facciamogli vedere che con quelli di Fiume Basso non si scherza…
Lui ha fatto si con la testa ed è partito in direzione del campo nemico.
Appena Lyéza è uscito allo scoperto, tra i presenti c’è stato un forte movimento. Qualcuno si è alzato dalla panchina e lo ha esaminato con curiosità, altri ridevano, indicandolo. Una ragazza ha urlato come una matta, in preda alle risa e al singhiozzo allo stesso tempo. Era visibilmente ubriaca. La sua voce mi ha fatto subito schifo, mi pareva quella di un’adulta alcolizzata, rovinata dal fumo, molto grezza e per niente femminile:
– Guarda, Pelo! C’è quel finocchio del pullman! E tornato a prendere i suoi francobolli!
La ragazza non pronunciava bene la «r», cosi la sua parlata aveva pure una sfumatura comica.
Noi eravamo tutti attenti, pronti a scattare non appena avessimo individuato il tipo a cui si era rivolta. Non ci ha fatto aspettare tanto. Da una panchina vicina, strapiena di ragazzi, si è alzato uno che stava suonacchiando una chitarra, e mettendo da parte lo strumento è partito verso Lyèza con un passo leggero e teatrale, spalancando le braccia come si fa per accogliere un vecchio amico.
– Ma guarda chi si rivede! Piccolo bastardo! Hai deciso di suicidarti, stasera?… – Il resto non è riuscito a sputarlo fuori, perché dal buio è apparsa la figura di Gigit che come una tigre si è scagliato su di lui e lo ha atterrato dandogli una veloce serie di calci violenti in faccia. Sono saltato fuori dagli alberi anch’io, in un attimo eravamo tutti sul piazzale e abbiamo circondato i nostri nemici.
Tra di loro si era sparso il panico, alcuni si buttavano prima da una parte e poi dall’altra tentando di scappare, ma appena si trovavano di fronte a uno di noi si ritiravano. A un certo punto fra quelli del Poligono è partito un gruppo di «decisi», ed è cominciata davvero la rissa.
Ho visto balenare molti coltelli e anch’io ho tirato fuori la mia picca. Gigit mi è venuto vicino, e spalla contro spalla siamo avanzati, colpendo in tutte le direzioni ed evitando i pochi attacchi che partivano verso di noi.
Tanti di loro, sfruttando il momento, hanno cominciato a scappare. La ragazza che urlava era talmente ubriaca che è caduta mentre correva, e qualcuno dei suoi amici le ha calpestato la testa: l’ho sentita gridare e poi ho visto il sangue sui suoi capelli.
Alla fine siamo rimasti contro una ventina di loro, e come si dice da noi «li abbiamo pettinati» per bene, nessuno è rimasto in piedi, erano tutti in terra, molti avevano tagli sulla faccia о sulle gambe, alcuni i legamenti delle ginocchia recisi.
Di solito Mei alla fine di ogni rissa, quando capiva che non c’era più nessuno da battere ed era arrivato il momento di fermarsi, faceva una specie di esibizione della sua forza fisica (era una vera bestia, a tredici anni pesava quasi ottanta chili ed era fatto solo di muscoli, tranne quello del cervello). Per lui era un modo di finire in bellezza la battaglia: far vedere al mondo che era scatenato, aggressivo e più cattivo di tutti. In poche parole faceva una sceneggiata.
Urlando come un mostro inferocito e facendo strane mosse con la sua bruttissima faccia, ha preso un motorino che riposava pacifico sul suo cavalletto, lo ha alzato al livello del petto e dopo aver corso per cinque-sei metri lo ha buttato sopra un gruppo di nemici, che si trovavano insieme agli altri nella posizione orizzontale a cui li avevamo costretti, e cioè sdraiati sull’asfalto a massaggiarsi le ferite.