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Сибирское воспитание
  • Текст добавлен: 6 октября 2016, 04:48

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Автор книги: Николай Лилин



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Nicolai Lilin
Educazione siberiana

«C’è chi si gode la vita, c’è chi la soffre, invece noi la combattiamo».

ANTICO DETTO DEGLI URCA SIBERIANI

Lo so che non andrebbe fatto, ma ho la tentazione d’iniziare dalla fine.

Ad esempio, da quel giorno in cui correvamo tra le stanze di un edificio distrutto sparando al nemico da distanza così ravvicinata che potevamo quasi toccarlo con la mano.

Eravamo sfiniti. I paracadutisti si davano i turni, noi sabotatori invece non dormivamo da tre giorni. Andavamo avanti come le onde dell’acqua, per non dare al nemico la possibilità di riposare, di eseguire le manovre, di organizzarsi contro di noi. Combattevamo sempre, sempre.

Quel giorno sono finito all’ultimo piano dell’edificio con Scarpa, per cercare di eliminare l’ultimo mitra pesante. Abbiamo lanciato due bombe a mano.

Nella polvere che scendeva dal tetto non si vedeva niente, e ci siamo trovati davanti quattro nemici che come noi giravano come gattini ciechi nella nuvola grigia, sporca, che puzzava di macerie e di esplosivo bruciato.

Da così vicino, li in Cecenia, non avevo mai sparato a nessuno.

Intanto al primo piano il nostro Capitano aveva preso un prigioniero e steso otto nemici, tutto da solo.

Quando sono uscito fuori con Scarpa, ero completamente stordito. Il Capitano Nosov stava chiedendo a Mosca di tenere d’occhio il prigioniero arabo, mentre lui, Mestolo e Zenit andavano a controllare la cantina.

Mi sono seduto sulle scale, vicino a Mosca, davanti al prigioniero impaurito, che continuava a tentare di comunicare qualcosa. Mosca non lo ascoltava, aveva sonno ed era stanco, come tutti noi. Appena il Capitano gli ha girato la schiena, Mosca ha tirato fuori dal giubbotto la pistola, una Glock austriaca, uno dei suoi trofei, e facendo una faccia strafottente ha sparato al prigioniero in testa e sul petto.

Il Capitano si è voltato e senza dire niente lo ha guardato con pietà.

Mosca si è messo seduto vicino al morto e ha chiuso gli occhi in una crisi di stanchezza.

Guardando tutti noi come se ci stesse conoscendo davvero per la prima volta, il Capitano ha detto:

– Questo è troppo, ragazzi. Tutti in macchina, a riposo, dietro la linea.

Uno dopo l’altro, come zombie, siamo partiti verso le nostre macchine. Avevo la testa talmente pesante che ero sicuro che se mi fossi fermato sarebbe esplosa.

Siamo tornati dietro la linea, nella zona controllata e difesa dai nostri fanti. Ci siamo addormentati subito, io non ho fatto nemmeno in tempo a togliermi di dosso il giubbotto e le borse laterali che sono caduto nel buio, come un morto.

Poco dopo, Mosca mi ha svegliato battendo il calcio del Kalasnikov sul mio giubbotto, all’altezza del petto.

Lentamente e senza voglia ho aperto gli occhi e mi sono guardato intorno, facevo fatica a ricordare dove mi trovavo. Non riuscivo a mettere a fuoco le cose.

Mosca aveva la faccia stanca, stava masticando un pezzo di pane. Fuori era buio, impossibile capire che ora fosse. Ho guardato il mio orologio, ma non vedevo neanche i numeri, tutto era come annebbiato.

– Che succede, quanto abbiamo dormito? – ho chiesto a Mosca con la voce sfinita.

– Abbiamo dormito un cazzo, fratello… E mi sa che dovremo stare svegli ancora per un bel po’ di tempo.

Ho chiuso la faccia tra le mani, tentando di raccogliere le forze per alzarmi e cominciare a ragionare. Avevo bisogno di dormire, sentivo addosso una stanchezza tremenda. La mia tuta era sporca e umida, il giubbotto puzzava di sudore e di terra fresca, ero ridotto a uno straccio.

Mosca è andato a svegliare anche gli altri:

– Dài, ragazzi, si parte subito… C’è bisogno di noi.

Erano tutti disperati, non volevano alzarsi. Ma lamentandosi, imprecando, si sono messi in piedi.

Il Capitano Nosov stava girando con la cornetta all’orecchio e un fante lo seguiva come un animale domestico, con la radio da campo nello zaino. Il Capitano si arrabbiava, continuava a ripetere a chissà chi, via radio, che avevamo fatto il primo riposo in tre giorni, che eravamo stremati. Tutto inutile, perché a un certo punto Nosov ha detto con un tono che ricordava il suono del tip tap:

– Si, compagno Colonnello! Confermo, ordine ricevuto!

Dunque, ci mandavano di nuovo in prima linea.

Non volevo neanche pensarci.

Sono andato verso un bidone di ferro pieno d’acqua. Ho messo le mani dentro: l’acqua era bella fresca, mi ha dato un leggero brivido. Allora ho infilato tutta la testa dentro il bidone, sott’acqua, e l’ho tenuta un po’ li, trattenendo il respiro.

Ho aperto gli occhi dentro il bidone e ho visto buio completo. Mi sono spaventato e ho tirato fuori immediatamente la testa, facendo un respiro profondo.

Il buio che avevo visto nel bidone mi aveva fatto un brutto effetto, mi era sembrato che la morte poteva essere proprio così – buia e senz’aria.

Stavo sopra il bidone, guardavo ballare sull’acqua il riflesso della mia faccia e della mia vita fino a quel momento.

Il cappello a otto triangoli e il coltello a scatto

In Transnistria febbraio è il mese più freddo dell’anno. Tira un vento forte e l’aria diventa pungente, pizzica sulla faccia; tutti quelli che escono per strada si coprono come mummie, i bambini sembrano bambolotti, impacchettati in mille vestiti, con le sciarpe fin sugli occhi.

Di solito nevica tanto, le giornate sono corte e il buio comincia a scendere sulla terra molto presto.

E in quel mese che sono nato io. Ero così malmesso che nell’antica Sparta senza dubbio mi avrebbero eliminato per via del mio stato fisico. Invece mi hanno messo in un’incubatrice.

Sono nato di otto mesi, uscendo con i piedi, e avevo un sacco di altre irregolarità. Un’infermiera gentile ha detto a mia mamma che doveva abituarsi all’idea che mi restava poco da vivere. Mia mamma piangeva, scaricando in una macchinetta il suo latte per me, da portarmi nell’incubatrice. Per lei non dev’essere stato un momento allegro.

Beh, a partire dalla mia nascita, io forse per abitudine ho continuato a procurare vari dispiaceri e togliere parecchie possibilità di vita allegra ai miei genitori (anzi, a mia mamma, perché mio padre in realtà se ne fregava di tutto, faceva la sua vita da criminale, rapinava banche e stava tanto tempo in galera). Non mi ricordo nemmeno quante ne ho combinate, da piccolo. Ma è naturale, sono cresciuto in un quartiere malfamato, proprio nel posto dove negli anni Trenta si sono sistemati i criminali espulsi dalla Siberia. La mia vita era lì, a Bender, con i criminali, e il nostro criminalissimo quartiere era come una grande famiglia.

Da bambino non m’interessavano i giocattoli. A quattro-cinque anni per divertirmi giravo per casa cercando di beccare il momento in cui mio nonno о mio zio si mettevano a smontare e pulire le armi. Le pulivano spesso, con cura e amore, perché ne avevano veramente tante. Mio zio diceva che le armi sono come le donne, se non le accarezzi abbastanza diventano troppo rigide e ti tradiscono.

Le armi a casa nostra, come in tutte le case siberiane, erano tenute in posti ben precisi. Le pistole chiamate «proprie», cioè quelle che i criminali siberiani portano sempre con sé, quelle che usano ogni giorno, vengono posate nell’«angolo rosso», dove sono appese le icone di famiglia, le foto dei parenti morti e di tutti coloro che stanno scontando una condanna in prigione. Sotto le icone e le foto c’è una specie di mensola, coperta con un pezzo di stoffa rosso, sulla quale di solito ci sono una decina di crocefissi siberiani. Quando un criminale entra in casa va subito nell’angolo rosso, si toglie la pistola e la posa sulla mensola, dopo si fa il segno della croce e mette un crocefisso sopra la pistola. Questa è un’antica tradizione che assicura che nelle case siberiane le armi non vengano utilizzate: se questo avvenisse, in quella casa non si potrebbe più vivere. 11 crocefisso è una specie di sigillo, che si rimuove solo quando il criminale esce di casa.

Le pistole proprie, chiamate «amante», «zia», «tronco», «corda», di solito non hanno un significato profondo e importante, vengono trattate come un’arma semplice e basta. Non sono oggetti di culto, come invece può esserlo la «picca», il coltello tradizionale. La pistola insomma è un ferro del mestiere.

Oltre alle pistole proprie, in casa vengono tenute altre armi. Le armi dei criminali siberiani sono divise in due grandi categorie: quelle «oneste» e quelle «di peccato». «Oneste» sono le armi utilizzate solamente per la caccia nel bosco. Secondo la morale siberiana, la caccia è un processo depurativo che aiuta una persona a tornare al livello in cui si trovava l’uomo quando Dio lo ha creato. I siberiani non cacciano mai per piacere, solamente per sfamarsi, e soltanto quando van-no nel bosco profondo, nella loro patria, in Taiga. Mai in posti dove ci si può procurare il cibo senza ammazzare gli animali selvatici. Di solito in una settimana di permanenza nel bosco i siberiani uccidono solo un cinghiale, il resto del tempo camminano. Nella caccia non c’è posto per nessun interesse, solo per la sopravvivenza. Questa dottrina influenza l’intera legge criminale siberiana, formando una base morale che prevede umiltà e semplicità nelle azioni di ogni singo lo criminale, e rispetto per la libertà di qualunque essere vivente.

Le armi oneste usate per la caccia vengono tenute in una zona speciale della casa, chiamata «altare», dove ci sono le cinture istoriate dei padroni di casa e dei loro antenati. Alle cinture sono sempre appesi coltelli da caccia e borse con vari talismani, oggetti della magia pagana siberiana.

Le armi di peccato invece sono quelle utilizzate per scopi criminali. Queste armi di solito si tengono in cantina e in vari nascondigli sparsi per il cortile. Ogni arma di peccato ha incisa da qualche parte l’immagine di una croce о di un santo protettore, ed è stata «battezzata» in una chiesa siberiana.

I fucili d’assalto Kalasnikov sono i più amati dai siberiani. Nel gergo criminale ogni modello ha un nome, nessuno usa abbreviazioni о sigle per indicare modello, calibro о tipologia delle munizioni. Ad esempio, il vecchio ak 47 calibro 7,62 si chiama «sega», e le sue munizioni «testine». Il più moderno aks calibro 5,45 con calcio pieghevole si chiama «telescopio», e le sue cariche «schegge». I proiettili possono essere diversi: quelli con la testa nera, che hanno il centro squilibrato, in gergo si chiamano «le cicce»; quelli con la testa bianca, che bucano la blindatura, «chiodi»; quelli con la testa bianca e rossa, esplosivi, «scintille».

Lo stesso per il resto delle armi: i fucili di precisione vengono chiamati «canna da pesca», о «falce». Se hanno un silenziatore integrato sulla canna, «frusta». I silenziatori vengono chiamati «scarpone», «terminale» о «gallo del bosco».

Secondo la tradizione, un’arma onesta e una di peccato non possono stare nella stessa stanza, altrimenti l’arma one-sta sarà per sempre contaminata, e non si potrà più utilizzare, perché porterà sfortuna a tutta la famiglia, e sarà necessario distruggerla attraverso un rituale particolare. Verrà sepolta sottoterra avvolta nel lenzuolo su cui è avvenuto un parto. Secondo le credenze siberiane, tutto quello che è legato al parto ha in sé un’energia positiva, perché ogni bambino che nasce è puro, non conosce il peccato. Quindi i poteri della purezza sono una specie di sigillo contro le disgrazie. Dove è stata sepolta un’arma contaminata di solito si pianta un albero, cosi se la «maledizione» si attiva distruggerà l’albero e non si allargherà su nient’altro.

In casa dei miei le armi erano dappertutto, mio nonno aveva una stanza piena di armi oneste: fucili di vari calibri e marche, tanti coltelli e diverse munizioni. Potevo entrare in quella stanza solo accompagnato da un adulto, e quando capitava cercavo di restarci il più a lungo possibile. Tenevo le armi tra le mani, ne studiavo i particolari, facevo mille domande, finché non mi fermavano dicendo:

«E basta con ’ste domande! Aspetta un pochino, diventerai grande e allora potrai provarle tutte da solo…» Ovviamente io non vedevo l’ora di diventare grande. Guardavo incantato mio nonno e mio zio maneggiare le armi, e quando le toccavo mi sembravano creature vive.

Nonno spesso mi chiamava e mi faceva sedere di fronte a lui, poi metteva sul tavolo una vecchia Tokarev, pistola bella e potente, che mi sembrava più affascinante di tutte le armi esistenti.

«Allora, la vedi questa? – mi diceva. – Non è una pistola normale, è magica. Se c’è uno sbirro vicino lei gli spara da sola, senza che tu prema il grilletto…»

Io credevo veramente nei poteri di quella pistola e una volta, quando sono arrivati i poliziotti a casa nostra per fare un blitz, ho combinato un casino.

Quel giorno mio padre era tornato da una lunga permanenza in Russia centrale, dove aveva svaligiato una serie di furgoni portavalori. Dopo una cena che aveva riunito tutta la famiglia e qualche amico stretto, gli uomini stavano seduti al tavolo, a parlare e discutere di vari affari e questioni criminali, mentre le donne erano in cucina a lavare i piatti, cantare canzoni siberiane e ridere insieme, ricordando qualche storia passata. Io ero vicino a mio nonno, sulla panca, con una tazza di tè caldo in mano, e ascoltavo quello che dicevano gli adulti. A differenza delle altre comunità, i siberiani rispettano i bambini e discutono davanti a loro di qualunque cosa, senza creare un’aria di mistero о di proibizione.

A un certo punto ho sentito le urla delle donne, e subito dopo tante voci nervose: in pochi secondi la casa si è riempita di uomini armati, con i volti coperti e i Kalasnikov puntati su di noi. Uno di loro si è avvicinato a mio nonno, gli ha premuto il fucile in faccia e ha gridato come un pazzo, con la voce evidentemente squilibrata:

– Dove stai guardando, vecchio bastardo? Ti ho detto di guardare il pavimento!

Io non ero per niente spaventato, non mi faceva paura nessuno di quegli uomini, il fatto di essere con la mia famiglia al completo mi faceva sentire più forte di qualsiasi altro essere vivente. Però i modi che quell’uomo aveva usato con mio nonno mi avevano fatto arrabbiare. Il tavolo intorno a cui eravamo seduti era circondato da poliziotti che tenevano le armi puntate su di noi. Dopo una corta pausa, mio nonno, senza guardare il poliziotto in faccia ma con la testa ben alzata, ha chiamato mia nonna:

– Svetlana! Svetlana! Vieni qui, tesoro, che devi passare qualche mia parola a questo pezzo d’immondizia!

Secondo le regole del comportamento criminale, i siberiani non possono comunicare con i poliziotti. E vietato rivolgergli la parola, rispondere alle loro domande о avere qualsiasi rapporto con loro. Il criminale deve comportarsi come se i poliziotti non ci fossero, e usare la mediazione di una donna di famiglia о vicina alla famiglia, purché di origine siberiana. Il criminale comunica alla donna nella lingua criminale quello che vuole dire al poliziotto, e lei ripete le sue parole in russo, anche se il poliziotto sente perfettamente tutto, perché è lf davanti. Dopo, quando il poliziotto risponde, la donna si gira e traduce tutto nella lingua criminale. Il criminale non deve guardare il poliziotto in faccia, e se lo cita nel suo discorso lo deve nominare con parole dispregiative come «immondizia», «cane», «coniglio», «infame», «bastardo», «aborto» eccetera.

Quella sera la persona più anziana nella stanza era mio nonno, quindi secondo le regole del comportamento criminale il diritto di comunicare era suo, gli altri dovevano stare zitti e se volevano dire qualcosa dovevano chiedere permesso a lui. Mio nonno era famoso per il suo talento nel risolvere le situazioni calde.

Dalla cucina nel frattempo era arrivata mia nonna, con uno strofinaccio colorato in mano. Dietro di lei mia mamma, agitatissima, continuava a guardare mio padre con un’aria triste, come se stesse per morire.

– Cara moglie mia, che Dio ti benedica, di’ a questo pezzo d’immondizia che in casa mia, finché io sono vivo, nessuno punta i ferri sulla mia faccia о su quella dei miei amici… Chiedigli cosa vogliono, e per amore di Cristo che mettano giù le sputafuoco, altrimenti qualcuno rimarrà bucato.

Mia nonna ha cominciato a ripetere al poliziotto le parole di mio nonno, e anche se quello annuiva col capo per far capire che aveva già sentito tutto, lei non si è fermata, per seguire fino in fondo la tradizione. Questa cosa sapeva tanto di finto, di recita, però si trattava di una recita che andava recitata, era una questione di dignità criminale.

– Mettetevi tutti con la faccia a terra, abbiamo un ordine di arresto per… – Il poliziotto non è riuscito a finire la frase, perché mio nonno con un sorriso largo e un po’ cattivo, cioè con il suo sorriso di sempre, lo ha interrotto, rivolgendo la parola a mia nonna:

– Per la passione del Nostro Signore Gesù Cristo, che è morto e risorto per noi peccatori! Svetlana, amore mio, chiedi a questo stupido sbirro se lei e le sue amiche sono venute per caso dal Giappone.

Mio nonno ha usato il modo con cui di solito i criminali umiliano i poliziotti: parlare di loro come di femmine. Tutti i criminali hanno fatto una risata. Intanto nonno continuava:

– Non mi sembrano giapponesi, quindi non hanno la stoffa dei kamikaze… Perché pensano di poter entrare nel cuore di Fiume Basso armati, in casa di un criminale onesto, mentre lui condivide momenti di felicità con altra buona gente?

Il discorso di mio nonno si stava trasformando in quella che i criminali chiamano «canzone», cioè in quell’estrema forma di comunicazione con i poliziotti che si verifica quando un criminale si mette a parlare come se stesse facendo un ragionamento da solo, tra sé e sé. Insomma, nonno esprimeva quello che aveva dentro, senza preoccuparsi di rispondere alle possibili domande о di stabilire qualsiasi contatto. Il che capita quando si vuole far credere ai poliziotti che quel lo che si sta dicendo è la sola verità, che non esistono scappatoie.

– Perché vedo gente disonesta con le facce coperte? Perché questa presenza oscura viene qui a disonorare la mia casa e la buona fede dei miei famigliari e dei miei ospiti? Qui, nella nostra terra di gente semplice e umile, di servitori del Nostro Signore e della Madre Chiesa ortodossa siberiana, perché vengono questi sputi di Satana, a ferire i cuori delle nostre amate donne e dei nostri cari bambini?

Nella stanza intanto era entrato correndo un altro poliziotto, che si era rivolto al suo superiore:

– Compagno capitano, permettetemi di dichiarare!

– Dichiara, – ha risposto un uomo basso e tarchiato, con una voce che sembrava venire dall’aldilà. Teneva il fucile puntato sulla nuca di mio padre, che con un cinico sorriso continuava tranquillamente a sorbire il suo tè e a masticare con un rumore discreto le caramelle di noci fatte in casa da mia madre.

– Fuori è pieno di gente armata, hanno bloccato tutte le vie d’accesso alle macchine e hanno preso in ostaggio la pattuglia che sorvegliava i mezzi!

Nella stanza è calato il silenzio, un silenzio lungo e pesante. Si sentivano solo due rumori sordi: quello delle caramelle masticate da mio padre e il leggero fischio dei polmoni marci di zio Vitalij.

Ho guardato gli occhi di un poliziotto che stava vicino a me, attraverso i fori del cappuccio lo vedevo sudare e impallidire. Mi ha ricordato la faccia di un cadavere che avevo visto qualche mese prima, ripescato dai miei amici al fiume: aveva tutta la pelle bianca con le vene nere, e occhi che sembravano due fossi profondi e sporchi. Aveva anche un buco in fronte, qualcuno gli aveva sparato in testa. Beh, il poliziotto non aveva nessun buco, però credo che in quel momento noi due, io e lui, pensavamo proprio la stessa cosa: a come ci sarebbe stato sulla sua fronte un bel buco, e anche se devo dire che a me personalmente questo pensiero non faceva nessun effetto, il mio incappucciato vicino invece era visibilmente molto preoccupato.

All’improvviso la porta di casa si è aperta e, spostando di peso il poliziotto che aveva appena pronunciato il rapporto fatale, hanno fatto il loro ingresso l’uno dopo l’altro sei uomini armati, amici di mio padre e di mio nonno. Il primo era zio Trave, che era anche il Guardiano della nostra zona, gli altri erano i suoi aiutanti più stretti. Mio nonno, ignorando ormai completamente la presenza dei poliziotti, si è alzato ed è andato incontro a Trave.

– Cristo Santo e tutti i parenti benedetti! – ha detto Trave abbracciando mio nonno e stringendogli con affetto la mano.

– Nonno Boris, grazie al cielo nessuno si è fatto male!

– Ma tu guarda, Trave, che tempi! Non possiamo stare tranquilli nemmeno nelle nostre case!

Trave ha cominciato a parlare a mio nonno come se stesse facendo un riassunto dell’accaduto, e invece le sue parole erano destinate alle orecchie dei poliziotti:

– Ma non c’è da disperare, nonno Boris! Siamo tutti qui con te, come sempre nei momenti di felicità e di difficoltà… Lo sai, caro mio, senza il nostro permesso nessuno entra о esce da casa nostra, soprattutto se ha intenzioni disoneste…

Trave si è avvicinato al tavolo e uno a uno ha abbracciato tutti i criminali presenti. Mentre li abbracciava e li baciava sulle guance, li salutava con il tipico augurio siberiano:

– Pace e salute a tutti i fratelli e agli uomini onesti!

Quelli gli rispondevano come vuole la tradizione:

– Morte e maledizioni agli sbirri e agli infami!

I poliziotti non potevano fare nient’ altro che assistere a quella toccante cerimonia di saluto. Ormai i loro fucili erano bassi come le loro teste.

Gli assistenti di Trave, comunicando attraverso le donne presenti, hanno intimato ai poliziotti di abbandonare la casa.

– Adesso io mi auguro che gli sbirri qui presenti lascino questa casa e non tornino mai più. Noi teniamo i loro amici, quelli che abbiamo preso per primi, e quando loro se ne andranno dal quartiere li lasceremo andare via in pace… – Trave parlava con voce molto calma e pacifica, e se non fosse stato per il contenuto, dal tono si poteva pensare che stesse raccontando una cosa dolce e tranquillizzante, come una fiaba ai bambini prima del sonno.

I poliziotti erano terrorizzati, dalla finestra della stanza vedevano il cortile pieno di gente armata fino ai denti.

I nostri amici hanno creato con i loro corpi un corridoio attraverso il quale uno a uno i poliziotti hanno iniziato a passare a testa bassa.

Io mi sentivo pieno di sentimenti positivi, mi veniva voglia di ballare, gridare, cantare ed esprimere qualcosa di grande che non riuscivo ancora a capire. Sentivo di far parte, di appartenere a un mondo forte, e mi sembrava che tutta la forza di quel mondo si trovasse dentro di me.

Non so come e perché, ma a un certo punto sono saltato giù dalla panca correndo come un pazzo verso la stanza principale, dove c’era l’angolo rosso. Sulla mensola, sopra un fazzoletto rosso con ricami dorati, c’erano le pistole di mio padre, di mio zio, di mio nonno e dei nostri ospiti. Senza pensare ho preso la mitica Tokarev di mio nonno e sono corso dietro ai poliziotti, puntandogliela contro. Non so che cosa di preciso passava nella mia testa in quell’istante, l’unica cosa che sentivo era una specie di euforia, di gioia di esistere.

I poliziotti stavano lentamente muovendosi verso l’uscita. Mi sono fermato davanti a uno di loro e l’ho fissato: i suoi occhi erano stanchi e sembravano infiammati, lo sguardo era triste, desolato. Ricordo che per un momento ho sentito su di me tutto il suo odio. Ho mirato alla faccia, ho cercato di premere il grilletto con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muoverlo di un millimetro. La mia mano diventava sempre più pesante e non ero in grado di tenere la pistola abbastanza in alto. Mio padre ha cominciato a ridere, chiamandomi:

– Vieni subito qui, piede scalzo! Non va bene sparare in casa, non lo sai?

I poliziotti se ne sono andati via, e un gruppo di criminali li ha seguiti scortandoli fino ai confini del quartiere, poi, quando la scorta è tornata, anche la macchina con i poliziotti tenuti in ostaggio è ripartita verso la città. Ma preceduta da una macchina degli amici di Trave che andava piano per non consentire ai poliziotti di aumentare la velocità, e permettere invece alla gente d’insultarli con tutta calma, di accompagnarli fuori dal quartiere con una specie di cerimonia per festeggiare la vittoria. Prima della partenza qualcuno aveva agganciato dietro la macchina una corda con varia biancheria appesa: mutande, reggiseni, piccoli asciugamani, stracci e anche una mia maglietta, contributo di mio padre all’opera denigratoria. Così un sacco di gente era uscita dalle case per guardare quello spettacolo di biancheria serpeggiante. I bambini correvano dietro la macchina, cercando di colpirla con i sassi.

– Guardate questi sbirri schifosi! Vengono a Fiume Basso per rubare le nostre mutande! – gridava qualcuno dalla folla, accompagnando i commenti con fischi e ingiurie.

– Ma a che gli servono? Si vede che i padroni del governo hanno smesso di dare l’osso ai loro cani! Sono rimasti pure senza mutande!

– E che male c’è, fratelli, a essere poveri e non potersi permettere neppure le mutande? Basta che vengono da noi con onestà e da uomini veri, con le facce scoperte, e noi regaleremo a ognuno un bel paio di mutande siberiane!

– Eccome se gliele regaliamo, solo devono avvisare un po’ prima, per darci il tempo di riempirgliele, ’ste mutande!

Così gridava la gente, una folla di persone che ridevano. Nonno Castagna aveva persino portato da casa una fisarmonica e aveva cominciato a suonare e cantare camminando dietro la macchina. Alcune donne si erano messe a ballare, lui urlava una vecchia canzone siberiana con tutta la sua forza, alzando la testa con il cappello a otto triangoli e chiudendo gli occhi come un cieco:

 
Parlami sorella Lena, parla anche tu, fratello Amur[1]1
  Lena e Amur sono i nomi di due grandi fiumi siberiani. La tradizione vuole che a questi fiumi sia legata la fortuna criminale: vengono adorati come divinità, a cui fare offerte e chiedere aiuto nell’esercizio delle attività criminali. Sono ricordati in numerosi detti, fiabe, canzoni e poesie. Di un criminale fortunato si usa dire che «il suo destino viene portato sulla corrente di Lena».


[Закрыть]
!
Ho attraversato la mia terra da una parte all’altra,
fermando i treni e facendo cantare il mio fucile,
e solo la vecchia Taiga sa quanti sbirri ho ammazzato!
E adesso che sono nei guai, Gesù Cristo aiutami, aiutami
a stringere la mia pistola!
E adesso che gli sbirri sono dappertutto,
mamma Siberia, mamma Siberia, risparmiami la vita!
 

Anch’io correvo e cantavo, sistemandomi in continuazione la visiera del cappello a otto triangoli, che era troppo grande e mi cadeva sempre sugli occhi.

Il giorno dopo, però, la voglia di cantare mi è andata via del tutto, quando mio padre mi ha dato una ripassata seria con la sua mano pesante. Avevo violato tre regole sacre: avevo preso in mano un’arma senza il permesso di un adulto; l’avevo presa dall’angolo rosso, togliendo la croce che ci aveva posato sopra mio nonno (solo colui che posa la croce su un’arma può rimuoverla); e infine, avevo tentato di sparare in casa.

Dopo la ripassata di mio padre avevo il sedere e la schiena che bruciavano, e quindi, come sempre, sono andato a farmi consolare dal nonno. Mio nonno era serio, però il leggero sorriso che ogni tanto passava sulla sua faccia aveva un significato: i miei problemi, forse, non erano cosi gravi come potevano sembrare. Mi ha fatto un lungo discorso, il cui succo era che avevo fatto una cosa molto stupida. E quando io gli ho chiesto perché la pistola magica non aveva sparato ai poliziotti da sola, mi ha detto che la magia funziona solo quando la pistola viene usata per una cosa intelligente, e con il permesso degli adulti. A quel punto ho cominciato a sospettare che mio nonno mi raccontava le cose un po’ diverse dalla realtà, perché non mi piaceva l’idea della magia che funziona solamente con il permesso degli adulti…

Da quella volta ho smesso di pensare alla magia e ho cominciato a seguire più attentamente i movimenti delle mani di mio zio e di mio nonno mentre manipolavano le pistole, e presto ho scoperto la funzione di quella parte importantissima del meccanismo di ogni arma che viene chiamata «sicura».

Nella comunità siberiana s’impara a uccidere da piccoli. La nostra filosofia di vita ha un rapporto stretto con la morte, ai bambini viene insegnato che il rischio e la morte sono cose legate all’esistenza, e quindi togliere la vita a qualcuno

0 morire è una cosa normale, se c’è un motivo valido. Insegnare a morire è impossibile, perché una volta fatto l’affare non c’è ritorno, e dall’aldilà non ha ancora telefonato nessuno per raccontare come si sta. Però insegnare a convivere con la minaccia della morte, a «tentare» il destino, non è difficile. Molte fiabe siberiane parlano dello scontro mortale tra criminali e rappresentanti del governo, dei rischi che si corrono ogni giorno con dignità e onestà, della fortuna di quelli che alla fine hanno preso il bottino e sono rimasti vivi, e della «buona memoria» per quelli che sono morti senza mollare gli amici in difficoltà. Attraverso queste fiabe i bambini percepiscono i valori che danno senso alla vita dei criminali siberiani: rispetto, coraggio, amicizia, dedizione. Verso i cinque-sei anni i bambini siberiani dimostrano una determinazione e una serietà invidiabili anche per gli adulti di altre comunità. E su basi così solide che si costruisce l’educazione a uccidere, ad agire fisicamente contro un essere vivente.

Di solito il padre si porta dietro il bambino fin da picco lo per fargli vedere come si uccidono gli animali da cortile: galline, oche, maiali. Così il bambino si abitua al sangue, ai particolari dell’uccisione. Dopo, verso i sei-sette anni, al bambino viene offerta la possibilità di ammazzare da solo un piccolo animale. In questo processo educativo non c’è spazio per

1 sentimenti sbagliati, come il sadismo о la vigliaccheria. Il bambino va educato e gestito in maniera tale da fargli raggiungere una piena consapevolezza delle proprie azioni, e soprattutto dei motivi e dei significati profondi che stanno dietro quelle azioni.

Quando si uccide un animale più grande, come un maiale, un bue о una mucca, di solito al bambino viene permesso di esercitarsi sulla carcassa, per trovare la maniera giusta di colpire con il coltello. Mio padre spesso portava me e mio fratello in una grande macelleria, ci insegnava come agire con il coltello usando i corpi dei maiali appesi sui ganci. Una mano diventa decisa ed esperta, dopo tanti esercizi.

Verso i dieci anni il bambino è a tutti gli effetti inserito nel clan dei minori, che collabora attivamente con i criminali della comunità siberiana. Li ha la possibilità di affrontare per la prima volta tante diverse situazioni della vita criminale. I più grandi insegnano ai più piccoli come comportarsi; tra le risse e i conflitti e la gestione dei rapporti con i minori delle altre comunità, ogni ragazzo si fa le ossa.


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