Текст книги "Joyland"
Автор книги: Stephen Edwin King
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Ужасы
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«Sono contento per te.»
«Erin deve ancora sbrigare qualche cosuccia, ma ci vedremo stasera a Wilmington. Ho prenotato una stanza in una pensioncina molto graziosa.»
A quella frase, venni colto da una punta di gelosia. «Stupendo.»
«Lei è davvero fantastica.»
«Lo so.»
«Pure tu lo sei, Dev. Non perdiamoci di vista. Tanti lo dicono senza pensarlo sul serio, a differenza di me. Noi resteremoin contatto.» Mi tese la mano.
Gliela strinsi. «Assolutamente sì. Sei un tipo a posto, Tom, ed Erin è la fine del mondo. Prenditi cura di lei.»
«Poco ma sicuro», rispose con un largo sorriso. «Si trasferirà alla Rutgers in primavera. Le ho già insegnato l’inno della squadra di football, gli Scarlet Knights. ‘Forza rossi, forza rossi…’»
«Molto complicato.»
Scosse l’indice, quasi ad ammonirmi. «Il sarcasmo non ti porterà da nessuna parte, ragazzo mio. A meno di non puntare a un impiego in una rivista umoristica.»
«Sbrigatevi con i saluti e asciugatevi le lacrime», strillò Dottie Lassen. «Hai uno spettacolo che ti aspetta, Jonesy.»
Tom si voltò verso di lei, allargando le braccia. «Dottie, ti adoro! Quanto mi mancherai!»
La donna si sferrò un pacca sul sedere per dimostrare la propria commozione, tornando a rabberciare un costume.
Tom mi passò un foglio. «Il mio indirizzo di casa, il mio recapito all’università, e i numeri telefonici di entrambi. Mi auguro li userai.»
«Certo.»
«Sul serio ti fermerai qui un anno a scartavetrare i chioschi, piuttosto che dedicarlo a bere e a scopare?»
«Eggià.»
«Ma sei matto?»
Ci riflettei sopra. «Forse sì. Un po’. Però sto migliorando.»
Mi diede un veloce abbraccio, anche se i suoi vestiti erano immacolati e io fradicio di sudore. Poi guadagnò l’uscita, soffermandosi a stampare un bacio sulla guancia rugosa di Dottie. Lei aveva la bocca piena di spilli e non lo insultò, limitandosi a scacciarlo con un gesto della mano.
Arrivato sulla soglia, si girò verso di me. «Vuoi un consiglio, Dev? Stai lontano da…» Terminò la frase con un rapido scatto del capo. Compresi subito a che cosa intendeva riferirsi: il Castello del Brivido. Poi si volatilizzò, probabilmente pensando al ritorno a casa e a Erin, all’auto che sperava di comperare e a Erin, all’imminente anno di università… e a Erin.
Forza e coraggio, miei prodi, forza e coraggio. Avrebbero potuto intonarlo in coppia, non appena fosse arrivata la primavera. O anche quella stessa notte, se gliene fosse venuta voglia. A Wilmington. A letto. Insieme.
♥
A Joyland non si doveva timbrare il cartellino; le entrate e le uscite erano controllate dai capisquadra. Quel primo lunedì di settembre, dopo la mia ultima esibizione, Pop Allen mi chiese di portargli la mia scheda di presenza.
«Manca ancora un’ora», gli risposi.
«Nah, una certa persona ti aspetta ai cancelli per riaccompagnarti all’ovile.» Sapevo di chi si trattava. Difficile credere che il vecchio Pop potesse avere un debole per qualcuno, ma quell’estate Erin era riuscita a fare breccia nel suo cuore di pietra.
«Conosci l’orario di domani, giovane?»
«Dalle sette e mezzo alle sei.» E niente pelliccia. Una vera benedizione.
«Sarai alle mie dipendenze per un paio di settimane, finché non volerò via verso il sole della Florida. Poi sarà Lane Hardy a occuparsi di te. E probabilmente Freddy Dean, se si accorge che sei ancora tra i piedi.»
«D’accordo.»
«Bene. Tempo di firmarti il cartellino e sei dieci-sette.» L’espressione aveva il medesimo significato nella Parlata e nel linguaggio dei radioamatori così in voga a quei tempi: fine servizio.«E… Jonesy? Di’ a quella ragazza di mandarmi una cartolina ogni tanto. Già sento la sua mancanza.»
Non era il solo.
♥
Anche Erin aveva iniziato la transizione dalla vita di Joyland a quella normale. Erano scomparsi i jeans scoloriti e la maglietta con le maniche rimboccate fino alle spalle quasi per provocazione; la medesima sorte era toccata al vestitino verde da Sirena di Hollywood e al cappello da Robin Hood.
La ragazza bagnata dai neon scarlatti appena fuori dai cancelli indossava una camicetta sbracciata di seta azzurra, infilata in una gonna a campana sormontata da una cintura. Aveva i capelli tirati all’indietro ed era meravigliosa.
«Accompagnami lungo la spiaggia», mi chiese. «Ho appena il tempo di prendere la corriera per Wilmington. Mi vedrò con Tom.»
«Me l’ha detto. Lascia perdere il pullman. Ti do uno strappo.»
«Sul serio?»
«Ma certo.»
Iniziammo a passeggiare sulla fine sabbia bianca. In cielo era spuntata una falce di luna che disegnava una scia luminosa sull’acqua. A metà strada, non lontano dalla grande casa vittoriana verde che quell’autunno avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella mia vita, Erin mi prese per mano. Continuammo a camminare, aprendo bocca solo dopo avere raggiunto i gradini che conducevano al parcheggio della spiaggia. Lei si voltò verso di me.
«La dimenticherai», sussurrò, fissandomi. Era senza trucco. Non ne aveva bisogno. Le bastava il bagliore della luna.
«Credo di sì», risposi. Era vero e in parte mi dispiaceva. È difficile mollare la presa, anche se sei avvinghiato a un cespuglio di rovi. Forse lo era soprattutto allora.
«E per il momento questo è il posto giusto per te. Lo sento.»
«Lo crede pure Tom?»
«No, ma non è rimasto catturato da Joyland come te… o come me, nel corso di questa estate. E dopo ciò che ha visto nel tunnel dell’orrore…»
«Voi due non ne parlate mai?»
«Ci ho provato. Ormai lascio perdere. Lui sta cercando di scordarselo, perché fa a pugni con la sua visione del mondo. Però credo sia preoccupato per te.»
«E tu?»
«No. O almeno, non per te o per lo spettro di Linda Gray. Piuttosto, per il fantasma di quella Wendy.»
Mi sfuggì un sorriso di sbieco. «Mio padre non la chiama più per nome. Si riferisce a lei come alla ‘ragazza’. Erin, mi faresti un favore non appena tornata all’università? Se hai tempo, naturalmente.»
«Certo. Di che cosa si tratta?»
Glielo dissi.
♥
Mi chiese di lasciarla alla stazione dei pullman di Wilmington, invece di portarla direttamente alla pensione prenotata da Tom. Mi assicurò che preferiva raggiungerla in taxi. Iniziai a protestare, sottolineando che era uno spreco di denaro, ma poi mi bloccai. Mi sembrava confusa e leggermente imbarazzata. Probabilmente non le andava a genio l’idea di scendere dalla mia auto per poi spogliarsi subito dopo, infilandosi a letto con Tom.
Quando mi fermai davanti al parcheggio dei taxi, mi prese il volto tra le mani e mi baciò sulla bocca, a lungo e con intensità.
«Se non ci fosse stato Tom, ci avrei pensato ioa farti dimenticare quella stupida ragazza.»
«Ma lui c’era.»
«Sì. Lui c’era. Chiamami, Dev.»
«Ricordati la mia richiesta. Se ti dovesse capitare…»
«Non lo scorderò. Sei molto dolce.»
Senza saperne il motivo, mi venne voglia di piangere. Invece sorrisi. «E poi, ammettilo, come Howie ero il massimo.»
«Assolutamente sì. Devin Jones, il salvatore di bambine indifese.»
Per un attimo pensai che volesse baciarmi di nuovo, ma mi sbagliavo. Scivolò via dall’auto, correndo con la gonna svolazzante verso i taxi sul lato opposto della strada. Restai immobile a fissarla mentre saliva sul sedile posteriore e scompariva nel traffico. Poi me ne andai anch’io, ritornando a Heaven’s Beach, alla casa della signora Shoplaw e al mio autunno a Joyland, il migliore e il peggiore della mia intera vita.
♥
Quando mi incamminai giù per la spiaggia il martedì dopo la festa del Lavoro, Annie e Mike Ross erano già seduti alla fine della passerella della casa vittoriana verde? Mi ricordo dei croissant ancora caldi che sbocconcellavo durante la passeggiata, ma di loro due non sono sicuro. Diventarono una parte così essenziale del panorama attorno a me, un vero e proprio punto di riferimento, che è impossibile determinare con precisione la prima volta che li notai. Niente ti fotte la memoria peggio dell’abitudine.
Dieci anni dopo gli avvenimenti che vado raccontando, lavoravo come cronista al Cleveland Magazine,forse per espiare i miei peccati. Avevo preso l’abitudine di scrivere le bozze dei miei articoli su grandi taccuini di fogli gialli in una tavola calda della Terza Strada, vicino al Lakefront Stadium, allora terreno di gioco degli Indians. Alle dieci di ogni mattina, una giovane donna entrava, ordinava quattro o cinque caffè e li portava nell’agenzia immobiliare a fianco. Anche in quel caso, non sono certo della prima occasione in cui la vidi. So che a un certo punto mi accorsi di lei, rendendomi conto che di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata mentre usciva. Un bel giorno ricambiai il suo sguardo, lei mi sorrise e io la imitai. Otto mesi dopo eravamo sposati.
Con Annie e Mike capitò lo stesso; arrivò un momento in cui diventarono parte integrante del mio mondo. Non mancavo mai di salutarli con un cenno della mano, che il ragazzino contraccambiava, mentre il cane restava accucciato a fissarmi con le orecchie ritte e il pelo che fremeva al vento. La donna era bionda e bellissima: zigomi alti, occhi distanziati e labbra carnose, quelle che sembrano sempre leggermente tumefatte. Il ragazzino sulla sedia a rotelle portava un berretto dei White Sox che gli arrivava fino alle orecchie. Pareva molto malato, ma aveva un grande sorriso. Che andassi o tornassi, non si dimenticava mai di sfoggiarlo. Un paio di volte mi salutò persino con il segno della pace e io feci altrettanto. Eravamo diventati una componente fondamentale del nostro reciproco panorama. Probabilmente se ne accorse pure Milo, il Jack Russell terrier. Soltanto la madre preferiva tenersi in disparte. Quando passavo, spesso non alzava nemmeno lo sguardo dal libro che stava leggendo. Se lo faceva, non mi salutava e di certo non mi accoglieva con il segno della pace.
♥
Al parco il tempo non bastava mai: il lavoro era meno vario e interessante rispetto all’estate, ma non costava così tanta fatica ed era più regolare. Ebbi persino occasione di reinterpretare il premiatissimo ruolo di Howie, nonché di unirmi al coro dell’ennesima festa di compleanno alla Borgata Incantata. Joyland restava aperto per i tre fine settimana di inizio settembre, ma le presenze erano calate drasticamente e non riuscii a svalvolare nessuna attrazione. Nemmeno la Ruota del Sud, superata in popolarità solo dalla giostrina dei cavalli.
«Su nel New England, quasi tutti i parchi non chiudono i battenti fino alla festa di Halloween», mi raccontò Fred Dean. Eravamo seduti su una panchina, intenti a divorare un sano pasto a base di chili burger e ciccioli fritti. «Giù in Florida, rimangono aperti tutto l’anno. Noi ci troviamo in una specie di zona d’ombra. Anni fa il signor Easterbrook ha tentato di promuovere una stagione autunnale, spendendo un capitale per un grande lancio pubblicitario, ma non ha funzionato granché. Quando le sere cominciano a farsi fredde, in genere i nostri frequentatori sciamano verso le fiere di paese. E comunque, molti vecchi dipendenti volano a sud o a ovest per la brutta stagione.» Scrutò il deserto di Strada del Segugio, tirando un sospiro. «D’inverno Joyland diventa un posto abbastanza desolato.»
«A me piace», risposi. Era vero. Era l’anno giusto per restare da solo. Ogni tanto andavo al cinema di Lumberton o Myrtle Beach con la signora Shoplaw e Tina Ackerley, la bibliotecaria con i fanali, ma passavo quasi tutte le sere nella mia stanza, rileggendo Il signore degli anellie scrivendo lettere a Erin, Tom e papà. Buttai giù anche una discreta quantità di poesie, il cui pensiero ancora mi imbarazza. Grazie a Dio le ho bruciate. Aggiunsi un nuovo disco sufficientemente lugubre alla mia sparuta collezione, The Dark Side of the Moon.Nel Libro dei Proverbi, si viene avvertiti che «come un cane ritorna al suo vomito, così lo stolto ripete le sue stoltezze». Quell’autunno ascoltai i Pink Floyd a ripetizione, rintanandomi nella mia metà oscura, mettendoli da parte solo per bearmi una volta in più della voce di Jim Morrison: «Questa è la fine, una bella amica». Lo so, lo so, classiche ingenuità da ventunenne.
Se non altro, a Joyland non avevo occasione di restare con le mani in mano. Le prime due settimane, mentre il parco funzionava a ritmo ridotto, vennero dedicate alle pulizie autunnali. Fred Dean mi affidò una combriccola di rincitrulli e quando ai cancelli venne appesa l’insegna chiusura stagionale, avevamo rastrellato e tagliato i prati, sistemato le aiuole per l’arrivo dell’inverno, tirato a lucido spacci e sparaspara. Nel cortiletto montammo alla svelta un prefabbricato di lamiera ondulata, mettendo al riparo dalle intemperie i baracchini del popcorn, delle granite e dei Cucciolotti Golosi (i porta pappa, secondo la Parlata), coprendoli con un telone verde.
Non appena i rincitrulli migrarono a nord per la raccolta delle mele, continuai a preparare il parco per la brutta stagione con Lane Hardy e Eddie Parks, che durante l’estate era stato il burbero responsabile del Castello del Brivido e della Squadra Dobermann. Svuotammo la fontana all’incrocio tra la Passeggiata di Joyland e la Strada del Segugio e ci stavamo occupando del Tuffo del Capitano Nemo, un compito parecchio più ingrato, quando arrivò Bradley Easterbrook in perfetta tenuta da viaggio con il suo immancabile completo nero.
«Stasera partirò per Sarasota», ci comunicò. «Come al solito, Brenda Rafferty verrà con me.» Sorrise, sfoderando i denti da cavallo. «Sto facendo un giro per ringraziare i pochi superstiti.»
«Passi un ottimo inverno, signore», gli augurò Lane.
Eddie biascicò un saluto incomprensibile che suonò come gaggio,mentre probabilmente era faccia buon viaggio.
«Grazie di tutto», dissi.
Ci strinse la mano, tenendomi per ultimo. «Conto di rivederti la prossima estate, Jonesy. Non sei un figlio del baraccone, però ci vai vicino.»
Invece non ci incontrammo mai più. Il signor Easterbrook morì il primo giorno del nuovo anno in un appartamento su John Ringling Boulevard, a cinquecento metri da dove sverna il famoso e omonimo circo.
«Vecchio, pazzo figlio di puttana», borbottò Parks, guardandolo allontanarsi verso l’auto, con Brenda pronta ad accoglierlo e aiutarlo.
«Chiudi la ciabatta, Eddie», gli intimò Lane dopo averlo scrutato a fondo per una manciata di secondi.
L’altro gli diede retta. Saggia decisione.
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Una mattina, mentre ero diretto a Joyland con i miei croissant, il Jack Russell finalmente si decise ad attraversare la spiaggia per conoscermi meglio.
«Milo, qui!» lo chiamò la donna.
Il cane si voltò a guardarla, per poi tornare a fissarmi con i suoi occhi nero brillante. D’impulso, presi un pezzetto della mia colazione, mi accovacciai e glielo porsi. Milo schizzò lesto verso di me.
«Non gli dia da mangiare!» strillò lei.
«Oh, mamma, piantala», intervenne il ragazzino.
Milo la ascoltò e non accettò subito la mia offerta, rimanendo però seduto davanti a me con le zampe tese in avanti. Gli passai il boccone.
«Non lo farò più», promisi, alzandomi. «Ma un simile numero da circo non poteva andare sprecato.»
La donna sbuffò, tornando al suo libro. Era voluminoso e sembrava difficile. «Lo rimpinziamo tutto il tempo, ma lui corre sempre e non ingrassa», urlò il ragazzino.
«Sai che non devi parlare con gli sconosciuti, Mike», lo sgridò la madre, senza alzare lo sguardo dalle pagine.
«Non è esattamente uno sconosciuto. Ci passa davanti tutti i giorni», puntualizzò lui. Non aveva torto, almeno dal mio punto di vista.
Mi presentai. «Sono Devin Jones. Abito giù lungo la spiaggia. Lavoro a Joyland.»
«Allora è meglio che si sbrighi. Non vorrà arrivare in ritardo», rispose la donna, gli occhi perennemente abbassati.
Il figlio si strinse nelle spalle, come a dirmi: è fatta così. Era pallido e curvo più di un vecchio, ma la sua reazione e il suo sguardo rivelavano un notevole senso dell’umorismo. Feci anch’io spallucce, riprendendo la marcia. La mattina dopo, mi preoccupai di finire i croissant prima di raggiungere la grande casa vittoriana, in modo da non indurre Milo in tentazione, ma non mi trattenni dal salutarli. Mike mi imitò. La donna era al suo solito posto sotto l’ombrellone verde, senza libro, ma come da copione non mosse un muscolo. Il suo volto delizioso sembrava di ghiaccio. Qui non c’è niente per te,aveva scritto in fronte. Corri al tuo parco pidocchioso e lasciaci in pace.
Non mi restò che obbedirle, pur continuando a salutare, ricambiato da Mike. Mattina e sera, lui mi salutava sempre.
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Il mattino successivo alla partenza di Gary «Pop» Allen per la Florida (più precisamente per l’Alston’s All-Star Carnival di Jacksonville, dove avrebbe capitanato uno sparaspara), giunsi a Joyland e trovai Eddie Parks, il più antipatico tra i dipendenti della vecchia guardia, seduto davanti al Castello sopra una cassetta della frutta. Fumare all’interno del parco era rigorosamente verboten,ma il signor Easterbrook era partito, Fred Dean non era nei paraggi, e Parks si sentiva abbastanza al sicuro da infischiarsene. Aveva una sigaretta tra le dita coperte dai guanti; un particolare curioso, se non li avesse indossati sempre.
«Eccoti qui, bamboccio, e con appena cinque minuti di ritardo.» Chiunque altro mi chiamava Dev o Jonesy, ma per Eddie ero «bamboccio» e lo sarei sempre stato.
«Sono le sette e mezzo in punto», gli risposi, picchiettando l’orologio con l’indice.
«Si vede che è indietro. Perché non usi l’auto come tutti? Ci metteresti un attimo.»
«Mi piace la spiaggia.»
«Non me ne sbatte un bigolo di che cosa ti piace, bamboccio. Preoccupati di essere puntuale. Qui non sei a lezione e non puoi entrare o uscire quando ti gira. Qui lavorie, adesso che il tuo capo ha levato l’ancora, devi darci dentro.»
Mi venne voglia di fargli notare che Pop, prima della sua partenza, mi aveva informato che sarebbe stato Lane Hardy a controllare i miei orari, ma preferii tenere le labbra cucite. Sarebbe stato stupido peggiorare un rapporto che già andava male. Tanto, era chiaro perché non piacessi a Parks: a lui non andava a genio nessuno. Mi sarei rivolto a Lane solo se Eddie avesse esagerato, ma come ultima possibilità. Mio padre mi aveva dimostrato con la solidità dei fatti che se un uomo vuole essere padrone della propria vita, deve cavarsi dagli impicci senza l’aiuto altrui.
«Di che cosa hai bisogno, Parks?»
«Di tutto e di più. Per prima cosa, schizza giù in magazzino a prendere un barattolo di cera per auto, senza perdere tempo a cazzeggiare con i tuoi amichetti. Poi, corri dentro il Castello e lucida ogni vettura.» Poco ci mancò che dicesse vetturaaa.«Lo facciamo ogni fine stagione.»
«Non ne avevo idea.»
«Gesù Cristo, quanto odio voi pivelli.» Schiacciò il mozzicone con il piede, sollevò di un paio di centimetri la cassetta della frutta e ce lo buttò sotto, probabilmente credendo di farlo scomparire per sempre. «Olio di gomito, bamboccio, o dovrai ricominciare da capo. Capito?»
«Capito.»
«Meglio per te.» Si infilò un’altra sigaretta nella boccaccia, frugandosi nelle tasche dei pantaloni alla ricerca dell’accendino. Con i guanti addosso, ci impiegò un po’. Alla fine lo trovò, lo aprì con uno scatto del polso e poi si bloccò di colpo. «Che hai da guardare?»
«Niente.»
«Allora sbrigati. Accendi i riflettori o non ci vedrai una sega. Sai dove sono gli interruttori?»
«Certo», mentii. Li avrei trovati da solo.
Mi lanciò un’occhiata diffidente. «E bravo il nostro intelligentone. Forza, pulisci la tua prima vettura.» Nelle orecchie mi risuonò vetturaaa.
♥
Scovai una scatola di metallo con il simbolo dell’azienda elettrica fissata al muro che separava il Museo delle Cere dalla Stanza della Botte e del Ponte. Dopo averla aperta, sollevai tutti gli interruttori con il palmo. Anche con i riflettori accesi, il Castello del Brivido conservava il suo fascino insieme minaccioso e pacchiano. Le ombre erano ancora acquattate negli angoli e il vento forte di quel mattino scuoteva le sottili mura di legno, facendo sbatacchiare una delle assi malferme. Mi dissi che avrei dovuto trovarla e aggiustarla.
In una mano stringevo un cestino di metallo, pieno di strofinacci puliti accompagnati da una gigantesca confezione risparmio di cera per auto. Me lo portai dietro nella Stanza Inclinata, ormai ferma nella posizione di partenza, e dentro la sala giochi. Fissai le macchinette e risentii la voce contrariata di Erin: Non capiscono che è uno spennapolli?Il ricordo mi spinse a sorridere, ma il cuore mi batteva all’impazzata. Già sapevo che cosa avrei fatto una volta portato a termine il mio compito.
I vagoncini, venti in tutto, erano allineati lungo la piattaforma dove salivano i passeggeri. Poco oltre, la galleria che conduceva nei meandri del Castello del Brivido era illuminata da un paio di vivide luci di emergenza bianche invece che dallo sfarfallio delle stroboscopiche, perdendo gran parte del suo fascino.
Probabilmente, durante l’estate Eddie non aveva neanche sfiorato le carrozze con un panno umido. Fui costretto a pulirle da cima a fondo, andando a prendere il detersivo in magazzino e caricandomi di secchi d’acqua riempiti al rubinetto più vicino. Tempo di lavarle e risciacquarle e arrivò l’ora della pausa, ma decisi di finire il lavoro piuttosto che bighellonare nel cortiletto o scendere nel pulciaio per un caffè. Avrei rischiato di incontrare Eddie e per quel mattino avevo già ascoltato abbastanza delle sue stronzate da vecchio brontolone. Invece mi impegnai a lucidare le carrozze, stendendo uno spesso strato di cera e spandendolo con movimenti circolari, passando di vettura in vettura, fino a farle ritornare nuove e splendenti sotto le luci appese al soffitto. Quasi sicuramente i prossimi gruppi di amanti del brivido non l’avrebbero neanche notato, mentre si ammassavano per la loro corsa di nove minuti. Quando terminai, avevo i guanti i rovinati. Avrei dovuto comprarne un nuovo paio alla ferramenta in città, e quelli migliori costavano un botto. Per un attimo mi divertii a immaginare la possibile reazione di Eddie se gli avessi chiesto di offrirmeli.
Appoggiai il cestino con gli stracci sporchi e il barattolo di cera ormai semivuoto nella sala giochi, accanto all’uscita del tunnel. Era mezzogiorno e dieci, ma in testa avevo idee più interessanti del pranzo. Stiracchiai gambe e braccia indolenzite, tornando alla piattaforma di partenza. Mi fermai a rimirare i vagoncini scintillanti nel riverbero, e mi incamminai lungo la monorotaia, penetrando nelle viscere del Castello del Brivido.
Passando sotto il Teschio Urlante, fui costretto ad abbassare la testa, anche se era sollevato e bloccato nella sua posizione originale. Dopo si stendevano le Segrete, dove i Dob capeggiati da Eddie avevano terrorizzato i bambini di tutte le età a forza di lamenti e ululati. La stanza era alta e tornai a drizzarmi. Il rumore dei passi rimbombava sul pavimento di legno, verniciato in modo da somigliare alla pietra. Potevo sentire il mio stesso respiro. Era stridulo e aspro. Avevo paura, lo ammetto. Tom mi aveva consigliato di stare alla larga da quel posto, ma né lui né Eddie Parks stringevano in mano le redini della mia vita. Avevo i Doors, avevo i Pink Floyd, ma volevo di più. Volevo Linda Gray.
Tra le Segrete e la Sala delle Torture, la monorotaia scendeva tracciando una curva a serpentina dove i vagoncini acquistavano velocità, sbatacchiando avanti e indietro i passeggeri. Il Castello era un’attrazione al buio, ma quando funzionava a pieno ritmo, quel tratto era l’unico veramente ammantato dalle tenebre. Lì l’assassino doveva avere sgozzato la ragazza, per poi sbarazzarsi del cadavere. Quanto era stato svelto e determinato! Al di là dell’ultima curva, i frollocconi venivano abbagliati dalle stroboscopiche. Anche se Tom non l’aveva mai ammesso, ero sicuro che il fantasma gli fosse apparso in quel punto.
Scesi lentamente lungo la serpentina; se Eddie mi avesse udito, sarebbe stato capacissimo di spegnere per scherzo i riflettori. Mi avrebbe lasciato sul luogo del delitto a cercare l’uscita a tentoni, con la sola compagnia del fischio del vento e dello sbatacchiare dell’asse sconnessa. E se… la mano di una ragazza fosse spuntata dall’oscurità e avesse agguantato la mia, come aveva fatto Erin l’ultima notte sulla spiaggia?
Le luci restarono accese. Di fianco al binario, niente camicia o guanti insanguinati circondati da un bagliore spettrale. E quando raggiunsi il punto giusto, appena prima dell’ingresso nella Sala delle Torture, non comparve nessun fantasma con le mani tese verso di me.
Però c’era qualcosa. Dopo anni, ne sono ancora certo.
L’aria era fredda. Il respiro non si trasformava in vapore, ma la temperatura era calata. Pelle d’oca su braccia, gamba e inguine, la peluria sulla nuca rizzata come aculei.
«Fatti vedere», sussurrai, sentendomi stupido e allo stesso tempo terrorizzato. Volevo che capitasse qualcosa e insieme mi auguravo che non succedesse niente.
Un rumore. Un lungo e lento sospiro, non di un essere umano. Sembrava che qualcuno avesse aperto una valvola di sfiato. Poi sparì di colpo. E fu tutto, almeno per quel giorno.
«Te la sei presa comoda», borbottò Eddie quando mi ripresentai all’una meno un quarto. Era seduto sulla stessa cassetta della frutta, con i resti di un panino lattuga, pancetta e pomodoro in una mano e un bicchiere di plastica colmo di caffè nell’altra. Ero lercio da fare schifo. Eddie, invece, pareva fresco come una rosa.
«Le vetture erano luride. Prima di incerarle, ho dovuto lavarle.»
Parks scatarrò e, voltandosi, sputò a terra un filamento di muco. «Se vuoi una medaglia, mi spiace ma sono rimasto senza. Corri da Hardy. Dice che bisogna svuotare l’impianto d’irrigazione. Un lavoretto che dovrebbe tenere impegnato un culo pigro come te per il resto della giornata. In caso contrario, torna qui e ti troverò altro da fare, scegliendo qualcosa dal mio lungo elenco.»
«D’accordo.» Mi avviai, felice di allontanarmi.
«Ehi, bamboccio!»
Mi voltai di malavoglia.
«L’hai vista?»
«Eh?»
«Non prendermi per scemo», ghignò con un’aria cattiva. «So che cosa combinavi là dentro. Non sei il primo e non sarai l’ultimo. Allora, l’hai vista?»
«E tu?»
«No, mai», mi rispose, fissandomi con i suoi occhietti aguzzi che spiccavano sul volto asciutto e bruciato dal sole. Quanti anni poteva avere? Trenta? Sessanta? Difficile dirlo, come era impossibile stabilire se stava mentendo. Non mi importava. Volevo solo tenermene alla larga. Mi metteva a disagio.
Eddie sollevò le mani coperte dai guanti. «L’assassino portava un paio di questi. Lo sapevi?»
Annuii. «E una camicia in più.»
«Esatto.» Il ghigno si allargò. «Per non macchiarsi di sangue. E ha funzionato. Non l’hanno mai preso. Adesso sparisci di qui.»
Quando raggiunsi la Ruota del Sud, fu l’ombra di Lane a darmi il benvenuto. Lui era a metà giostra, arrampicato sull’intelaiatura. Prima di appoggiare tutto il peso sulle traverse d’acciaio, le saggiava col piede. Una borsa per gli attrezzi di cuoio gli penzolava da un fianco; ogni tanto ci ficcava dentro la mano, sfilando una chiave a bussola. Joyland disponeva di una sola attrazione al buio, ma quelle veloci o a grande altezza da terra, come la ruota panoramica, il Lampo, il Muro del Tuono e il Delirio Cosmico, erano numerose. D’estate, una squadra di manutenzione di tre elementi ne verificava il funzionamento tutti i giorni prima dello svegliarino, senza contare le visite (spesso senza preavviso) degli ispettori dei parchi divertimenti della Carolina del Nord. Però, secondo Lane, chi non si occupava in prima persona della propria giostra era pigro e irresponsabile. Un punto di vista che mi spinse a chiedermi quando Eddie Parks fosse salito per l’ultima volta su una vetturaaadel Castello, controllando le sbarre di sicurezzaaa.
Lane abbassò lo sguardo, si accorse di me e urlò: «Ma quel brutto figlio di puttana ti ha mandato in pausa pranzo?»
«Ho continuato a lavorare e ho perso il conto del tempo.» Comunque mi era venuta fame.
«Nella mia tana ho dell’insalata di pasta. Prendila pure. Ieri sera ne ho preparata troppa.»
Entrai nel piccolo gabbiotto, scovai un grande contenitore Tupperware e lo aprii. Quando Lane scese a terra, l’insalata era già nel mio stomaco e stavo ingollando un paio di biscotti farciti.
«Grazie, Lane. Davvero saporita.»
«Sì, sarei un’ottima moglie. Sganciami un biscotto prima di spazzolarmeli via tutti.»
Gli porsi la confezione. «Com’è messa la ruota?»
«Di rava o di fava, è brava e se la cava. Dopo avere digerito, ti andrebbe di darmi una mano con il motore?»
«Certo.»
Si sfilò la bombetta, facendosela rigirare attorno a un dito. Aveva i capelli neri raccolti in un piccolo codino e mi accorsi di qualche filo bianco che non avevo notato all’inizio dell’estate. «Ascoltami bene, Jonesy, Eddie Parks sarà anche un figlio del carrozzone, ma ciò non toglie che sia uno sporco figlio di troia. Ai suoi occhi, tu hai due difetti imperdonabili: sei giovane e non ti sei fermato alla terza media. Quando sarai stanco di sopportare le sue menate, fammi un fischio e lo obbligherò a lasciarti stare.»
«Grazie, ma al momento non ne ho bisogno.»
«Ne ero sicuro. Ho visto che te la sai cavare e ne sono rimasto colpito. Però con Eddie bisogna stare attenti.»
«È un prepotente.»
«Il bello è che, gratta gratta, sotto un bullo troverai sempre un codardo. Eddie non sfugge alla regola. Ha paura di molti dipendenti del parco, me compreso. Gli ho già dato un paio di lezioni in passato e non avrei problemi a rifarlo. Insomma, se un giorno ti andrà di tirare il fiato, sai a chi rivolgerti.»
«Posso chiederti un’informazione su di lui?»
«Spara.»
«Perché non si toglie mai quei guanti?»
Lane scoppiò a ridere, calcandosi in testa la bombetta dandole l’inclinazione voluta. «Soffre di psoriasi. Ha le mani coperte di scaglie, o almeno così racconta. Non ricordo l’ultima volta che gliele ho viste. Dice che senza guanti se le gratta fino a farsele sanguinare.»
«Forse per questo è tanto irascibile.»
«Penso funzioni al contrario: quel caratteraccio gli ha rovinato la pelle.» Si picchiettò una tempia con l’indice. «È sempre la mente a controllare il corpo. Forza, Jonesy, rimbocchiamoci le maniche.»
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Sistemammo la Ruota del Sud per il suo lungo riposo invernale, per poi dedicarci all’impianto di irrigazione. Quando finimmo di pulire le tubature con l’aria compressa e di riempire gli scarichi con litri di liquido antigelo, il sole stava calando dietro gli alberi a ovest del parco e le ombre iniziavano ad allungarsi.








