Текст книги "Joyland"
Автор книги: Stephen Edwin King
Жанры:
Ужасы
,сообщить о нарушении
Текущая страница: 5 (всего у книги 17 страниц)
Sul finire della canzone, li invitai a seguirmi con un gesto plateale della zampa sinistra (tendendo così forte il filo che quasi strappai via quella fottuta appendice che mi ciondolava dal posteriore) e li guidai verso la Cuccia. Mi vennero dietro senza lamentarsi o frignare, quasi fossi stato il pifferaio di Hamelin. Non fu il giorno migliore della mia brillante carriera nei panni del Simpatico Howie (sì, proprio brillante,a costo di peccare di immodestia), ma ci andò vicino.
♥
Quando i bambini si trovarono al sicuro, la piccola in gonna rosa ferma sulla soglia per salutarmi con la manina, mi voltai di scatto e, anche se ero immobile, tutto cominciò a girarmi attorno più veloce di prima.
Il sudore mi gocciolava negli occhi, facendomi vedere doppio. Barcollai sulle zampe posteriori. L’intero spettacolo, dal balletto d’esordio all’addio, era durato una decina di minuti al massimo, ma ero distrutto. Arrancai lungo la via del ritorno, senza la minima idea di che cosa mi aspettasse.
«Figliolo», mi chiamò qualcuno. «Vieni qui.»
Era il signor Easterbrook. Stava tenendo aperta una porta dietro al Pozzo dei Desideri,la tavola calda. Forse ero arrivato proprio da lì, troppo agitato e confuso per rendermene conto.
Mi fece entrare, chiuse l’uscio dietro di noi e abbassò la cerniera del costume. La pesantissima maschera di Howie mi scivolò dal capo e assaporai il meraviglioso refrigerio dell’aria condizionata. Brividi di freddo mi attraversarono la pelle, ancora bianca dopo i lunghi mesi invernali (non sarebbe rimasta tale a lungo). Respirai a pieni polmoni.
«Siediti sui gradini», mi suggerì lui. «Tra un secondo li avviserò di venirti a prendere, ma prima devi riacquistare fiato. I primi passi nelle vesti di Howie sono sempre difficili. La tua esibizione è stata particolarmente faticosa, ma straordinaria.»
«Grazie», biascicai a stento. Solo allora, lontano dal caldo e dalla confusione, mi resi conto che ero stato sul punto di crollare. «Grazie mille.»
«Se ti senti svenire, abbassa il capo.»
«No, no, ho solo un gran mal di testa.» Sfilai un braccio dalla tuta e mi asciugai la faccia grondante sudore. «Mi ha praticamente salvato la vita.»
«A luglio e agosto, quando l’umidità è alle stelle e la temperatura supera i trenta gradi, la pelliccia va indossata per non più di quindici minuti», continuò lui. «Se qualcuno cerca di vendertela diversamente, spediscilo dritto da me. Sarebbe anche una buona idea buttare giù un paio di compresse di sale. Vogliamo che voi ragazzi lavoriate sodo, ma non abbiamo intenzione di uccidervi.»
Si sfilò di tasca la ricetrasmittente, parlando a bassa voce e senza dilungarsi. Cinque minuti dopo, tornò il tipo di prima con il suo macinino, un paio di aspirine e una bottiglia di acqua ghiacciata, una vera benedizione. Nel frattempo Easterbrook mi si piazzò di fianco, sedendosi in cima alle scale che portavano giù al Corso con una cautela e una rigidità preoccupanti.
«Come ti chiami, figliolo?»
«Devin Jones, signore.»
«Ti hanno già soprannominato Jonesy?» Non aspettò che rispondessi. «Certo che sì, come in ogni fiera paesana che si rispetti, e in fondo il mio parco non è altro che questo, per quanto tirato a lucido. Un giorno quelli della Disney e di Knott’s Berry Farm si impadroniranno del mondo, ma forse qui non l’avranno vinta. A parte il caldo, ti sei divertito a indossare il costume per la prima volta?»
«Sì, mi è piaciuto.»
«Perché?»
«Perché alcuni bambini stavano piangendo, credo.»
Il vecchio sorrise. «E allora?»
«Prima o poi tuttisarebbero scoppiati in lacrime, ma sono riuscito a evitarlo.»
«Sì, ballando l’hokey pokey. Un lampo di genio. Come sapevi che avrebbe funzionato?»
«Non lo sapevo.» O forse sì, almeno in un certo senso.
Easterbrook sorrise di nuovo. «A Joyland gettiamo allo sbaraglio i nuovi arrivati, i pivelli, senza averli istruiti a dovere. Questo stratagemma incoraggia alcune persone più dotate di altre a comportarsi con spontaneità. È un particolare importante e di grande valore, per noi e per il nostro pubblico. Oggi hai imparato di te qualcosa che non conoscevi?»
«Oddio, non ne ho idea. Forse sì. Però… posso confessarle una stupidaggine, signore?»
«Tutto quello che ti passa per la testa.»
Esitai per un istante e alla fine decisi di prenderlo in parola. «Costringere i bambini a restare chiusi in una specie di giardino d’infanzia, per di più dentro un parco giochi, mi sembra una… una cattiveria.» Poi mi affrettai ad aggiungere: «Anche se la Borgata Incantata è molto, molto divertente».
«Devi capire, figliolo, che a Joyland siamo appena appena in attivo.» Mise pollice e indice quasi accostati per spiegarsi meglio. «Se i genitori sanno che ci occuperemo dei loro marmocchi, anche solo per un paio d’ore, allora si portano dietro l’intera famiglia. Se fossero costretti a pagare una babysitter, forse non verrebbero del tutto, e il nostro margine di profitto sparirebbe. Non hai torto, ma pure io ho le mie ragioni. Molti di questi bambini non hanno mai messo piede in un posto così. Resterà impresso nelle loro testoline, proprio come il loro primo film o il primo giorno di scuola. Grazie a te, non si ricorderanno di avere pianto dopo essere stati abbandonati per un po’ da mamma e papà, ma di avere ballato l’hokey pokey con il Simpatico Howie, apparso dal nulla come per magia.»
«Probabilmente sì.»
Easterbrook allungò la mano, non per sfiorare me ma per accarezzare il pelo del costume con le dita nodose mentre continuava a parlare. «Ai parchi della Disney tutto è programmato. Lo trovo disgustoso. Disgustoso.Secondo me giù a Orlando spacciano divertimento come se fosse droga. A me piace l’improvvisazione e talvolta mi capita di notare un genio in questo campo. Potresti essere tu. Troppo presto per esserne sicuri ma, sì, esiste questa probabilità.» Si appoggiò le mani sulle reni e si stiracchiò, sprigionando una serie di schiocchi assordanti. «Ti spiace se ti faccio compagnia fino al pulciaio? Per oggi ho preso abbastanza sole.»
«Il mio trabiccolo è il suo trabiccolo.» Che poi era la pura verità, visto che era lui il proprietario di Joyland.
«Penso che quest’estate indosserai spesso la pelliccia. Molti ragazzi la considerano una seccatura o addirittura una punizione. Non credo che per te sarà così.»
Non si sbagliava. Da allora ho avuto parecchi lavori; quello attuale da caporedattore è fantastico, probabilmente l’ultimo prima di finire tra le grinfie della pensione. Però, non mi sono mai sentito così a mio agio o stranamente felice come a ventun anni, ballando l’hokey pokey con il costume di Howie in una calda mattinata di giugno.
Merito dell’improvvisazione, signori miei.
♥
Dopo quell’estate restai amico di Erin e Tom, e continuo a rimanere in contatto con la mia rossa preferita, ormai soprattutto via email, Facebook o pranzando ogni tanto insieme a New York. Non ho mai incontrato il suo secondo marito. Lei mi assicura che è una brava persona e io le credo. Perché non dovrei? Dopo essere stata sposata al migliore per diciotto anni, non potrebbe mai essersi scelta uno stronzo, non con una simile pietra di paragone.
Nella primavera del 1992 a Tom venne diagnosticato un tumore al cervello. Sei mesi dopo era morto. Quando mi chiamò per dirmi che era malato, l’abituale parlantina a raffica rallentata dalla palla da demolizione che gli sbatacchiava nella testa, ne rimasi sgomento e abbattuto, come chiunque altro venendo a sapere che un amico nel fiore degli anni era prossimo alla fine. In quei momenti, ti viene voglia di chiederti come una cosa simile possa essere giusta. Tom si sarebbe meritato una lunga vita piena di belle sorprese, tra cui un paio di nipotini e la vacanza all’isola di Maui da tempo sognata.
Una volta a Joyland mi capitò di sentire in bocca a Pop Allen l’espressione «bruciare la vigna». Nel gergo di Joyland, significava imbrogliare spudoratamente i bifolchi, convinti di partecipare a un gioco onesto, e poi battersela. Ricordai queste esatte parole, dopo tanti anni, quando Tom mi comunicò la brutta notizia.
Però la mente cerca di opporre resistenza finché può. Quando finisce il primo attimo di smarrimento, in genere pensi: D’accordo, è terribile, ma non tutto è perduto; forse c’è ancora una via d’uscita. Anche se il novantacinque per cento di quelli che pescano questa carta finiscono sottoterra, resta un cinque per cento di fortunati. In ogni caso, i medici sono esperti nello sbagliare diagnosi. E, comunque, esiste sempre la speranza di un miracolo.
Pensi così e dopo arriva la seconda mazzata. A darla, la bella ragazza di un tempo, che a Joyland scorrazzava con un vestitino verde svolazzante e un frivolo berretto alla Robin Hood, brandendo un’enorme macchina a soffietto a cui nessun frolloccone sapeva resistere. Come tirarsi indietro di fronte a quella cascata di capelli rosso fuoco e a quel sorriso invitante? Come dirle di no?
Be’, Dio lo fece, bruciando la vigna di Tom e di conseguenza quella di Erin. Quando alzai la cornetta alle cinque e mezzo di uno splendido pomeriggio d’ottobre a Westchester, la ragazza era diventata una donna con la voce spezzata dai singhiozzi, vecchia ed esausta. «Tom è morto alle due, circa tre ore fa. Non ha sofferto. Non riusciva a parlare ma era cosciente. Lui… Dev, lui mi ha stretto la mano quando gli ho detto addio.»
«Avrei voluto essere lì», risposi.
«Lo so», sussurrò, con il tono tremulo che poi si fece saldo. «Sì, sarebbe stato bello.»
Pensi: D’accordo, ho capito e sono pronto al peggio, ma conservi una piccola speranza che alla fine ti fotte. Che alla fine ti uccide dentro.
Le parlai, dicendole quanto le volevo bene e quanto ne avevo voluto a Tom, che sarei venuto al funerale e che in caso di bisogno avrebbe dovuto chiamarmi. Giorno e notte. Poi riagganciai, chinai il capo e scoppiai a piangere come un bambino.
La fine del primo amore non è paragonabile alla morte di un vecchio amico e alla sofferenza di un’altra persona cara, ma lo schema si rivelò lo stesso, esattamente identico. Se la rottura con Wendy fu la fine del mondo, causando prima quei famosi pensieri suicidi (per quanto sciocchi e vaghi) e poi il cambiamento epocale che modificò il corso della mia tranquilla esistenza, dovete capire che all’epoca non avevo nessun termine di confronto. Anche quello è essere giovani.
♥
Con il proseguire di giugno, iniziai a sospettare che il mio rapporto con Wendy fosse ridotto peggio della rosa malata della poesia di William Blake. Mi rifiutai però di credere che fosse davvero condannato, anche quando i segni si fecero sempre più chiari.
Le lettere, per esempio. Durante la prima settimana dalla signora Shoplaw, le scrissi quattro papiri, anche se a Joyland non avevo un solo momento libero e ogni notte mi trascinavo nella mia stanza al primo piano con la testa zeppa di nuove nozioni ed esperienze, sentendomi come uno studente sbattuto a metà semestre in un corso universitario di quelli tosti (tipo studio avanzato del divertimentificio). Per tutta risposta ricevetti una sola cartolina, con il Boston Common sul davanti e sul retro uno stravagante messaggio a più mani. In cima, in una grafia a me sconosciuta, lessi: Wenny scrive. Mentre Rennie è alla guida! Sotto, Wendy (o Wenny, se preferite; io, questo nomignolo, lo odiai subito) aveva allegramente aggiunto: Evviva! Noi commesse, in gita a Cape Cod! Che slego! Musica spaziale! No preoccupa, io al volante Mentre Ren scribacchia sua parte» Spero tutto bene. W.
Musica spaziale? Spero tutto bene? Niente ti amo, mi manchi? A giudicare da scarabocchi, sbavature e macchie d’inchiostro, quelle due avevano scritto la cartolina quando erano in viaggio sull’auto di Renee (Wendy ne era sprovvista), ma sembravano anche ubriache o fatte come cocuzze. La settimana successiva le mandai altre quattro lettere, insieme con una foto scattata da Erin mentre indossavo il costume di Howie. Nessuna risposta.
Prima ti preoccupi, poi inizi a sospettare qualcosa, e alla fine capisci tutto. Magari menti a te stesso, magari pensi che gli innamorati si sbaglino più dei medici, ma in cuor tuo sai la verità.
La chiamai in due occasioni e rispose sempre la solita tipa immusonita. Me la immaginai senza rossetto, con un paio di occhiali a farfalla e un vestito da zitella lungo fino alle caviglie. Non c’è, mi comunicò all’inizio. È uscita con Ren. Non c’è e non tornerà, specificò la seconda volta. Ha traslocato.
«E dove?» chiesi con una certa apprensione. Mi trovavo nel salotto di casa Shoplaw. Di fianco al telefono era appeso un foglio per segnare le chiamate interurbane. Tenevo talmente stretto l’enorme, antiquato ricevitore che mi si erano addormentate la dita. Wendy riusciva a frequentare l’università per il rotto della cuffia, grazie a una serie di borse di studio, prestiti e lavoretti extra, proprio come me. Non poteva permettersi di vivere da sola. Non senza un aiuto.
«Non lo so e non me ne importa niente», rispose la Musona. «Mi ero stufata delle continue bisbocce e delle feste di addio al nubilato alle due del mattino. C’è a chi piace dormire, strano ma vero.»
Il cuore mi batteva così forte che me lo sentivo pulsare fin nelle tempie. «Renee è andata via con lei?»
«No, hanno litigato. Per via di quel ragazzo. È lui che ha aiutato Wenniea traslocare.» Pronunciò il nomignolo con un tale disprezzo da farmi venire la nausea. Non poteva essere la faccenda del tizio a farmi star male: il suo ragazzo ero io.Se un compagno o un collega le avevano dato una mano a fare i bagagli, che importanza aveva? Poteva benissimo avere degli amici. Anch’io avevo un’amica, una sola, ma meglio di niente.
«Renee è lì? Me la passi?»
«No, è uscita con uno.» All’improvviso la sconosciuta parve interessata alla conversazione. Aveva intuito qualcosa. «Ehi, per caso ti chiami Devin?»
Riagganciai quasi senza rendermene conto. Mi dissi che non avevo sentito la Musona trasformarsi di colpo in Musona Eccitata, come se avesse appena riconosciuto una barzelletta di cui facevo parte, forse addirittura nel ruolo del protagonista. A costo di ripetermi, la mente cerca di opporre resistenza finché può.
♥
Tre giorni dopo, ricevetti l’unica missiva da Wendy di quell’estate. L’ultima, in assoluto. Scritta sulla sua carta da lettere, uso mano, decorata da tanti gattini felici di giocare con gomitoli di lana: perfetta per una bambina di quinta elementare, come riflettei in seguito. Erano tre pagine buttate giù di getto, dove lei raccontava che le dispiaceva molto, che aveva cercato di combattere quel forte sentimento di attrazione ma che era stato inutile, che sapeva ci sarei rimasto male e che quindi per un po’ avrei fatto meglio a non chiamarla o cercare di vederla, che sperava avrei superato la botta iniziale e che saremmo rimasti buoni amici, che lui era un bravissimo ragazzo, che frequentava Dartmouth e giocava a lacrosse, che forse me l’avrebbe presentato all’inizio del semestre autunnale, che eccetera eccetera e vaffanculo.
Quella sera, mi afflosciai sulla spiaggia a una cinquantina di metri dal mio appartamento, deciso a ubriacarmi.
Almeno non avrei speso molto. A quei tempi, bastava una confezione da sei di birra per farmi venire gli occhi lucidi. A un certo punto Erin e Tom si unirono a me e guardammo le onde infrangersi sulla battigia: i tre moschettieri di Joyland.
«Qualcosa non va?» domandò lei.
Alzai le spalle, come se si trattasse di una stronzata, di una semplice seccatura. «La mia ragazza mi ha scaricato. Mi ha appena mandato la disdetta.»
«Dis-Devin, nel tuo caso specifico», precisò Tom.
«Cerca di avere un minimo di pietà», lo sgridò Erin. «È triste, sta male e tenta di nasconderlo. Sei così scemo da non accorgertene?»
«No», rispose lui. Mi cinse le spalle con un braccio, stringendomi forte per un istante. «Mi dispiace per il tuo dolore, amico. Sento che spira da te come un vento gelido del Canada o persino dell’Artico. Ti secca se prendo una birra?»
«Serviti pure.»
Restammo lì per un po’. Erin mi fece qualche domanda, senza insistere, e io tirai fuori qualcosa, ma non tutto. Ero triste e stavo male, senza dubbio. Però c’era molto di più, e non volevo che loro due lo capissero. In parte perché i miei genitori mi avevano cresciuto nella convinzione che vomitare addosso agli altri i propri sentimenti fosse il massimo della maleducazione, ma soprattutto perché ero stupito di quanto fosse forte e profonda la mia gelosia. Non dovevano scoprire che ero roso da quel tarlo (lui frequentava Dartmouth,oddio, magnifico, probabilmente era membro della confraternita più in vista e guidava la Mustang che i genitori gli avevano regalato per la maturità). E la gelosia non era nemmeno il peggio. Quella sera, iniziò a tormentarmi l’orrida consapevolezza di essere stato rifiutato completamente e definitivamente per la prima volta nella mia vita. Lei mi aveva mollato ma io le ero ancora legato a doppio filo.
Anche Erin prese una lattina, sollevandola verso di me. «Brindiamo alla prossima che verrà. Non so chi sarà, Dev, ma solo che dovrà considerarsi fortunata di averti incontrato.»
«Ma senti senti!» affermò Tom, alzando la sua birra. E per non smentirsi, aggiunse: «Senti senti! Dove dove? Laggiù laggiù!»
Non penso che nessuno dei due si rese conto, in quel momento o per tutto il resto dell’estate, che mi era crollato il mondo addosso. Che mi sentivo sperduto. Meglio che ne rimanessero all’oscuro. Più che imbarazzante, era quasi disonorevole. Così mi sforzai di sorridere, alzai la mia lattina e bevvi.
Grazie al loro aiuto, non mi scolai da solo la confezione da sei e il mattino dopo mi svegliai con il cuore infranto ma senza i postumi di una sbronza. Fu un bene, perché quando arrivammo a Joyland quel mattino, Pop Allen mi informò che il pomeriggio avrei dovuto indossare la pelliccia lungo il viale principale: tre esibizioni di quindici minuti ciascuna, alle tre, alle quattro e alle cinque.
Come da tradizione, non mancai di lamentarmi (tutti lo facevano) ma in realtà ne ero felice. Mi piaceva che i bambini mi saltassero addosso e, per un paio di settimane, calarmi nelle vesti di Howie ebbe anche un retrogusto amarognolo. Mentre marciavo lungo la strada, seguito da folle di marmocchi ridenti, pensai che non dovevo meravigliarmi se Wendy mi aveva lasciato. Il nuovo ragazzo frequentava l’Università di Dartmouth e giocava a lacrosse. La sua vecchia fiamma stava passando l’estate in un parco divertimenti di terza categoria, travestito da cane.
♥
L’estate a Joyland.
Manovravo le attrazioni e di mattina rimpiumavo i baracconi (ovvero, li rifornivo di premi) per poi occuparmene di persona al pomeriggio. Disincastravo decine di Bolidi Infernali, imparavo a friggere la pastella senza bruciarmi le dita e perfezionavo il mio discorsetto per la Ruota del Sud. Ballavo e cantavo con gli altri pivelli sul palco del teatrino della Borgata. Fred Dean mi mandava spesso a mietere il grano, una vera dimostrazione di fiducia, perché consisteva nel ritirare dai vari chioschi l’incasso di mezzogiorno o delle cinque di pomeriggio. Spesso schizzavo a Heaven’s Bay o Wilmington per un pezzo di ricambio e il mercoledì sera tiravo tardi a lubrificare le Tazze Ballerine e una giostra mozzafiato battezzata Lampo, in compagnia di Tom, George Preston e Ronnie Houston. Quei due aggeggi bevevano olio come i cammelli l’acqua. E, naturalmente, continuavo a indossare la pelliccia.
Nonostante tutto questo, non riuscivo a dormire, manco per il cazzo. Ogni tanto mi sdraiavo a letto, mi infilavo le vecchie cuffie tenute insieme dal nastro adesivo e ascoltavo i Doors. Avevo una particolare predilezione per motivetti allegri come Cars Hiss By My Window, Riders on the Storme naturalmente The End.Se la voce di Jim Morrison e le note spettrali della tastiera di Ray Manzarek non bastavano a calmarmi, sgattaiolavo giù dalla scala esterna e passeggiavo sulla spiaggia. Un paio di volte mi addormentai in riva al mare. Quando mi assopivo per un po’, almeno non venivo tormentato dagli incubi. Probabilmente quell’estate non sognai mai.
Quando mi radevo la mattina, mi accorgevo delle borse sotto gli occhi, e di tanto in tanto mi girava la testa dopo un’esibizione particolarmente faticosa nei panni di Howie (il peggio erano le feste di compleanno nella baraonda infuocata della Cuccia), ma non c’era nulla di strano: il signor Easterbrook mi aveva avvertito. Un riposino nel pulciaio mi rimetteva subito in sesto. Insomma, «tenevo botta», come si dice adesso. Imparai che la faccenda non stava esattamente così il primo venerdì di luglio, due giorni prima del giorno dell’indipendenza.
La mia squadra, la Bracchetto, si presentò come sempre da Pop Allen, che ci affidò le varie mansioni mentre sistemava i fucili ad aria compressa. In genere i compiti del primo mattino consistevano nel caricarsi in spalla gli scatoloni di premi (per la maggior parte con l’etichetta MADE IN TAIWAN) e rimpiumare i baracconi fino allo svegliarino, ossia l’apertura del parco. Però, quel giorno Pop mi disse che Lane Hardy aveva bisogno di me. Ne rimasi sorpreso: di solito faceva capolino dal pulciaio solo quando mancava una ventina di minuti all’inizio. Puntai in quella direzione, ma Pop mi bloccò con un urlo.
«No, no, è al montafessi.» Non avrebbe mai indicato la ruota panoramica con quel termine dispregiativo se Lane si fosse trovato nei paraggi. «Gambe in spalla, giovane. Oggi il lavoro non manca.»
Obbedii, ma non trovai nessuno vicino alla ruota che si stagliava immobile e silenziosa contro il cielo, in attesa dei primi passeggeri.
«Qui», gridò una voce di donna. Mi voltai verso sinistra e vidi Rozzie Gold davanti al suo baraccone da veggente tempestato di stelle. Indossava una delle sue misestratificate da zingara, in perfetta tenuta da Madame Fortuna. In testa aveva un foulard blu elettrico, con le cocche intrecciate che le sfioravano il fondoschiena. Lane le era accanto, nella sua solita uniforme: jeans a sigaretta sbiaditi, una canotta aderente che metteva in risalto i pettorali robusti, la bombetta sulle ventitré da bullo di strada. A vederlo lo avresti preso per scemo, eppure non lo era per niente.
I due erano pronti per lo spettacolo, ma con un’aria torva in volto. Passai velocemente in rassegna gli ultimi giorni, sforzandomi di pensare a una bravata che giustificasse quelle espressioni. Mi venne in mente che forse Lane aveva ricevuto l’ordine di licenziarmi, di sbattermi fuori per sempre. Però, in piena estate? E, nel caso, non sarebbe stato compito di Fred Dean o Brenda Rafferty? E perché Rozzie si trovava lì?
«È morto qualcuno?» domandai.
«Tu no, almeno per il momento», rispose lei. Si stava calando nella parte e aveva uno strano accento, mezzo dei Carpazi e mezzo di Brooklyn.
«Eh?»
«Seguici, Jonesy», mi invitò Lane, incamminandosi giù per il parco, quasi deserto a un’ora e mezzo dallo svegliarino. In giro c’era solo un gruppo sparuto di addetti alle pulizie (i rincitrulli, secondo la Parlata, sicuramente sprovvisti di permesso di soggiorno) che scopavano i passaggi tra i chioschi: un lavoro che avrebbero dovuto sbrigare la sera prima. Sembravo un manigoldo scortato in gattabuia da un paio di sbirri.
«Che cosa succede?»
«Te ne accorgerai presto», replicò Rozzie-Madame Fortuna con un tono minaccioso, e non aveva torto. Raggiungemmo il Labirinto di Mysterio, che era collegato al Castello del Brivido. Di fianco al gabbiotto, uno specchio normale sovrastato da un cartello che recitava: RICORDA IL TUO VEROASPETTO. Lane mi afferrò per un braccio, Rozzie per l’altro e mi ci trascinarono davanti. Ormai mi sentivo un furfante arrestato per un giro di scommesse clandestine.
«Che cosa vedi?»
«Che ho bisogno di farmi tagliare i capelli», replicai, ma non era la risposta giusta.
«Guardati i vestiti, sciocco di uno sciocco.» Rozzie pronunciò le ultime parole ziocco ti uno ziocco.