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Joyland
  • Текст добавлен: 9 октября 2016, 19:10

Текст книги "Joyland"


Автор книги: Stephen Edwin King


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Ужасы

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Nell’autunno del 1968, gli studenti dell’Università del New Hampshire di ritorno dalla pausa estiva scoprirono l’«ufficio» del professor Nako nel sottoscala del seminterrato della Hamilton Smith Hall. Era tappezzato di falsi diplomi di laurea, strani acquerelli indicati come «pittura albanese» e mappe dei posti a sedere con nomi tipo Elizabeth Taylor, Robert Zimmerman e Lyndon Beans Johnson segnati a matita negli appositi spazi. Erano anche riportati titoli di tesi che nessuno aveva mai scritto. Ne ricordo un paio, Attrici porno orientalie Uno studio della poesia giovanile di Cthulhu.C’erano tre posacenere a stelo e un cartello appiccicato sul lato nascosto del sottoscala che recitava: IL PROFESSOR NAKO INFORMA CHE NON È MAI VIETATO FUMARE! A completare il tutto, due poltroncine fruste e un divano altrettanto consumato, perfetto per gli studenti alla ricerca di un’alcova dove limonare tranquilli.

Il mercoledì prima del mio ultimo esame del semestre era stranamente caldo e umido, almeno per la stagione. Verso l’una del pomeriggio, nuvole temporalesche cominciarono ad addensarsi minacciose e verso le quattro, all’ora dell’appuntamento con Wendy nell’ufficio sotterraneo di George B. Nako, le cateratte del cielo si aprirono e iniziò a diluviare. Io arrivai per primo. Lei mi raggiunse cinque minuti dopo, bagnata fino all’osso ma di ottimo umore. Gocce di pioggia le brillavano tra i capelli. Mi si gettò tra le braccia, strusciandosi contro di me e ridendo. Un tuono riecheggiò assordante; le poche luci che penzolavano nella buia entrata del seminterrato tremolarono per un attimo.

«Stringimi stringimi stringimi», disse. «Quella pioggia è cosìfredda.»

Ci scaldammo a vicenda. Presto ci ritrovammo avvinghiati sul vecchio divano, la mia mano sinistra a cingerla e a racchiudere il seno nudo sotto la camicetta, la destra infilata su per la gonna fino a sfiorare le mutandine di seta e pizzo. Lei mi lasciò fare per un paio di minuti, poi si drizzò a sedere e si allontanò, risistemandosi i capelli.

«Basta così», affermò con un’aria da maestrina. «E se arrivasse il professor Nako?»

«Piuttosto inverosimile.» Sorridevo, ma sotto la cintola cominciavo a sentire un gonfiore familiare. Ogni tanto Wendy era disposta ad alleviarlo, ormai esperta nell’arte di quello che chiamavamo «lavoretto nei jeans», ma non credevo che quel giorno sarebbe successo.

«Una delle sue studentesse, allora, che lo supplica per una sufficienza dell’ultimo minuto», proseguì lei. «‘La prego, professor Nako, la prego la prego la prego,sarei disposta a fare qualsiasi cosa.’»

Anche una simile ipotesi era improbabile, però era vero, esisteva la seria possibilità di essere disturbati. C’era sempre chi passava per segnare nuovi titoli di tesi inventate o appendere altri capolavori della pittura albanese. Il divano era perfetto per pomiciare, il posto in sé decisamente meno. Forse una volta lo era stato, ma non da quando era diventato un punto di riferimento quasi leggendario per gli studenti di lettere e filosofia.

«Com’è andato l’esame di sociologia di fine semestre?» le domandai.

«Bene. Non penso di avere azzeccato tutte le risposte, ma mi basta averlo passato. Soprattutto perché è l’ultimo.» Si stiracchiò, sfiorando con le dita la linea frastagliata delle scale sopra di noi. Il seno le si sollevò, mandandomi in estasi. «Schizzerò via di qui tra…» Lanciò un’occhiata all’orologio. «Esattamente un’ora e dieci minuti.»

«Con Renee?» La sua compagna di stanza non rientrava tra le mie simpatie, ma mi guardai bene dal confessarlo. L’unica volta che ci avevo provato, Wendy e io avevamo avuto un breve e feroce litigio, con lei che mi accusava di cercare di controllarle la vita.

«Corretto, signore. Mi scarrozzerà dalla mia matrigna e da papà. E tra una settimana, faremo ufficialmente parte del personale di Filene’s!»

Da quanto era eccitata, sembrava che lei e l’amica fossero state appena assunte come vallette alla Casa Bianca, ma anche in quel caso tenni il becco chiuso. Avevo altro per la testa. «Comunque sabato verrai a Berwick, vero?» Secondo i nostri progetti, lei sarebbe arrivata al mattino, avrebbe passato lì il resto della giornata e si sarebbe fermata a dormire. Naturalmente avrebbe usato la camera degli ospiti, che però era a pochi metri dalla mia lungo il corridoio. Considerando che probabilmente non ci saremmo rivisti prima dell’autunno, pensavo esistessero ottime possibilità di «farlo». Un po’ come i bambini credono in Babbo Natale e le matricole dell’UNH per un intero semestre vivono nell’illusione che George B. Nako sia un professore in carne e ossa e che insegni davvero letteratura inglese.

«Azzolutamente zi.»Wendy si guardò attorno, non scorse nessuno, e risalì con la mano lungo la mia coscia. Quando raggiunse il cavallo dei pantaloni, tirò gentilmente la protuberanza. «Vieni qui, tu.»

E così mi meritai il mio lavoretto nei jeans. Uno dei migliori, lento e ritmato. I tuoni rumoreggiavano e a un certo punto il lamento dell’acquazzone si trasformò nel picchiettare insistente della grandine. Alla fine lei me lo strinse, intensificando e prolungando il piacere dell’orgasmo.

«Fa’ in modo di inzupparti a dovere mentre torni al dormitorio, altrimenti il mondo intero capirà esattamente che cosa stavamo combinando qui sotto.» Saltò in piedi. «Scappo, Dev. Ho i bagagli da finire.»

«Sabato ti verrò a prendere a mezzogiorno. Per cena mio padre cucinerà la sua famosa parmigiana di pollo.»

Wendy ripeté azzolutamente zi;era un suo vezzo, come baciarmi in punta di piedi. Però, venerdì mi telefonò: Renee aveva cambiato idea e loro due sarebbero partite per Boston un paio di giorni in anticipo. «Mi dispiace, Dev, ma senza di lei sono appiedata.»

«Esistono sempre i pullman», obiettai, già sapendo che non avrebbe funzionato.

«Ormai gliel’ho promesso, tesoro. E poi abbiamo i biglietti per Pippinall’ Imperial.Il padre di Renee ci ha fatto una sorpresa e ce li ha regalati.» Un attimo di pausa. «Sforzati di essere felice per me. Io sono contenta che tu abbia trovato un lavoro laggiù in Carolina.»

«Devo essere felice. Ricevuto, forte e chiaro.»

«Così va meglio.» Abbassò la voce, come a rivelare un segreto. «La prossima volta che saremo insieme mi saprò far perdonare. È una promessa.»

Non la mantenne mai ma in fondo non ebbe occasione di infrangerla, perché dopo quel pomeriggio nell’ufficio del professor Nako non la vidi più. Da parte mia non ci fu neppure un’ultima telefonata grondante lacrime e accuse. Fu Tom Kennedy a consigliarmi di evitare (di lui parlerò tra non molto), forse giustamente. Magari Wendy si aspettava una chiamata simile, o addirittura la pregustava. In tal caso, rimase delusa.

Cosa che io spero e continuo a sperare, dopo tutto il tempo che è passato, con le scalmane e le infatuazioni della giovinezza ormai alle spalle.

L’amore lascia delle brutte cicatrici.

Non ho mai partorito i libri che sognavo di scrivere, quelli ben recensiti anche senza essere in vetta alle classifiche, ma riesco a portare a casa la pagnotta come giornalista e mi ritengo un miracolato; milioni di altri sono meno fortunati di me. Ho salito un gradino dopo l’altro e ora ho una buona posizione qui al Commercial Flight,una pubblicazione che probabilmente non avete mai sentito nominare.

Un anno dopo essere promosso caporedattore, mi è capitato di rimettere piede nel campus dell’Università del New Hampshire. Ero lì per partecipare a una conferenza di due giorni sul futuro delle riviste di settore. La seconda mattina, durante una pausa, passeggiai fino alla Hamilton Smith Hall e giusto per curiosità buttai un occhio nel sottoscala del seminterrato. I titoli delle tesi, le mappe dei posti a sedere affollate di celebrità e gli acquerelli albanesi erano spariti. Il medesimo destino era toccato alle poltrone, al divano e ai posacenere a stelo. Però, qualcunoancora ricordava tutto. Attaccato con il nastro adesivo al lato nascosto del sottoscala, dove decenni prima un cartello recitava che non era mai vietato fumare, notai un foglio con un’unica riga stampata in caratteri così microscopici che per leggerla fui costretto ad avvicinarmi, alzandomi sulla punta dei piedi.

Il professor Nako ora insegna alla Scuola dì Magia e Stregoneria di Hogwarts.

Be’, perché no?

Cazzo, sul serio, perché no?

Riguardo a Wendy, un’ipotesi vale l’altra. Forse potrei servirmi di Google, la sfera di cristallo del ventunesimo secolo, per stanarla e scoprire se ha realizzato il suosogno, quello di aprire un esclusivissimo negozietto d’abbigliamento, ma perché dovrei? Il passato non ritorna. Quando è finita, è finita. E dopo il mio periodo a Joyland (a qualche chilometro di spiaggia da una città chiamata Heaven’s Bay, non dimentichiamocelo), il mio cuore spezzato cominciò a farmi molto meno male. Gran parte del merito fu di Mike e Annie Ross.

Alla fine papà e io ci ritrovammo a mangiare la sua famosa parmigiana di pollo senza terzo incomodo, cosa che probabilmente a Timothy Jones andava benissimo: nonostante avesse sempre cercato di nasconderlo come forma di cortesia nei miei confronti, sapevo che su Wendy la pensava esattamente come io la pensavo su Renee. All’epoca, ero convinto che fosse un po’ geloso di lei e del posto che occupava nella mia vita. Con il passare del tempo, ho capito che forse l’aveva vista com’era realmente. Non ne sono certo; non ne abbiamo mai discusso. Non credo che gli uomini siano in grado di parlare di donne in maniera sensata.

Dopo avere finito di cenare e di lavare i piatti, ci accomodammo sul divano, bevendo birra, sgranocchiando popcorn e guardando un film con Gene Hackman per protagonista, nella parte di uno sbirro cazzuto con una forma di feticismo per i piedi femminili. Wendy mi mancava; probabilmente in quell’istante stava ascoltando la compagnia teatrale di Pippinintonare Spread a Little Sunshine.Però c’erano dei vantaggi a essere due uomini soli, tipo ruttare e scorreggiare apertamente.

Il giorno dopo, l’ultimo del mio ritorno a casa, passeggiammo lungo i binari abbandonati della ferrovia che attraversavano il bosco dietro la villetta in cui ero cresciuto. Mamma aveva sempre intimato a me e ai miei amici di starne lontani. L’ultimo treno merci era passato più di dieci anni prima e le erbacce prosperavano in mezzo alle traversine arrugginite, ma mia madre era irremovibile. Era convinta che, se avessimo giocato nei paraggi, un convoglio impazzito (probabilmente il Rapido Mangiabimbi) ci avrebbe investiti subitaneo come il fulmine riducendoci in poltiglia. Soltanto che fu lei a essere colpita da qualcosa di imprevisto e più pericoloso di un treno, un tumore al seno con metastasi a quarantasette anni. Un rapido che non perdona.

«Quest’estate mi mancherai», esordì mio padre.

«Anche tu.»

«Oh, prima che me ne scordi.» Sfilò un assegno dal taschino della camicia. «Versalo subito e raccomandati che ti venga accreditato al più presto.»

Controllai la cifra: non i cinquecento dollari che avevo chiesto, ma mille. «Papà, sei certo di potertelo permettere?»

«Sì. Soprattutto perché hai continuato a lavorare in mensa e così non sono stato costretto a metterci la differenza. Consideralo una gratifica.»

Lo baciai sulla guancia, leggermente ispida. Quel mattino non si era rasato. «Grazie.»

«Figurati. Per me è un piacere e lo sai.» Tirò fuori di tasca un fazzoletto e si asciugò le lacrime senza nessuna vergogna. «Mi dispiace per il piagnisteo. È dura vedere andare via i propri piccoli. Un giorno lo scoprirai da solo, ma con un briciolo di fortuna avrai una brava moglie al tuo fianco, che ti terrà compagnia dopo che sono spariti.»

Ripensai alla frase della signora Shoplaw: I figli sono un azzardo.«Papà, sicuro che starai bene?»

Lui fece sparire il fazzoletto e mi regalò un sorriso solare e spontaneo. «Sì, a patto che mi chiami ogni tanto. E manda tutti al diavolo se vogliono metterti a scalare uno dei loro fottuti otto volanti.»

Gli risposi che l’avrei fatto, anche se l’idea sembrava piuttosto eccitante.

«E…» Ma si interruppe subito, non permettendomi di capire se avesse in mente un consiglio o un avvertimento. «Guarda là!»

A una cinquantina di metri, una cerbiatta era uscita dal bosco. Scavalcò con estrema grazia un binario arrugginito e si fermò in mezzo alle traversine, dove le erbacce e le verghe d’oro erano così alte da strusciarle contro i fianchi. Restò ferma a guardarci, calma, le orecchie dritte in avanti. Di quell’attimo ricordo soprattutto il silenzio. Nessun canto di uccelli, nessun rombo di aerei. Se mia madre fosse stata con noi, avrebbe sfoderato la sua macchina fotografica, scattando a ripetizione. Quando ci pensai, sentii la sua mancanza come non succedeva da anni.

Strinsi mio padre, un abbraccio forte e veloce. «Ti voglio bene, papà.»

«Lo so», rispose. «Lo so.»

Quando mi voltai, la cerbiatta era sparita. Il giorno dopo me ne andai anch’io.

Quando ritornai alla grande casa grigia alla fine della strada principale di Heaven’s Bay, l’insegna di conchiglie era stata tolta e messa da parte, perché la signora Shoplaw aveva fatto il tutto esaurito. Benedissi Lane Hardy per avermi consigliato di procurarmi subito un posto dove vivere. Le truppe estive di Joyland erano arrivate e le pensioni della città erano strapiene.

Dividevo il primo piano con Tina Ackerley, la bibliotecaria. Emmalina aveva affittato le camere del secondo a Erin Cook, una specializzanda in arte rossa di capelli, e a Tom Kennedy, un tipo tarchiato al secondo anno della Rutgers. Erin, che aveva frequentato i corsi di fotografia al liceo e alla Bard, era stata ingaggiata come Sirena di Hollywood. Quanto a Tom e a me…

«Allegri Aiutanti», affermò lui. «Mansioni varie, in altre parole. O almeno così ha segnato Fred Dean sulla mia domanda. E tu?»

«Lo stesso. Probabilmente ci metteranno a lavare i pavimenti.»

«Ne dubito.»

«Sul serio. Perché?»

«Siamo bianchi.» In effetti, anche se ci toccarono parecchi turni di ramazza, Tom aveva assolutamente ragione. Gli addetti alle pulizie erano tutti dominicani e haitiani, quasi di sicuro senza permesso di soggiorno: venti uomini e una trentina di donne in tute da lavoro con il muso del Simpatico Howie cucito sul davanti. Vivevano in un paesino dell’entroterra, a una quindicina di chilometri dal parco, e venivano scarrozzati avanti e indietro su un paio di vecchi pulmini. Tom e io eravamo pagati quattro dollari l’ora, Erin un po’ di più. Chissà quanto guadagnavano quei poveretti. Erano sfruttati, naturalmente, e affermare che il Sud straripava di manodopera illegale trattata molto peggio non è una giustificazione valida, così come non lo è sottolineare che è roba di quarant’anni fa. Però avevano un leggero vantaggio: non erano costretti a indossare la pelliccia. E neanche Erin.

Tom e io invece sì.

La sera prima di cominciare il nostro nuovo lavoro, noi tre eravamo seduti nel salotto di casa Shoplaw, per conoscerci meglio e azzardare ipotesi sul nostro futuro. Mentre parlavamo, la luna saliva sopra l’Atlantico, placida e bella come la cerbiatta che mio padre e io avevamo visto lungo i vecchi binari della ferrovia.

«In fin dei conti è un parco divertimenti», affermò Erin. «Il lavoro non sarà poi così duro.»

«Facile per te dirlo», le rispose Tom. «Tu non dovrai pulire con l’idrante le Tazze Ballerine, dopo che un gruppo di lupetti ci ha rigettato sopra a metà giro.»

«Non mi tirerò indietro davanti a nulla. Se, oltre a scattare foto, sarò costretta ad asciugare pozze di vomito, pazienza. Ho bisogno di questo lavoro. Il prossimo anno mi aspetta la scuola di specializzazione e sono quasi in bolletta.»

«Dovremmo cercare di far parte dello stesso gruppo», dichiarò Tom, come poi accadde. A Joyland i nomi di cane si sprecavano e noi ci ritrovammo nella Squadra Bracchetto.

In quel preciso istante Emmalina Shoplaw entrò nella stanza, portando un vassoio con sopra cinque calici. La signorina Ackerley – una spilungona con enormi occhi dietro le lenti e un’aria alla Joyce Carol Oates – le camminava accanto reggendo una bottiglia. Tom Kennedy si ringalluzzì. «Sto sognando o è un gazzosino francese? La confezione è un po’ troppo elegante per del vinaccio da supermercato.»

«Sì, è champagne», ammise Emmalina. «Se però ti stai aspettando del Moët & Chandon, caro il mio signor Kennedy, temo resterai deluso. Non è vinello frizzante, ma neanche una marca pregiatissima.»

«Posso parlare solo per me, ma considerando che le mie papille sono abituate al sidro dolce, non credo che mi lamenterò», rispose Tom.

La donna sorrise. «Saluto sempre così l’inizio dell’estate, nella speranza sia di buon auspicio. In genere funziona. Nessuno dei lavoranti stagionali che ha soggiornato qui è ancora morto. Prendete un bicchiere, prego.» Naturalmente obbedimmo. «Tina, ci pensi tu a versarlo?»

Quando i calici furono pieni, la signora Shoplaw sollevò il suo e noi la imitammo.

«A Erin, Tom e Devin. Che possano passare un’estate meravigliosa e indossare la pelliccia solo quando la temperatura è al di sotto dei ventisei gradi.»

Dopo il tintinnio di bicchieri, cominciammo a bere. Forse non era una marca molto costosa, ma era delizioso, e alla fine ne restò abbastanza per un secondo giro. Quella volta fu Tom a proporre un brindisi. «Alla signora Shoplaw, che ci offre riparo dalla tempesta!»

«Oh, grazie, Tom, che idea carina. Ma non ti servirà ad avere uno sconto sull’affitto.»

Abbassai il calice dopo averlo svuotato, con la testa che mi girava appena. «Che cos’è esattamente questa storia della pelliccia?» chiesi.

La signora Shoplaw e la signorina Ackerley si scambiarono un’occhiata e sorrisero. Fu la bibliotecaria a parlare, anche se la sua risposta non chiarì molto. «Lo scoprirete presto.»

«Non andate a letto tardi, ragazzi», ci avvertì la signora Shoplaw. «Domattina vi attende una levataccia. Avete una carriera nel mondo dello spettacolo che vi aspetta.»

In effetti ci alzammo presto, alle sette precise, due ore prima che il parco aprisse i battenti per un’altra estate. Decidemmo di passare per la spiaggia. Lungo il percorso, Tom non rimase zitto un attimo, come sua abitudine. Se non fosse stato così divertente e allegro, avrebbe rischiato di passare per scocciatore. Erin camminava tra la spuma, le scarpe da ginnastica a penzolarle dalle dita della mano sinistra. Da come lo guardava, si capiva che ne era attratta e affascinata. Un’abilità che gli invidiai. Tom era tarchiato e tutt’altro che bello, ma sprizzava energia e aveva una parlantina sciolta che purtroppo mi mancava. D’altronde, come insegna una vecchia barzelletta, solo le oche giulive si scopano gli scrittori.

«Accidenti, secondo voi quanto hanno in banca i proprietari di queste meraviglie?» chiese lui, indicando con un cenno le ville su Beach Row. Stavamo superando proprio quella verde ed enorme, che somigliava a un castello, ma la donna e il ragazzino sulla sedia a rotelle non erano nei paraggi. Annie e Mike Ross arrivarono più tardi.

«Probabilmente milioni di dollari», rispose Erin. «Non sono le case degli Hamptons, ma sputaci sopra, come direbbe mio padre.»

«Forse qui i prezzi sono più bassi per colpa del parco», affermai. Stavo fissando i tre punti di riferimento di Joyland stagliarsi contro il cielo azzurro del mattino: il Muro del Tuono, il Delirio Cosmico e la Ruota del Sud.

«Ma va’, non capisci come ragionano i miliardari», ribatté Tom. «Si comportano nello stesso modo con i mendicanti che chiedono la carità per strada: non li vedono neanche. Mendicanti? Quali mendicanti? Per il parco non è diverso: quale parco? Questa gente vive su un altro pianeta.» Si fermò, riparandosi gli occhi dal sole con una mano. Guardò la grande casa vittoriana che avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella mia vita durante l’autunno, quando Erin Cook e Tom Kennedy, ormai una coppia, sarebbero tornati all’università. «Quella sarà mia. Ne prenderò possesso… dunque… il primo giugno del 1987.»

«Io porterò lo champagne», concluse Erin, e tutti scoppiammo a ridere.

Quella mattina, vidi per la prima e ultima volta sotto lo stesso tetto l’intera compagnia dei lavoratori stagionali. Ci raccogliemmo nell’Auditorium del Surf, la sala concerti dove si esibivano gruppi country di terza categoria e attempati cantanti rock. Eravamo quasi duecento, per la maggior parte studenti universitari disposti a sgobbare per due soldi, come Tom, Erin e il sottoscritto. C’erano anche alcuni dipendenti a tempo pieno. Notai Rozzie Gold in tenuta da lavoro, con tanto di abiti da zingara e orecchini pendenti. Lane Hardy era sul palco, impegnato a sistemare un microfono sulla pedana centrale; controllava che funzionasse picchiettandoci sopra con il dito. Portava l’immancabile bombetta, sempre sulle ventitré. Non so come, ma mi riconobbe tra la marea di ragazzi, e si sfiorò la falda del cappello per mandarmi un saluto che subito ricambiai.

Lane finì il proprio compito, annuì, saltò giù dal palco e occupò il posto che Rozzie gli aveva tenuto. Fred Dean uscì a larghe falcate da dietro le quinte.

«Per piacere, sedetevi tutti. Prima di essere assegnati a un gruppo, il proprietario di Joyland, nonché vostro datore di lavoro, ci terrebbe a dirvi due parole. Salutate con un caloroso applauso il signor Bradley Easterbrook!»

Obbedimmo e un vecchietto apparve sulla scena, muovendosi con l’andatura cauta e rigida di chi sente dolore alle anche o alla schiena. Era alto, magro come un’acciuga e vestito con un completo nero, più simile a un becchino che al padrone di un parco divertimenti. Aveva la faccia scavata, pallida, costellata di nei e bitorzoli. Farsi la barba doveva essere una tortura, eppure sfoggiava una rasatura impeccabile. I capelli erano tinti di nero e pettinati all’indietro, evidenziando la fronte solcata da rughe profonde. Si fermò accanto alla pedana, intrecciando le enormi mani nodose. Gli occhi infossati nelle orbite erano segnati da pesanti borse.

La vecchiaia fissò la giovinezza, e i nostri applausi scemarono d’intensità per poi spegnersi di colpo.

Chissà che cosa ci aspettavamo. Forse una voce lamentosa e grave, ad annunciarci l’imminente dominio della Morte Rossa. Poi l’uomo sorrise, illuminandosi come un fuoco d’artificio. Noi lavoratori stagionali tirammo un sospiro di sollievo. Più tardi appresi che quell’estate Bradley Easterbrook aveva compiuto novantatré anni.

«Benvenuti a Joyland, ragazzi.» Prima di salire sulla pedana, ci fece un inchino. Passò parecchi secondi a sistemare il microfono, liberando una cacofonia amplificata e distorta. Nel frattempo, non smise mai di fissarci con quei suoi occhi infossati.

«Vedo molte vecchie conoscenze, che per me è sempre una grande gioia. In quanto a voi novellini, spero sarà l’estate migliore della vostra vita e il metro di paragone per tutti i vostri impieghi futuri. Si tratta sicuramente di un augurio inusuale, ma chiunque tenga le redini di un posto simile da parecchi anni deve essere per forza stravagante. Di certo, non avrete mai più un lavoro così.»

Ci scrutò a fondo, martoriando la povera asta del microfono.

«Tra pochi minuti, il signor Dean e la signora Brenda Rafferty, la regina dell’amministrazione, vi divideranno in squadre. Ognuna sarà composta da sette elementi, che dovranno lavorare e collaborare insieme. Sarà il capogruppo ad assegnare i compiti che cambieranno di settimana in settimana, talvolta addirittura di giorno in giorno. Se la varietà è davvero il sale della vita, troverete i prossimi tre mesi assai saporiti. Spero però che terrete a mente soprattutto un particolare, ragazze e ragazzi. Pensate di esserne capaci?»

Si fermò, come ad aspettare una risposta, ma nessuno aprì bocca. Ci limitammo a fissare quel vecchio in completo scuro e camicia bianca con il colletto slacciato. Quando riprese il discorso, almeno all’inizio sembrò parlare tra sé e sé.

«Il nostro è un mondo in rovina, funestato da guerre, atrocità e assurde tragedie. A ogni suo abitante, uomo o donna che sia, è toccata una razione di infelicità e di notti insonni. Quelli di voi che ancora ne sono all’oscuro, lo scopriranno presto. Considerata questa triste ma innegabile verità della condizione umana, avete appena ricevuto un dono inestimabile: vi trovate qui per vendere divertimento. Voi distribuirete felicità ai frequentatori del parco, in cambio dei loro sudati risparmi. I bambini ritorneranno a casa, sognando quello che hanno visto e fatto a Joyland. Spero ve lo ricorderete ogni volta che il lavoro sarà duro o qualcuno vi tratterà male, come spesso capiterà, o quando penserete che nessuno riconosca i vostri sforzi. Questo è un mondo diverso, con le sue abitudini e il suo gergo, che noi chiamiamo semplicemente la Parlata. Oggi comincerete ad apprenderlo: e capirete come muovere i vostri passi. Non si può spiegare; va imparato, punto e basta.»

Tom si piegò su di me, sussurrando: «Che passi? Non è che siamo finiti a una riunione degli alcolisti anonimi?»

Gli feci cenno di chiudere il becco. Mi sarei aspettato una serie di regole, di rigide proibizioni stile Antico Testamento; invece, avevo ascoltato qualcosa di poetico, senza tanti fronzoli, restandone affascinato. Bradley Easterbrook ci scrutò una seconda volta, per poi tornare a sorridere, mettendo in mostra i denti da cavallo. La bocca era così grande, adesso, che poteva mangiarsi il mondo intero. Erin lo guardava incantata, alla pari della maggior parte della manodopera stagionale, un po’ come una scolaresca davanti a un insegnante che le offre un nuovo ed eccitante punto di vista sulla realtà.

«Mi auguro vi piacerà lavorare qui. Dovesse succedere il contrario, come quando verrà il vostro turno di indossare la pelliccia, provate a riflettere su quanto siete fortunati. In un mondo triste e buio, noi siamo una piccola oasi felice. Molti di voi hanno già dei progetti in testa e sperano di diventare dei medici, degli avvocati, forse dei politici…»

«Per carità di Dio!» urlò qualcuno, accompagnato da una risata generale.

Contro ogni mia previsione, il ghigno del vecchio si allargò ancora di più. Tom scuoteva la testa, pur essendosi arreso. «Va bene, ho capito», mi bisbigliò all’orecchio. «Questo tipo è il messia dello spasso.»

«Avrete vite interessanti e ricche, miei giovani amici. Farete un mucchio di belle cose e di esperienze importanti. Spero ricorderete Joyland come una tappa speciale della vostra esistenza. Non vendiamo mobili o auto. Non vendiamo terreni o case o fondi pensione. Non abbiamo un programma politico. Noi vendiamo divertimento.Non dimenticatelo mai. Grazie per l’attenzione. Potete andare.»

Si allontanò dalla pedana, improvvisò un inchino di commiato e uscì di scena con la solita camminata rigida e dolorante. Era quasi sparito quando partirono gli applausi. Era uno dei migliori discorsi che avessi mai ascoltato, perché c’era più verità che stronzate. Insomma, quanti bifolchi possono scrivere sul loro curriculum: «Nel 1973 ho venduto divertimento per tre mesi»?

Tutti i capisquadra erano dipendenti di vecchia data, che fuori stagione lavoravano nel giro delle fiere itineranti. Molti facevano parte dell’associazione dei parchi gioco, dovevano vedersela con le leggi statali e federali (per nulla rigorose nel 1973) e districarsi tra le lamentele del pubblico. Quell’estate, in parecchi protestarono per le nuove disposizioni antifumo.

Il nostro caposquadra era un ometto arzillo di nome Gary Allen, il responsabile settantenne del Tirassegno di Buffalo Bill. Dopo il primo giorno, nessuno di noi lo chiamò più così. Secondo la Parlata, un tirassegno era uno sparaspara e Gary il cecchino. Noi sette della squadra Bracchetto lo incontrammo al suo baraccone, dove era impegnato ad assicurare i fucili alle catenelle. Insieme con il resto del gruppo, il mio primo lavoro a Joyland fu disporre i premi sui ripiani. A guadagnarsi il posto d’onore, i grandi peluche imbottiti che pochi vincevano… anche se Gary si premurava di regalarne almeno uno ogni sera a chi spendeva di più.

«I bifolchi mi sfagiolano», dichiarò. «Soprattutto i bignè, le tipe carine, e le migliori sono quelle con le magliette scollate che si sporgono tutte in avanti per sparare.» Afferrò un calibro ventidue modificato per funzionare ad aria compressa (e per scatenare un gran bel baccano ogni volta che si tirava il grilletto) e si chinò per spiegarcelo.

«Se ci prova uno sbarbato, lo avviso che sta superando la linea di tiro. Se lo fa un bignè, mai e poi mai.»

«Non vedo nessuna linea di tiro, signor Alien», osservò Ronnie Houston, un tipo occhialuto dall’espressione spaurita con in testa un berretto dell’Università della Florida.

Gary lo squadrò da cima a fondo, i pugni sui fianchi ossuti. I jeans parevano stargli su sfidando la forza di gravità. «Sturati le orecchie, giovane, perché ho tre robette da dirti. Ci sei?»

L’altro annuì. Sembrava pronto a prendere appunti, ma anche a nascondersi dietro il resto della squadra.

«Primo, puoi chiamarmi Gary o Pop o figliodibuonadonna, ma non siamo alle elementari, quindi scordati quel signor Allen.Secondo, non voglio mai più vederti con quel cazzo di cappellino da scolaretto. Terzo, la linea di tiro la decido io ogni fottuta sera e posso farlo perché ce l’ho chiara in zuuucca.»Per spiegarsi meglio, si picchiettò con un dito la tempia infossata e colorata da un intrico di vene. Poi indicò con un cenno i premi, i bersagli e il bancone dove i frollocconi, cioè i bifolchi, sganciavano la grana. «Tutto questo è nella mia zuuucca. È un prodotto della mia mente.Capito?»

Ronnie annuì con forza, anche se non sembrava convinto.

«Ora togliti quella stronzata dalla testa e comperati una visiera di Joyland o un cancappello di Howie. Meglio prima che poi.»

Ronnie gli obbedì subito, infilandosi il berretto nella tasca posteriore dei pantaloni. Nel giro di un’ora lo rimpiazzò con uno di Howie; un cancappello, secondo la Parlata. Dopo che venne preso in giro e chiamato pivello per tre giorni di fila, Ronnie raggiunse il parcheggio, trovò una chiazza d’olio e si divertì a calpestare il nuovo acquisto per un po’. Quando se lo rimise in testa, aveva l’aspetto giusto. O quasi. Ronnie Houston non era mai completamente giusto; alcuni sono condannati a restare pivelli in eterno. Ricordo che un giorno Tom gli si avvicinò, suggerendogli di pisciare sul copricapo per un indispensabile tocco di classe. Quando si accorse che l’altro stava per prenderlo alla lettera, fece velocemente marcia indietro e gli disse che mettendolo a mollo nell’Atlantico avrebbe sortito lo stesso effetto.


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