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Joyland
  • Текст добавлен: 9 октября 2016, 19:10

Текст книги "Joyland"


Автор книги: Stephen Edwin King


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Ужасы

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Lui alzò le mani. «Mi arrendo. Ci metteremo in fila con i bifolchi… insomma, con i frollocconi… ed entreremo nel Castello del Brivido. Rigorosamente di pomeriggio, però. Se non dormo abbastanza, la mia bellezza ne soffre.»

«Visto come sei messo, non me ne preoccuperei», replicai.

«Detto da uno con la tua faccia, è piuttosto divertente. Dammi una birra, Jonesy.»

Gliela passai.

«Raccontaci com’è andata con gli Stansfield», riprese Erin. «Ti hanno frignato addosso chiamandoti eroe?»

Più o meno, ma non ero disposto a confessarlo. «I genitori sono stati simpatici. La bambina è rimasta seduta in un angolo a leggere Screen Time,urlando roba del tipo: ‘Vedo, vedo qualcosa che comincia con la lettera D… Dean Martin!’»

«Lascia perdere i dettagli folcloristici e vieni al punto», intervenne Tom. «Hai tirato su qualche dollaro?»

Stavo pensando, non senza una punta di orrore, che la bambina così felice di pronunciare con somma reverenza i nomi delle celebrità aveva rischiato di finire in coma irreversibile. O dritta in una bara. Distratto da simili ragionamenti, risposi con onestà. «Il padre mi ha offerto cinquecento dollari, ma non li ho accettati.»

Tom sgranò gli occhi. « Che cosa?»

Abbassai lo sguardo sui rimasugli del biscotto farcito che stringevo in mano. La toffoletta mi stava colando tra le dita. Lo gettai tra le braci. Non avevo più fame. Mi seccava sentirmi imbarazzato. «Quel tizio ha appena messo in piedi una piccola attività e, a giudicare dalle sue parole, potrebbe andare incontro a un successo come a un fallimento. Ha anche una moglie e una bambina, più un secondo figlio in arrivo. Secondo me non poteva permettersi di buttare via dei soldi.»

«Ma davvero?E a tenon pensi?»

Rimasi perplesso. «A me?»

Dopo tutto il tempo che è passato, non sono ancora sicuro se Tom stesse fingendo o fosse veramente arrabbiato. Probabilmente aveva iniziato burlandosi di me, per poi infervorarsi quando si era reso conto di che cosa avevo fatto. Non sapevo come fosse messa la sua famiglia, ma lui non aveva risparmi da parte ed era senza macchina. Quando voleva uscire con Erin, prendeva in prestito la mia, scrupoloso nel pagare la benzina che aveva consumato. Per lui il denaro era importante, certo, ma non ne era schiavo.

«Frequenti l’università per miracolo, come Erin e me, e l’impiego a Joyland non arricchirà nessuno di noi. Che diavolo hai nel cervello? Da piccolo sei caduto dal seggiolone e ti sei rinscemito?»

«Ehi, calmati», intervenne Erin.

Tom non le diede retta. «Muori dalla voglia di passare il prossimo semestre autunnale svegliandoti all’alba per raccattare dal nastro trasportatore della mensa i piatti sporchi della colazione? Evidentemente sì, visto che per questo lavoro alla Rutgers ti pagano circa cinquecento dollari a semestre. Lo so perché l’ho controllato, prima di avere il culo di trovare qualcuno a cui dare ripetizioni. Hai idea di come sono riuscito a sopravvivere da matricola? Scrivendo tesine per ricchi membri di confraternite, pronti a specializzarsi in birrologia avanzata. Se fossi stato scoperto, mi avrebbero sospeso o espulso su due piedi. Te lo dico io cosa ci hai guadagnato: venti ore di lavoro alla settimana che ti potevano servire per studiare.» Si rese conto che stava esagerando e si fermò, sfoderando un sorriso. «O per rimorchiare flessuose fanciulle.»

«Ti fletto io!» esclamò Erin, balzandogli addosso.

I due rotolarono sulla sabbia, con lei che gli faceva il solletico e lui che le gridava di togliersi di dosso, senza troppa convinzione. Meglio così, perché non mi andava di affrontare gli argomenti sollevati da Tom. A quanto pareva, in merito a certe faccende avevo già fatto le mie scelte, e al mio cervello non restava che prenderne atto.

Il giorno dopo, alle tre e un quarto, ci trovavamo in coda per il Castello del Brivido, di cui si stava occupando un certo Brady Waterman. Ricordo ancora il nome perché era bravo a interpretare Howie… pur non eguagliando il sottoscritto, aggiungo per amore di verità. Piuttosto in carne all’inizio dell’estate, ormai era un vero figurino. Come dieta dimagrante, indossare la pelliccia era mille volte meglio della Weight Watchers.

«Che ci fate qui?» domandò. «Non è il vostro giorno libero?»

«Non potevamo lasciarci sfuggire la sola e unica attrazione al buio di Joyland», rispose Tom. «Già percepisco un forte senso di unità drammatica: Brad Waterman e il Castello del Brivido. Un connubio perfetto.»

L’altro aggrottò la fronte. «E avete in mente di stiparvi in un solo vagone?»

«Siamo obbligati», replicò Erin. Poi si avvicinò a una delle orecchie a sventola del ragazzo, sussurrando: «È una scommessa».

Mentre ci rifletteva sopra, Brad si toccò il labbro superiore con la punta della lingua. Sentivo le rotelle girargli in testa.

Il tipo dietro di noi alzò la voce. «Mi fate il piacere di darvi una mossa? Dentro c’è l’aria condizionata e io sto crepando di caldo.»

«Forza. Rompete le righe ma non le palle.» Provenendo da Brad, era quasi un’arguzia.

«Ci sono i fantasmi?» gli chiesi.

«Centinaia e centinaia. Spero che ti volino tutti su per il culo.»

Partimmo dal Labirinto di Mysterio, fermandoci ogni tanto a vedere i nostri riflessi allungati o accorciati. Dopo un paio di risatine forzate, ci impegnammo a seguire i puntini rossi al fondo di certi specchi, raggiungendo direttamente il Museo delle Cere. Grazie a quella mappa segreta, arrivammo molto prima del resto del nostro gruppo, che vagava sperso, sghignazzando e sbattendo contro i vetri disposti ad angolo.

Con sommo dispiacere di Tom, nel museo non c’erano pazzi assassini, solo politici e celebrità. Ai lati dell’entrata, un John Fitzgerald Kennedy dal sorriso smagliante e un Elvis Presley in tuta aderente. Senza dare peso al cartello che intimava: NON TOCCARE, Erin sfiorò la chitarra del Re. «È scorda…» iniziò a dire, per poi scattare indietro quando il manichino si animò cominciando a cantare Can’t Help Falling in Love.

«Ci sei cascata!» ridacchiò Tom, abbracciandola.

Una porta alla fine del museo conduceva alla Stanza della Botte e del Ponte, dove regnavano il frastuono di ingranaggi che sembravano pericolosi (non lo erano affatto) e il bagliore intermittente di variopinte luci stroboscopiche. Erin passò dall’altra parte superando il Ponte del Troll, scosceso e traballante, mentre noi due fustacchioni sfidammo la Botte. Arrancai fino al lato opposto barcollando peggio di un ubriacone, ma cadendo una volta sola. Tom si fermò a metà, allungò mani e piedi fino a toccare le pareti – sembrava una bambolina di carta – e si fece un giro di trecentosessanta gradi.

«Smettila, scemo, o ti spaccherai la testa!» gli gridò Erin.

«Anche se dovesse cadere, l’interno è imbottito», la rincuorai.

Tom ci raggiunse, paonazzo e con le labbra allargate in un ghigno. «Mi si sono rimessi in moto neuroni che giacevano addormentati da quando avevo tre anni.»

«Certo, ma che mi racconti di tutti quelli uccisi?» ribatté Erin.

Dopo c’era la Stanza Inclinata e poco oltre una sala piena di ragazzini impegnati con il flipper o le boccette. Erin fissò il secondo gioco per un po’, le braccia conserte e un’espressione contrariata in volto. «Non capiscono che è uno spennapolli?»

«La gente viene qui per farsi spennare», risposi. «Fa parte del divertimento.»

«E io credevo che il cinico fosse Tom», sospirò.

In fondo alla sala, sotto un teschio verde fluorescente, un cartello con la scritta: IL CASTELLO DEL BRIVIDO VI ASPETTA! ATTENZIONE! PER LE DONNE INCINTE E I GENITORI CON BAMBINI PICCOLI, L’USCITA SI TROVA A SINISTRA.

Ci spostammo in un atrio dove riecheggiavano urla e risate registrate. Una luce intermittente rossa illuminava una monorotaia d’acciaio che puntava verso l’imboccatura buia di una galleria. Dall’interno arrivavano brontolii minacciosi, lampi accecanti e altre grida. Quelle erano vere, e dall’esterno non sembravano neanche divertite, ma forse lo erano. Alcune, perlomeno.

Ci venne incontro Eddie Parks, responsabile dell’attrazione e caposquadra dei Dobermann. Portava un paio di guanti di cuoio e un cancappello così vecchio da essere completamente stinto (si colorava però di rosso sangue ogni volta che si azionavano le lampade). Ci guardò con disinteresse, tirando su con il naso. «Doveva essere una gran palla, la vostra giornata libera.»

«Volevamo vedere come vivono quelli meno fortunati di noi», replicò Tom.

Erin sfoderò per l’occasione il suo sorriso più smagliante. Eddie rimase impassibile.

«Tutti e tre in un solo vagoncino, vero?»

«Sì», risposi.

«D’accordo. Ricordatevi che per voi valgono le stesse regole degli altri. Tenete dentro quelle cazzo di mani.»

«Sissignore», affermò Tom, abbozzando un saluto militare. Eddie lo fissò come se fosse stato uno strano tipo di insetto e tornò alla postazione di comando, che consisteva di tre manopole fissate su una torretta che gli arrivava alla cintola. Qua e là, qualche bottone illuminato da una lampada da tavolo, piegata verso il basso per nascondere il suo bagliore bianco e per niente spettrale.

«Che tipo adorabile», borbottò Tom.

Erin ci prese a braccetto, stringendoci a sé. «Ma sta simpatico a qualcuno?»

«No», rispose lui. «Nemmeno ai membri della sua squadra. Ne ha già buttati fuori due.»

Il resto del nostro gruppo ci raggiunse proprio quando arrivò un trenino zeppo di frollocconi in preda alle risate (più un paio di bambini in lacrime, i cui genitori avrebbero dovuto dare retta all’avvertimento e uscire attraverso la sala giochi). Erin chiese a una ragazza se faceva paura.

«No, più che altro è stato difficile costringerlo a tenere a posto le mani», replicò lei, per poi strillare di felicità mentre il fidanzato le sbaciucchiava il collo trascinandola verso i flipper.

Salimmo a bordo, stipati in un vagoncino progettato al massimo per due persone. Sentii la coscia di Erin premere contro la mia e il suo seno sfiorarmi il braccio. Provai un improvviso e piacevole formicolio nelle parti basse. Fantasie erotiche a parte, sono convinto che quasi tutti gli uomini siano fedeli dalla nuca in su. Sotto la cintola, però, hanno un trapano a percussione che non si ferma davanti a nulla.

«Tenete dentro le maaani!»urlò Eddie Parks con un tono monocorde e annoiato, l’esatto opposto dell'allegro invito di Lane Hardy. «Tenete dentro le maaani!Se avete un bambino sotto il metro, prendetelo in grembo o scendete dalla vetturaaa!Rimanete fermi e state attenti alla sbarra di sicurezzaaa!»

La sbarra si abbassò con uno scatto metallico, accompagnato dai gridolini di un paio di ragazze, quasi un preliminare per le melodie che avrebbero intonato in mezzo alle tenebre.

Con uno scossone improvviso, ci avventurammo nel Castello del Brivido.

Dieci minuti dopo, scendemmo per poi uscire attraverso la sala giochi con il resto della compagnia. Dietro di noi, Eddie raccomandava ai nuovi arrivati di tenere dentro le maaanie di stare attenti alla sbarra di sicurezzaaa.Manco si voltò a guardarci.

«La parte delle Segrete non metteva paura, anche perché tutti i prigionieri erano dei Dob», commentò Erin. «Quello travestito da pirata era Billy Ruggerio.» Aveva le guance colorite e i capelli scompigliati dai getti d’aria. Pensai che non era mai stata tanto bella. «Ma il Teschio Urlante mi ha colta di sorpresa e la Sala delle Torture… Dio mio!»

«Abbastanza tosta», concordai. Durante il liceo mi ero sparato parecchi film dell’orrore e pensavo di averci fatto il callo, ma mi ero cagato sotto vedendo la testa con un occhio fuori dall’orbita rotolare giù dalla ghigliottina lungo un’asse inclinata. Accidenti, la bocca si muoveva ancora.

Tornati sulla Passeggiata di Joyland, notammo Cam Jorgensen della Squadra Setter intento a vendere limonata. «Ne volete un bicchiere?» domandò Erin, ancora in preda all’eccitazione. «Offro io!»

«Ci sto», risposi.

«Tom?»

Lui abbozzò un cenno di assenso alzando le spalle. Erin lo fissò perplessa e poi corse a prendere da bere. Diedi un’occhiata a Tom, ma era occupato a osservare l’allegro girotondo del Razzo Lunare. O forse ci stava guardando attraverso, quasi non fosse esistito.

Erin tornò con tre bicchieroni, mezzo limone a galleggiare sulla cima di ognuno. Ce li portammo sulle panchine del giardinetto appena giù dalla Borgata, sedendoci all’ombra. Lei stava parlando dei pipistrelli alla fine della corsa; sapeva benissimo che erano giocattoli a molla appesi a fili trasparenti, ma quelle bestiacce l’avevano sempre spaventata a morte e…

A quel punto si bloccò di colpo. «Tom, stai bene? Non hai ancora aperto bocca. Ti è venuta la nausea dopo la giravolta nella Botte?»

«No, lo stomaco è a posto.» Bevve un sorso di limonata quasi a dimostrarcelo. «Sai che cosa indossava, Dev? Lo sai?»

«Eh?»

«La ragazza assassinata. Laurie Gray.»

«LindaGray.»

«Laurie, Larkin, Linda, fa lo stesso. Che cosa indossava? Una gonna lunga e una camicetta senza maniche?»

Lo guardammo fissi, Erin e io, dapprima convinti che si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi. Solo che sembrava serio. Anzi, osservandolo meglio, era terrorizzato.

«Tom?» Erin gli sfiorò la spalla. «L’hai vista? Su, non prenderci in giro.»

Lui le appoggiò la mano sopra le sue, senza guardarla e continuando a scrutarmi. «Sì. Aveva una gonna lunga e una camicetta senza maniche. La nostra amica Shoplaw te l’ha raccontato di certo.»

«Di che colore?» gli domandai.

«Difficile dirlo in mezzo a tutte quelle luci intermittenti. Entrambe azzurre, credo.»

Finalmente Erin capì che non si stava divertendo alle nostre spalle. «Merda santissima», buttò fuori in una specie di lungo sospiro. Le guance le si impallidirono all’istante.

C’era dell’altro. Un particolare che la polizia aveva tenuto nascosto a lungo, secondo la signora Shoplaw.

«E i capelli, Tom? A coda di cavallo, giusto?»

Lui scosse la testa. Trangugiò un po’ di limonata. Si strofinò le labbra con il dorso della destra. Non era incanutito all’improvviso, non aveva lo sguardo vitreo, non gli tremavano le mani, ma non era più lo stesso Tom che aveva continuato a scherzare lungo il labirinto degli specchi e attraverso la Stanza della Botte e del Ponte. Sembrava che gli avessero fatto un clistere di sano realismo, liberandolo da tutte le stronzate da sbarbatello con un lavoro estivo.

«No, non a coda da cavallo. Lunghi, con uno di quei cosi in testa per non farli cadere sulla faccia.»

«Un cerchietto?» chiese Erin.

«Esatto. Anche quello azzurro, mi pare. Aveva le mani tese.» Sporse in avanti la sua proprio come aveva fatto Emmalina Shoplaw quando mi aveva narrato la storia. «Sembrava chiedere aiuto.»

«Sbaglio o è stata la nostra proprietaria di casa a spifferarti tutto?» gli domandai. «Puoi dircelo, tanto non ci arrabbieremo. Non è vero, Erin?»

«No, per niente», confermò lei.

Tom scosse il capo. «Vi sto raccontando la verità. Voi non l’avete vista?»

Risposta negativa da entrambi.

«Perché ha scelto me?» si lamentò Tom. «Manco pensavo a lei, dentro al Castello. Mi stavo solo divertendo. Allora, perché?»

Erin cercò di cavargli di bocca altri particolari mentre tornavamo a Heaven’s Bay sul mio catorcio. Lui rispose alle prime due o tre domande, poi affermò di non volerne parlare più con un tono brusco che non gli avevo mai sentito usare con Erin. Probabilmente anche per lei fu una novità, perché si ammutolì per il resto del viaggio. Forse ne discussero in privato, ma Tom non mi rivelo più nulla fino a un mese prima della morte, senza dilungarsi. Capitò alla fine di una conversazione telefonica, resa dolorosa dalla sua voce incerta e nasale e dalla confusione che gli annebbiava la mente.

«Almeno… so… che c’è qualcosa», sussurrò. «L’ho visto… con i miei occhi… quell’estate. Dentro il Castello del Razzo.» Non mi preoccupai di correggerlo; sapevo che cosa voleva dire. «Te lo… ricordi?»

«Me lo ricordo», risposi.

«Però non so se è… qualcosa di buono… o di cattivo.» Stava morendo e il suo tono trasudava orrore. «Il modo in cui lei… Dev, il modo in cui lei tendeva le mani…»

Sì.

Il modo in cui lei tendeva le mani.

La volta in cui ebbi di nuovo giornata libera fu circa a metà agosto; la marea di frollocconi stava lentamente scemando. Non avevo più bisogno di aprirmi la strada a forza di spintoni su per la Passeggiata di Joyland fino alla Ruota del Sud… e al baraccone di Madame Fortuna, sotto l’ombra in perenne movimento della giostra.

Lane e Fortuna – quel giorno era gitana dalla testa ai piedi – stavano chiacchierando vicino ai comandi della ruota panoramica. Lui mi scorse e girò la bombetta in senso antiorario: il suo modo di salutarmi.

«Ma guarda un po’ chi c’è», esordì. «Come ti butta, Jonesy?»

«Bene», risposi, pur trattandosi di una mezza verità. Da quando indossavo la pelliccia solo tre o quattro volte al giorno, mi era tornata l’insonnia. Restavo sdraiato a letto scandendo il passare delle ore, la finestra aperta per ascoltare il rumore della risacca, pensando a Wendy e al suo nuovo fidanzato. E anche alla ragazza che Tom aveva visto di fianco alla monorotaia del Castello del Brivido, nella galleria di mattoni finti tra le Segrete e la Sala delle Torture.

Mi voltai verso Fortuna. «Posso parlarti?»

Non mi chiese il motivo e mi trascinò verso il suo baraccone, scostando la tenda viola dell’entrata e facendomi accomodare. Al centro, un tavolo rotondo con una tovaglia rosa confetto. Sopra, la sua palla di cristallo, nascosta sotto uno scampolo di tessuto. Due normalissime sedie pieghevoli erano disposte in modo che l’indovina e il suo cliente trepidante si trovassero faccia a faccia, separati solo dalla sfera (che sapevo essere illuminata alla base da una piccola lampada, azionata da Fortuna con un movimento del piede). Sulla parete in fondo, la gigantesca serigrafia del palmo di una mano con le dita divaricate e, chiaramente indicate, le Sette Linee: vita, cuore, testa, amore (o Cintura di Venere), sole, destino, salute.

Madame Fortuna raccolse gli strati di gonne e si sedette. Con un gesto mi invitò a imitarla. Non scoprì la palla né mi pregò di passarle una moneta sul palmo per farmi predire il futuro.

«Chiedimi ciò per cui sei venuto», esordì.

«Riguardo alla bambina, hai tirato a indovinare o lo sapevi davvero? L’hai visto nella tua mente?»

Mi scrutò a lungo e a fondo. Lì dentro, invece del pesante odore di popcorn e frittelle, aleggiava un vago profumo d’incenso. Le pareti erano sottili come carta velina, ma la musica, il chiacchiericcio dei frollocconi e il frastuono delle giostre sembravano lontani anni luce. Non riuscivo ad abbassare lo sguardo, neanche sforzandomi.

«Insomma, vuoi sapere se sono un’imbrogliona. Non è così?»

«Io… onestamente, non ho idea di quello che voglio.»

Mi rispose con un sorriso gentile, quasi avessi superato una specie di prova. «Sei un bravo ragazzo, Jonesy, ma anche un bugiardo matricolato.»

Feci per ribatterle, ma mi zittì con un cenno della mano destra coperta di pesanti anelli. Tirò fuori da sotto il tavolo una cassetta di metallo. Le sue prestazioni erano gratuite (comprese nel vostro biglietto d’ingresso, signore e signori, fanciulli e fanciulle) ma le mance erano ben accolte e ammesse anche dalla legge nella Carolina del Nord. Quando aprì la cassetta, notai un rotolo di banconote spiegazzate, quasi tutte da un dollaro, qualcosa che somigliava in modo sospetto al biglietto di una lotteria istantanea (proibitanell’intera Carolina del Nord) e una piccola busta. Me la porse. Dopo un attimo di esitazione, l’accettai.

«Oggi non sei arrivato a Joyland solo per domandarmi questo», affermò.

«Be’…»

Mi interruppe con un ennesimo gesto della mano. «Sai perfettamenteciò che vuoi. Per il tempo che ti resta, almeno. E visto che noi tutti non abbiamo altro, chi saranno mai Fortuna o Rozzie Gold per spingerti a cambiare idea? Adesso vai. Fai quello per cui sei venuto. Una volta finito, apri la busta e leggi il mio messaggio.» Mi lanciò un sorriso. «Ai colleghi non chiedo un soldo. Soprattutto non ai bravi ragazzi come te.»

«Io non…»

Si alzò tra lo svolazzare delle gonne e lo sbatacchiare della chincaglieria. «Va’, Jonesy. Non abbiamo altro da dirci.»

Uscii dal suo bugigattolo con la testa confusa. La musica di decine di chioschi e attrazioni mi colpì con la potenza di una folata di vento, mentre il sole mi picchiava in testa. Puntai direttamente all’ufficio dell’amministrazione, ospitato in un doppio caravan. Bussai anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, entrai e salutai Brenda Rafferty, impegnata a fare la spola tra un registro contabile spalancato su un tavolo e la sua fida calcolatrice.

«Ciao, Devin. Ti stai prendendo cura della tua Sirena?»

«Sì, signora. Tutti badiamo a lei.»

«Dana Elkhart, giusto?»

«Erin Cook.»

«Erin, certo. Della Squadra Bracchetto. La rossa. Come posso aiutarti?»

«Se non rischio di importunarlo, mi piacerebbe parlare con il signor Easterbrook.»

«Sta riposando e non mi va di disturbarlo. Prima ha dovuto fare un mare di telefonate, e non sono ancora finite, anche se mi dispiace ricordarglielo. Ultimamente si stanca con facilità.»

«Non ci metterei molto.»

«Potrei controllare se è sveglio», sospirò. «Di che si tratta?»

«Di un favore. Lui capirà.»

E in effetti capì. Mi pose solo due domande. La prima, se ne fossi sicuro. Risposi di sì. E la seconda…

«L’hai già detto ai tuoi genitori, Jonesy?»

«Siamo solo mio padre e io. Gliene parlerò stasera.»

«Benissimo, allora. Informa Brenda prima di andartene. Preparerà tutti i documenti necessari, che dovrai compilare e…» Si interruppe, spalancando la bocca in un enorme, titanico sbadiglio, sfoggiando i denti da cavallo. «Scusami, figliolo. È stata una giornata massacrante. Un’ estatemassacrante.»

«Grazie, signor Easterbrook.»

Rispose con un cenno della mano, come a sottolineare che era una sciocchezza. «Prego. Sono sicuro che ti rivelerai un ottimo acquisto, ma mi dispiacerebbe se agissi senza il consenso di tuo padre. Per favore, quando esci ricordati di chiudere la porta.»

Mi sforzai di ignorare l’espressione accigliata di Brenda mentre frugava nei suoi classificatori, tirando fuori i vari moduli richiesti dalla Joyland Incorporated per l’assunzione a tempo pieno. Ciò nonostante, mi accorsi lo stesso della sua totale disapprovazione. Piegai i documenti, li infilai nella tasca posteriore dei jeans e scappai via.

In fondo al cortiletto, oltre la fila dei cacatanto, si stendeva un boschetto. Mi sedetti appoggiando la schiena a uno dei tronchi e aprii la busta consegnatami da Madame Fortuna. Il messaggio era breve e conciso.

Stai andando dal signor Easterbrook per chiedergli di continuare a lavorare al parco dopo la festa del Lavoro. Sei certo che accetterà.

Aveva ragione. Volevo sapere se era un’imbrogliona. Ecco la sua risposta. E, sì, ormai avevo preso una decisione sul mio futuro. Fortuna aveva azzeccato pure quel particolare.

Ma restava un’ultima riga.

Hai salvato la bambina ma, ragazzo mio, non potrai salvare tutti.

Dopo aver rivelato a papà che non sarei ritornato all’UNH, prendendomi un anno di pausa dal college e passandolo a Joyland, ci fu un lungo silenzio dall’altro capo del filo, lassù nel Maine meridionale. Temevo che mi avrebbe urlato contro, ma mi sbagliavo. Mi sembrò soltanto stanco. «È colpa della ragazza?»

Circa due mesi prima gli avevo confessato che Wendy e io avevamo scelto di non vederci per un po’, ma lui aveva intuito la verità. Da quel momento in avanti, non l’aveva più chiamata per nome durante le nostre conversazioni telefoniche settimanali, citandola come «la ragazza». Dopo un paio di volte, quasi per scherzo, commentai: «La ragazza chi? Quella strana ragazza?» ma la battuta fu accolta dal gelo. Mi astenni dal riprovarci.

«C’entra anche Wendy, ma non solo», ammisi. «Voglio prendermi del tempo per me e tirare il fiato. E poi questo posto comincia a piacermi.»

«Forse hai davvero bisogno di uno stacco», sospirò. «Almeno lavorerai, invece di girare l’Europa in autostop come la figlia di Dewey Michaud. Quattordici mesi e passa negli ostelli della gioventù! Tornerà a casa con la tigna e una pagnotta in forno.»

«Be’, con un minimo di fortuna credo che eviterò entrambi i rischi.»

«Piuttosto, stai attento agli uragani. Pare che saranno i protagonisti dell’autunno.»

«Papà, sul serio la mia decisione non ti pesa?»

«E perché dovrebbe? Volevi che mi mettessi a litigare? Che tentassi di farti cambiare idea? Se proprio ci tieni, ci posso provare, ma so che cosa avrebbe detto tua madre: ‘Se è abbastanza cresciuto per comperarsi una birra, è pure in grado di scegliersi la vita che preferisce’.»

Sorrisi. «Sì, sembri lei.»

«In quanto a me, mi spiacerebbe se ritornassi all’università passando tutto il tempo a fantasticare sulla ragazza e fregandotene dei voti. Se verniciare giostre o aggiustare chioschi ti aiuterà a dimenticarla, non potrà che essere un bene. Però, come te la caverai con prestiti e borsa di studio, quando deciderai di fare marcia indietro nell’autunno del 1974?»

«Nessun problema. Una media del trenta e lode apre molte porte.»

«La ragazza…» pronunciò mio padre con sommo disgusto, per poi passare ad altri argomenti.

Papà non aveva torto: ero ancora triste e depresso per la fine della storia con Wendy, ma avevo iniziato il tortuoso percorso dalla negazione all’accettazione (o «il viaggio», secondo l’attuale definizione cara ai gruppi di sostegno). La vera serenità era ancora di là da venire, ma non credevo più fosse impossibile da conquistare, come durante le lunghe, difficili notti e le dure giornate di giugno.

La scelta di restare a Joyland dipendeva anche da altri fattori che avevo quasi paura a mettere in ordine, raggruppati com’erano in un mucchio caotico e confuso tenuto insieme soltanto da vaghe intuizioni. Hallie Stansfield ne faceva sicuramente parte. E Bradley Easterbrook, quando all’inizio dell’estate aveva proclamato: Noi vendiamo divertimento.E il suono dell’oceano di notte, e la forte brezza dal largo che soffiava tra i montanti della ruota sprigionando una strana melodia. E le fresche gallerie sotto il parco. E la Parlata, quella lingua segreta che verso Natale il resto dei pivelli avrebbe già scordato. Io non ero intenzionato a dimenticarne le ricche sfumature. Sentivo che Joyland aveva altro da darmi, non sapevo esattamente ancora che cosa.

Può sembrare strano, e sono ritornato sui ricordi di quei giorni per essere certo di non avere preso un abbaglio, ma la mia decisione fu soprattutto determinata da un particolare: al nostro san Tommaso era apparsa Linda Gray. Un avvenimento che lo aveva trasformato in modo sottile ma fondamentale. Non penso che un simile cambiamento rientrasse tra i progetti di Tom, però sicuramente faceva parte dei miei.

Anch’io volevo vederla.

Durante la seconda metà di agosto, molti dipendenti di vecchia data come Pop Allen o Dottie Lassen mi invitarono a pregare che la festa del Lavoro fosse un giorno di pioggia. Non fu così e, tempo di sabato pomeriggio, compresi il significato della loro supplica. I frollocconi arrivarono in massa per il gran finale e Joyland si ritrovò svariatissima. Per di più, mancavano metà dei lavoranti stagionali, ormai ritornati alle loro varie università. I pochi rimasti si ammazzarono di fatica.

Alcuni di noi lavorarono letteralmente comecani, con particolare riferimento a un pastore tedesco di nostra conoscenza. Passai la maggior parte del fine settimana osservando la folla attraverso la reticella della maschera del Simpatico Howie. La domenica mi tuffai dentro quella dannata tuta pelosa almeno una decina di volte. Dopo la penultima esibizione, mi trovavo oltre metà del Corso sotto la Passeggiata di Joyland quando il mondo circostante cominciò a tremolare e svanire in mille ombre grigie. Come l’ombra di Linda Gray.

Ero alla guida di un trabiccolo elettrico di servizio, il costume abbassato fino alla cintola per sentire il refrigerio dell’aria condizionata sul torace sudato; quando mi accorsi che stavo per svenire, ebbi l’accortezza di fermarmi accanto alla parete della galleria e di togliere il piede dal pulsante di gomma che fungeva da acceleratore. Wally «Ciccia» Schmidt, che gestiva il baraccone dell’indovina-il-peso, si stava concedendo un riposino nel pulciaio. Mi vide parcheggiato di lato e accasciato sopra il volante. Tirò fuori una caraffa di acqua ghiacchiata dal frigorifero, mi raggiunse ballonzolando e mi sollevò il mento con una mano paffuta.

«Ehi, pivello, hai un altro costume o è il solo della tua taglia?»

«Sce n’è un scecondo.» Parevo ubriaco. «In sciartoria. Essshtra large.»

«Grandioso!» esclamò, rovesciandomi in testa la brocca. Il mio grido di sorpresa riecheggiò lungo il passaggio, facendo accorrere parecchie persone.

«Ma che cazzo ti è saltato in mente, Wally Ciccia?»

«È servito o no a svegliarti?» ghignò lui. «È il fine settimana della festa del Lavoro, pivello. Quindi, devi lavorare invece di dormire. Ringrazia la tua buona stella che là fuori non ci siano quarantacinque gradi.»

Se la temperatura fosse stata così alta, non avrei mai potuto raccontarvi la mia storia. Mi si sarebbe abbrustolito il cervello e avrei tirato le cuoia nel bel mezzo di un’allegra danza sul palco del teatrino della Borgata Incantata. Fortunatamente la giornata era nuvolosa e rinfrescata da una dolce brezza marina; in un modo o nell’altro, me la cavai.

Il lunedì, verso le quattro del pomeriggio, Tom fece capolino in sartoria mentre mi stavo infilando il costume di riserva per l’ultimo spettacolo della stagione. Non portava più il cancappello o le sue lerce scarpe da ginnastica, ma una camicia con lo stemma del college infilata dentro i calzoni di tela perfettamente stirati (ma dove diavolo li teneva?) e un paio di eleganti mocassini. Quel fottuto sbarbatello si era persino fatto tagliare i capelli. Dalla testa ai piedi, sembrava il classico studente universitario di successo pronto a sfidare il mondo degli affari. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che fino a due giorni prima aveva sfoggiato dei Levi’s luridi, mostrando uno spicchio di culo mentre strisciava sotto il Lampo con una tanica d’olio maledicendo Pop Allen, il nostro impavido caposquadra, ogni volta che sbatteva la testa contro una trave di sostegno.

«Pronto a tagliare la corda?» gli domandai.

«Sicuro come l’oro, amico mio. Prenderò il treno per Filadelfia delle otto di domattina. Una settimana a casetta e poi si torna a sgobbare.»


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