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Joyland
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Текст книги "Joyland"


Автор книги: Stephen Edwin King


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STEPHEN KING


JOYLAND

Traduzione di Giovanni Arduino

Sperling & Kupfer

Joyland

Copyright © 2013 by Stephen King

Published by agreement with the author

c/o The Lotts Agency, Ltd © 2013

Sperling & Kupfer Editori S.p.A.

ISBN 978-88-200-5427-4 86-1-13

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell’autore o usati in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza a fatti reali o a persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.

A Donald Westlake



Joyland

La macchina ce l’avevo, ma la maggior parte delle volte, in quell’autunno del 1973, me la feci a piedi da Joyland agli appartamenti sulla spiaggia della signora Shoplaw, a Heaven’s Bay. Sembrava la soluzione migliore. L’unica, in effetti. Ai primi di settembre, Heaven’s Beach era quasi completamente deserta, in perfetta sintonia con il mio umore. È stato l’autunno più bello della mia vita; continuo a sostenerlo anche quarant’anni dopo. E, allo stesso tempo, non mi sono mai sentito così infelice. La gente pensa che il primo amore sia tanto dolce, e lo diventi ancora di più quando il legame si spezza. Conoscerete almeno un migliaio di canzoni pop e country sull’argomento, con qualche povero scemo dal cuore infranto. Ma quella prima ferita è la più dolorosa, la più lenta a guarire e lascia una cicatrice orribile. Che ci sarà di dolce…

Da settembre a ottobre, il cielo della Carolina del Nord era limpido e l’aria calda fin dalle sette del mattino, quando scendevo dalle scale esterne della mia camera al primo piano. Se avevo addosso una casacca leggera, di sicuro finivo per legarmela alla vita prima di avere percorso metà dei cinque chilometri che separavano la città dal parco divertimenti.

Mi fermavo sempre da Betty’s Bakeryper un paio di croissant ancora caldi. La mia ombra mi seguiva sulla sabbia, lunga almeno sei metri. I gabbiani speranzosi sentivano il profumo dei dolci nella carta oleata e mi facevano la posta dall’alto del cielo. E alla sera, quando ritornavo (senza fretta, non c’era nulla per cui valesse la pena di farlo, non a Heaven’s Bay, che si assopiva già alla fine dell’estate), l’ombra mi camminava accanto sull’acqua. Con l’alta marea ondeggiava appena, sembrava che ballasse pigramente.

Non ne sono proprio sicuro, ma credo che la donna e il ragazzino con il cane fossero lì fin dalla mia prima passeggiata. Il litorale che univa la città alla chiassosa e rutilante paccottiglia di Joyland era fiancheggiato da case di villeggiatura, molte dall’aspetto costoso e per la maggior parte chiuse a doppia mandata dopo la festa del Lavoro, all’inizio di settembre. Non la più grande di tutte, però, quella che somigliava a un castello verde di legno. Lina passerella scendeva dall’ampio patio sul retro fino al punto in cui i lunghi ciuffi d’erba lasciavano il posto alla fine sabbia bianca. Al termine del sentiero, un tavolo da picnic riparato da un ombrellone verde brillante. Sotto la sua ombra, un ragazzino sulla sedia a rotelle, con un berretto da baseball e una coperta dalla vita in giù anche nel tardo pomeriggio, quando la temperatura si aggirava intorno ai venti gradi. Dimostrava una decina d’anni, vissuti molto male. Il cane, un Jack Russell terrier, gli stava accucciato ai piedi o di fianco. La donna era seduta su una delle panchine attorno al tavolo, ogni tanto impegnata a leggere un libro ma in genere con lo sguardo perso lungo l’oceano. Era bellissima.

Che andassi o tornassi, non mancavo mai di salutarli con un cenno della mano, e il ragazzino ricambiava. Lei no, almeno non all’inizio. Il 1973 era l’anno della crisi energetica, quando Richard Nixon dichiarò che non era un imbroglione e quando morirono Edward G. Robinson e Noël Coward. L’anno perduto di Devin Jones. Ero un verginello di ventun anni con aspirazioni letterarie. Avevo tre paia di blue jeans, quattro di boxer, un rottame di Ford (con una buona radio), sporadiche idee suicide e un cuore spezzato.

Che dolce, eh?

A spezzarmelo era stata Wendy Keegan, che non mi meritava. Ci ho impiegato la maggior parte della vita a capirlo ma, come si suol dire, meglio tardi che mai. Lei veniva da Portsmouth, New Hampshire; io da South Berwick, Maine. Quasi la ragazza della porta accanto. Avevamo incominciato a «fare sul serio» (per usare una nostra espressione) al primo anno all’Università del New Hampshire. Ceravamo persino incontrati alla festa delle matricole, e questo è proprio dolce; proprio come in una canzone.

Per due anni fu impossibile dividerci, facevamo qualsiasi cosa e andavamo dappertutto insieme. Qualsiasi cosa tranne quello.Eravamo entrambi studenti lavoratori, lei nella biblioteca e io in mensa. Ci venne offerta l’occasione di continuare a sgobbare durante l’estate del 1972 e non ci fu bisogno di ripetercelo due volte. La paga non era granché ma l’opportunità di rimanere insieme non aveva prezzo. Pensavo che sarebbe andata così anche nel ’73, finché Wendy non mi informò che aveva trovato un impiego con l’amica Renee da Filene’s, a Boston.

«E io?» chiesi.

«Puoi sempre venire giù a trovarmi», rispose lei. «Mi mancherai da morire, Dev, ma probabilmente ci farà bene passare un po’ di tempo da soli.»

Una frase che quasi sempre è una condanna a morte. Forse se ne accorse, perché si alzò sulla punta dei piedi e mi baciò. «La lontananza rinfocola la passione. E comunque, visto che avrò un posto mio, potresti fermarti da me.»

Ma non mi guardava negli occhi quando lo disse, e l’opportunità non si presentò mai. Troppi coinquilini, affermava, e troppo poco tempo. Certo, simili problemi non sono insormontabili, ma lo furono per noi, un particolare che avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa; anzi, parecchio, almeno con il senno di poi. In molte occasioni ci trovammo vicinissimi a «farlo», ma non capitò mai. Lei si tirava sempre indietro e io decisi di non insistere. Buon Dio, mi comportavo da perfetto gentiluomo. Da allora mi sono immancabilmente chiesto che cosa sarebbe successo, nel bene e nel male, se avessi scelto un atteggiamento diverso. Con il passare del tempo, ho scoperto che raramente i gentiluomini trombano. Una massima degna di essere ricamata su una tovaglietta da appendere in cucina.

L’idea di un’altra estate passata a ramazzare i pavimenti della mensa e a riempire di stoviglie lerce le vecchie lavapiatti non mi andava tanto a genio, non mentre Wendy si sarebbe divertita un centinaio di chilometri a sud sotto le sfavillanti luci di Boston. Però era un lavoro sicuro, mi serviva e non avevo altre prospettive. Poi, alla fine di febbraio, una nuova possibilità mi arrivò letteralmente tra le mani grazie al nastro trasportatore della cucina.

Qualcuno stava leggendo un numero di Carolina Livingmentre si ingozzava di hamburger e patatine alla messicana, il piatto speciale del giorno. Aveva lasciato la rivista sul vassoio, che raccattai insieme con il resto. Stavo per buttarla nella spazzatura, ma pensai che una lettura gratis non andava sprecata (non dimenticatevi che ero uno studente lavoratore). La infilai nella tasca posteriore dei pantaloni e me ne dimenticai fino al ritorno nella mia stanza del dormitorio. Mentre mi stavo cambiando, cadde a terra, aprendosi alla rubrica degli annunci economici.

Il proprietario aveva circolettato numerose offerte di lavoro; alla fine doveva avere deciso che nessuna faceva al caso suo, altrimenti Carolina Livingnon sarebbe mai finita tra le mie grinfie. In fondo alla pagina, un’inserzione catturò la mia curiosità anche se non era stata evidenziata. La prima riga recitava: VIENI A JOYLAND A LAVORARE IN UN POSTO DA FAVOLA! Quale studente di lettere sarebbe rimasto indifferente di fronte a un simile invito? E quale ventunenne con l’umore a terra, e la crescente convinzione di essere presto mollato dalla fidanzata, avrebbe resistito all’idea di trasferirsi nella «terra della gioia»?

C’era un numero di telefono e, quasi per scherzo, chiamai il parco divertimenti di Joyland. La settimana dopo, nella cassetta della posta del dormitorio arrivò un modulo d’assunzione. La lettera allegata chiariva che si trattava di un impiego a tempo pieno per l’estate (proprio quello che faceva al caso mio) e che mi sarei dovuto occupare di diverse mansioni, molte ma non tutte di manutenzione. Dovevo disporre di una patente di guida valida e sottopormi a un colloquio. Me la sarei potuta sbrigare per le vacanze pasquali, invece di tornare a casa nel Maine. Unico particolare, avevo in mente di passare almeno un po’ di quei giorni con Wendy. Esisteva persino il rischio di «farlo».

«Vai al colloquio», mi rispose lei senza esitare. «Sarà una stupenda avventura.»

«Lo sarebbe stare con te.»

«L’anno prossimo non mancheranno le occasioni.» Come sempre, si alzò in punta di piedi e mi baciò. Si stava già vedendo con l’altro tipo? Probabilmente no, ma scommetto che l’aveva notato, considerando che frequentavano lo stesso corso di sociologia avanzata. Di sicuro Renee St. Clair lo sapeva, e forse se gliel’avessi chiesto avrebbe tirato fuori tutto quanto. Vuotare il sacco era la sua specialità – sicuramente riusciva a far schiattare anche il prete durante la confessione – ma esistono argomenti di cui è meglio restare all’oscuro. Tipo, perché la ragazza che adoravi alla follia si tirasse sempre indietro, per poi ficcarsi nel letto del nuovo arrivato non appena possibile. Io non credo che si possa mai superare del tutto la ferita inferta dal primo amore, e che essa non smetta mai di bruciare. Una parte di me vuole ancora sapere che cosa avessi di sbagliato.Che cosa mi mancasse. Ormai ho sessant’anni, i capelli grigi, sono sopravvissuto a un cancro alla prostata, ma morirei pur di capire perché non andassi abbastanza bene per Wendy Keegan.

Da Boston alla Carolina del Nord presi un treno chiamato Southerner (niente di particolarmente avventuroso, ma economico) e una corriera da Wilmington a Heaven’s Bay. Sostenni il colloquio con Fred Dean che, tra mille incombenze, era anche il responsabile delle assunzioni. Dopo un botta e risposta di un quarto d’ora, insieme con una controllatina alla patente e all’attestato di volontario della Croce Rossa, mi passò una targhetta appesa a un cordino. Sopra, la dicitura OSPITE, la data di quel giorno e il disegno di un pastore tedesco sorridente dagli occhi azzurri, vagamente somigliante al famoso segugio dei cartoni animati, Scooby-Doo.

«Fatti un giro», mi consigliò. «Prova la Ruota del Sud, se ti va. La maggior parte delle attrazioni sono ancora ferme, ma quella funziona. Di’ a Lane che ti mando io. Il lasciapassare vale una giornata intera, ma ti voglio qui per…» lanciò un’occhiata all’orologio, «… per l’una, e così mi dirai se l’impiego ti interessa. Ho ancora cinque posti liberi, tutti per la stessa cosa. Allegri Aiutanti.»

«Grazie, signore.»

Fred abbozzò un cenno del capo e sorrise. «Non so come troverai questo posto, ma a me piace. È vecchio e male in arnese, però qui sta il suo fascino. Per un po’ sono stato in un parco Disney ma non mi andava. Era troppo… non saprei…»

«Troppo azienda?»

«Esatto. Troppo azienda. Troppo perfettino. Così sono ritornato a Joyland qualche anno fa. Non me ne sono pentito. Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi.»

«Prima posso farle una domanda?»

«Certo.»

Sfiorai il mio pass. «Chi è il cane?»

Il sorriso si allargò a riempirgli l’intera faccia. «È il Simpatico Howie, la mascotte di Joyland. Il parco è stato costruito da Bradley Easterbrook e Howie apparteneva a lui. Quello originale è ormai morto da tempo, ma vedrai parecchio la nostra mascotte, se ti fermi qui a lavorare.»

Il cane lo vidi e non lo vidi. L’enigma è semplice da risolvere, ma per la spiegazione bisogna aspettare.

Joyland era un’impresa indipendente, più piccola di un Six Flags e nemmeno paragonabile a un Disney World, ma abbastanza grande da fare colpo, soprattutto grazie alla Passeggiata di Joyland, il viale principale, e alla Strada del Segugio, quello secondario, quasi deserti e larghi almeno otto corsie. Ascoltai il ronzio delle seghe elettriche e notai decine di operai, accalcati soprattutto intorno al Muro del Tuono, uno dei due ottovolanti. Mancava il pubblico, perché il parco avrebbe aperto i battenti solo il quindici maggio. Però, alcuni punti di ristoro stavano per servire il pranzo ai lavoranti e una vecchia davanti a un baraccone da indovina tempestato di stelle mi fissava con sospetto. Tutto il resto era ancora fermo, chiuso, sbarrato.

Con un’eccezione: la Ruota del Sud. Alta più di cinquanta metri (come avrei scoperto dopo), girava con estrema lentezza. Davanti, un uomo tarchiato e muscoloso con un paio di jeans sbiaditi, una canotta e stivali di pelle scamosciata consumati e unti di grasso. Sui capelli nero carbone, una bombetta messa di sbieco. Una sigaretta senza filtro era infilata dietro un orecchio. Sembrava l’imbonitore da fiera di una vecchia striscia a fumetti. Di fianco, una cassetta degli attrezzi e una grande radio portatile sopra una cassa arancione. I Faces cantavano Stay with Me.Il tipo seguiva il ritmo dondolando le anche, le mani infilate nelle tasche posteriori dei calzoni. Un pensiero mi attraversò la mente, assurdo ma perfettamente chiaro: Da grande voglio diventare esattamente come lui.

L’uomo indicò il pass. «Ti ha mandato Freddy Dean, vero? E ti ha detto che tutto il resto era chiuso, ma che potevi scroccare un giro sulla ruota panoramica.»

«Sì, signore.»

«Un giretto per l’eletto. Che il prescelto voli in alto. Accetterai il lavoro?»

«Penso di sì.»

Mi porse la mano. «Sono Lane Hardy. Benvenuto a bordo, ragazzo.»

Gliela strinsi. «Mi chiamo Devin Jones.»

«Tanto piacere.»

Si incamminò lungo la passerella inclinata, fino alla giostra che si muoveva lenta, afferrò una lunga leva simile al cambio di un’auto, con in cima una manopola da bicicletta, e l’abbassò. La ruota si fermò senza fretta, mentre una delle cabine dipinte con colori chiassosi e contrassegnate dal muso di Howie dondolava davanti alla piattaforma per i passeggeri.

«In carrozza, Jonesy. Ti spedirò su, dove il cielo è pulito e il panorama garantito.»

Mi sistemai all’interno, tirandomi dietro lo sportello. Lane lo strattonò per verificare che fosse ben chiuso e abbassò la sbarra di sicurezza, per poi tornare alla sua rudimentale postazione di controllo. «Pronto per il decollo, capitano?»

«Credo.»

«Che la meraviglia abbia inizio!» Mi fece l’occhiolino, spingendo in avanti la leva di comando. La ruota ricominciò a girare e di colpo mi accorsi che Lane mi stava guardando dal basso. Proprio come la vecchia davanti al baraccone, il collo teso e una mano a coprirsi gli occhi. La salutai. Lei non mi rispose.

Poi mi ritrovai sospeso in cielo, più alte di me solo le curve e le giravolte del Muro del Tuono. Mi libravo nella frizzante aria di inizio primavera, sentendo (stupido ma vero) che mi lasciavo a terra ansie e preoccupazioni.

Joyland non era un parco a tema, il che permetteva di offrire un po’ di tutto. C’era un ottovolante più piccolo, il Delirio Cosmico, e uno scivolo acquatico, il Tuffo del Capitano Nemo. Al confine occidentale, un’area dedicata ai bambini, la Borgata Incantata. Non mancava neppure una sala concerti che, come scoprii più tardi, in genere ospitava cantanti country-western di terza categoria o stelle del rock che avevano conosciuto il massimo fulgore negli anni Cinquanta о Sessanta. Ricordo che una volta si divisero il palco Johnny Otis e Big Joe Turner. Fui costretto a chiedere chi fossero a Brenda Rafferty, la capo contabile e una sorta di madre adottiva per le Sirene di Hollywood. Bren mi considerò un ignorante e io pensai che fosse vecchia; probabilmente avevamo ragione entrambi.

Lane Hardy mi fece arrivare fino in cima, per poi fermare la ruota. Restai seduto nella cabina ondeggiante, aggrappato alla sbarra di sicurezza, impegnato a scrutare un mondo completamente nuovo. A ovest si stendevano i bassopiani della Carolina del Nord, incredibilmente verdi per un ragazzo del New England che considerava marzo un mese gelido e piovoso, pallido anticipo della primavera autentica. A est l’oceano, di un blu metallico finché non si abbatteva con cavalloni bianchi sul litorale, dove io sarei andato a passeggiare pochi mesi più tardi portandomi appresso il mio povero cuore martoriato. Sotto di me, l’innocente guazzabuglio di Joyland, le attrazioni grandi e piccole, l’auditorium, baracconi e baracchini, i negozi di souvenir e la Navetta di Howie, che portava i frequentatori ai vicini motel e, naturalmente, alla spiaggia. A nord, Heaven’s Bay. Dall’alto del parco (dove il cielo è pulito e il panorama garantito), la città sembrava fatta di mattoncini per costruzioni, con una torre campanaria per ciascun punto cardinale.

La ruota ricominciò a girare. Iniziai a scendere sentendomi come un bambino in un racconto di Rudyard Kipling, a cavalcioni sulla proboscide di un elefante. Lane Hardy fermò la giostra, ma senza aprirmi lo sportello; d’altronde, ero quasi un dipendente.

«Ti è piaciuto?»

«Da pazzi», risposi.

«Sì, è una roba da vecchiette ma non è malaccio.» Si risistemò la bombetta, inclinandola dalla parte opposta, e mi squadrò da capo a piedi. «Quanto sei, uno e novanta?»

«Uno e novantaquattro.»

«Bene. Vedremo se con la tua stazza ti piacerà farti un giro sulla ruota a metà luglio, indossando la pelliccia e cantando buon compleanno a qualche moccioso viziato con un bastoncino di zucchero filato in una mano e un super cono gelato Lassie nell’altra.»

«Quale pelliccia?»

L’uomo non rispose, già tornato ai suoi comandi. Forse la mia domanda fu soffocata dal suono della radio, che in quel momento sparava Crocodile Rocka pieno volume, o forse Lane Hardy preferiva che il mio futuro reclutamento nelle truppe degli Allegri Aiutanti risultasse una sorpresa.

Avevo a disposizione più di un’ora prima di rivedere Fred Dean e così passeggiai per la Strada del Segugio verso un carrettino degli hot dog molto promettente. A Joyland quasi tutto aveva a che fare con i cani, perciò la specialità si chiamava Cucciolotto Goloso. Ero tirato da matti coi soldi, per questa spedizione, ma potevo permettermi di sperperare un paio di dollari per un chili dog e una vaschetta di patate fritte.

Quando arrivai al baraccone dell’indovina, Madame Fortuna mi si piazzò davanti. In verità la donna si faceva chiamare così solo dal quindici maggio alla festa del Lavoro. Durante quelle sedici settimane, si vestiva con gonne lunghe fino ai piedi, strati di camicette trasparenti e foulard decorati con vari simboli occulti. Cerchi d’oro le pendevano dalle orecchie, così pesanti da allungarle i lobi, e parlava con un forte accento rumeno. Sembrava uscita da un film dell’orrore degli anni Trenta, uno di quelli con i manieri avvolti nella nebbia e gli ululati dei lupi.

Per il resto dell’anno, era una vedova di Brooklyn che collezionava statuine e adorava i film piagnoni in cui una tipa si becca la leucemia e nel corso di una scena stupenda esala l’ultimo respiro. Quel giorno si presentava sobriamente vestita con un abito pantalone nero e scarpe basse. Una sciarpa rosa confetto attorno al collo aggiungeva una nota di colore. Nei panni di Fortuna, sfoggiava una cascata di indomabili riccioli grigi, ma era una parrucca, al momento conservata dentro una teca di vetro nella sua minuscola abitazione di Heaven’s Bay. I suoi veri capelli erano tinti di nero, corti e tagliati a caschetto. L’estimatrice di Love Storyoriginaria di Brooklyn e Fortuna la Veggente avevano solo un punto in comune: entrambe erano convinte di possedere facoltà paranormali.

«Un’ombra grava su di te, giovanotto», dichiarò.

Abbassai lo sguardo, rendendomi conto che aveva ragione. La Ruota del Sud proiettava la sua sagoma su di noi.

«Non in quel senso, stolto. Parlavo del tuo futuro. Sarai presto vittima di un forte desiderio.»

Ne avevo già uno, ma nel giro di poco un Cucciolotto Goloso lungo una spanna mi avrebbe rimesso in sesto. «Davvero interessante, signora…»

«Rosalind Gold», rispose, porgendomi la mano. «Chiamami pure Rozzie, come gli altri. Però, durante la stagione estiva…» Entrò nel personaggio, trasformandosi in una specie di Bela Lugosi con le tette. «In kvelperiodo, io sono… Fortuna

Mi presentai. Se avesse indossato il costume, decine di braccialetti d’oro le avrebbero sbatacchiato rumorosi attorno al polso. «Piacere», risposi. E, cercando di imitarne l’accento: «Io sono… Devin!»

Non sembrò esserne divertita. «Un nome irlandese?»

«Esatto.»

«Gli irlandesi sono gente piena di tristezza e molti di loro hanno il dono della preveggenza. Non so se è anche il tuo caso, ma incontrerai qualcuno con queste qualità.»

In realtà mi sentivo parecchio contento… nonché desideroso di infilarmi nel gargarozzo un hot dog bello farcito di chili. Il mio viaggio stava iniziando a somigliare a un’avventura. Mi dissi che probabilmente avrei cambiato idea quando mi sarei ritrovato a pulire i cessi alla fine di un giorno di punta o a sciacquare via il vomito dai sedili delle Tazze Ballerine; però, fino a quel momento tutto sembrava perfetto.

«Stai provando la tua parte?» le domandai.

La donna si drizzò di colpo. Arrivava a malapena al metro e sessanta. «Kvestanon è una parte, amico mio. Gli ebrei sono la razza più sensitiva dell’intero pianeta.» Mise da parte l’accento. «E comunque, Joyland è sempre meglio di un bugigattolo da chiromante sulla Seconda Avenue. Triste o no, tu mi piaci. Emani delle buone vibrazioni.»

«L’adoro, quella canzone dei Beach Boys.»

«Però una grande afflizione sta per colpirti.» Poi, dopo una classica pausa a effetto: «E forse ti troverai in pericolo».

«Nel mio futuro vedi una bella ragazza con i capelli castani?» Il ritratto di Wendy, insomma.

«No», replicò Rozzie, e la frase successiva mi ghiacciò il sangue nelle vene. «Lei appartiene al passato.»

E va beeene.

L’aggirai, puntando verso il carrettino degli hot dog, attento a non sfiorarla. Era chiaramente una ciarlatana, ma toccarla in quel momento mi pareva una pessima idea.

Niente da fare. Mi seguì. «Nel tuo avvenire scorgo una bambina e un ragazzino. Lui ha un cane.»

«Simpatico, scommetto. Magari si chiama pure Howie.»

Lei ignorò quell’ultimo tocco umoristico. «La bambina porta un cappello rosso e ha una bambola. Uno dei due possiede un potere speciale. Non so chi. Non mi è dato di vederlo.»

Quasi non ascoltai l’ultima parte della tiritera. Stavo ancora pensando alle parole precedenti, pronunciate con un normalissimo accento di Brooklyn: Lei appartiene al passato.

In seguito scoprii che Madame Fortuna sbagliava spesso, ma probabilmente aveva davvero delle doti nascoste; e il giorno in cui mi presentai per il colloquio doveva essere in gran forma.

Venni assunto. Il signor Dean rimase soddisfatto soprattutto dall’attestato della Croce Rossa, che mi ero guadagnato a sedici anni nel campeggio dei metodisti. L’Estate Della Noia Mortale, come la chiamavo. Con il passare del tempo, ho scoperto che anche la monotonia ha i suoi lati positivi.

Comunicai al signor Dean quando sarebbero finiti gli esami della sessione estiva e gli promisi che sarei arrivato due giorni dopo, pronto per l’assegnazione a un gruppo e il periodo di formazione. Dopo esserci stretti la mano, mi diede il benvenuto ufficiale a Joyland. Per un attimo mi chiesi se mi avrebbe chiesto di unirmi a lui nel Latrato del Simpatico Howie, o roba del genere, ma invece si limitò ad augurarmi una buona giornata uscendo con me dalla stanza. Era un ometto con lo sguardo acuto e l’andatura dinoccolata. Sul portichetto di cemento fuori dall’ufficio del personale, ascoltando le onde infrangersi sulla battigia e annusando l’aria salmastra, mi sentii di nuovo eccitato, preso dalla voglia che cominciasse l’estate.

«Adesso fai parte dell’industria del divertimento, giovanotto», mi comunicò il mio nuovo principale. «Non i baracconi di una volta, ormai ci siamo modernizzati, anche se la differenza non è poi così grande. Sai di che cosa sto parlando?»

«No, signore, non esattamente.»

L’uomo aveva lo sguardo solenne, ma le labbra attraversate dall’ombra di un ghigno. «I bifolchi devono uscire da Joyland con un gran sorriso stampato in faccia. Tra parentesi, se dovessi sentire teche li chiami così, ti sbatterei fuori da qui in una frazione di secondo. Io posso farlo, perché lavoro nel giro da quando ho iniziato a radermi. Sono e rimangono degli zoticoni, simili ai contadinotti dell’Oklahoma o dell’Arkansas che si accalcavano pieni di stupore in tutte le fiere dove ho sgobbato dopo la seconda guerra mondiale. La gente che viene a Joyland potrà essere vestita meglio, guidare una famigliare invece di un pick-up, ma questo posto la trasforma in bifolchi dalla bocca aperta. Se non succede, significa che qualcosa non funziona. Per te, loro sono i ‘coni’. Quando si sentono chiamare così, loropensano a Coney Island e al suo famoso luna park, ma noi sappiamo la verità. Sono frollocconi ,caro il mio signor Jones, bei conigli frolli che adorano divertirsi, saltando da una giostra all’altra, da un’attrazione all’altra invece che di tana in tana.»

Mi fece l’occhiolino, stringendomi la spalla.

«I frollocconi devono andarsene contenti, altrimenti Joyland si svuota e muore. L’ho visto accadere di persona e in genere capita in fretta. È un parco giochi, ragazzo; ricordati di coccolare i coniglietti, tirandogli le orecchie solo se necessario. In poche parole, falli divertire.»

«D’accordo», risposi, ma non avevo idea di come avrei portato a termine quel compito lustrando i Bolidi Infernali (la versione locale degli autoscontri) o percorrendo la Strada del Segugio con una motoscopa dopo la chiusura dei cancelli.

«E non provare a mollarmi una fregatura. Vedi di arrivare il giorno stabilito e cinque minuti in anticipo.»

«Va bene.»

«Nel mondo dello spettacolo esistono due regole fondamentali, bello mio: tieni sempre d’occhio il portafoglio e… non dare maibuca.»

Al momento di uscire, passai sotto il grande arco con BENVENUTI A JOYLAND scritto in lettere al neon, che in quel momento erano spente, e mi diressi verso il parcheggio semivuoto. Lane Hardy era appoggiato a una delle biglietterie, dalle saracinesche abbassate. Tra le labbra aveva la sigaretta che prima teneva dietro l’orecchio.

«Dentro non si può più fumare», esordì. «Una nuova disposizione. Secondo Easterbrook siamo il primo parco d’America ad applicarla, ma non saremo l’ultimo. Ti hanno assunto?»

«Sì.»

«Congratulazioni. Freddy ti ha fatto il discorsetto sulle fiere e il resto?»

«Più o meno.»

«Si è raccomandato di coccolare i frollocconi?»

«Certo.»

«Può comportarsi da tritamaroni, ma è uno del mestiere, ha visto di tutto e di più, e non ha torto. Credo te la caverai bene. Sei intonato al posto, amico.» Con un gesto della mano indicò le principali attrazioni del parco che si stagliavano contro il cielo di un azzurro perfetto: il Muro del Tuono, il Delirio Cosmico, le volute dello scivolo acquatico e, naturalmente, la Ruota del Sud. «Chissà, questo posto potrebbe rappresentare il tuo futuro.»

«Forse sì», risposi, pur essendo già certo del mio destino: scrivere romanzi e quel genere di racconti che pubblicano sul New Yorker.Avevo pianificato tutto. Naturalmente, in programma c’erano anche il matrimonio con Wendy Keegan e la determinazione di aspettare i trent’anni prima di avere dei figli. Da ventunenne, la vita è come una cartina stradale. Solo quando arrivi ai venticinque o giù di lì, cominci a sospettare di averla guardata capovolta, per poi esserne certo intorno ai quaranta. Arrivato ai sessanta, fidatevi, capisci di esserti perso nella giungla.

«Rozzie Gold ti ha propinato le solite cazzate da Madame Fortuna?»

«Veramente…»

Lane ridacchiò. «Che te lo chiedo a fare? Ricordati che il novanta per cento di quello che dice sono veramente cazzate, ragazzo. Ma il restante dieci… con quello è riuscita a lasciare di stucco parecchia gente.»

«Compreso te? Anche tu sei rimasto di stucco?»

L’uomo abbozzò un sorriso di sbieco. «Quando lascerò che Rozzie mi legga la mano, vorrà dire che è giunto il momento di tornare sulla strada, lavorando per le fiere itineranti da due soldi. Mia madre non mi ha cresciuto perché mi mettessi a pasticciare con le sfere di cristallo e i tarocchi.»

Nel mio futuro vedi una bella ragazza con i capelli castani?

No. Lei appartiene al passato.

Lane mi scrutò a fondo. «Che c’è? Ti è andata di traverso la gomma da masticare?»

«No, niente.»

«Forza, bello: ti ha spiattellato la verità o un mucchio di stronzate? Sogno o son desto? Raccontalo al tuo paparino.»

«Stronzate, decisamente.» Controllai l’ora. «Devo prendere la corriera delle cinque, se non voglio perdere il treno per Boston delle sette. Meglio che mi sbrighi.»

«Ah, hai un sacco di tempo. Dove starai questa estate?»

«Non ci ho ancora pensato.»

«Mentre torni alla stazione dei pullman, potresti fermarti dalla signora Shoplaw. A Heaven’s Bay un sacco di gente affitta alloggi alla manovalanza estiva, ma lei è il meglio. Nel corso degli anni ha ospitato molti Allegri Aiutanti. È alla fine della strada principale, davanti alla spiaggia, facile da trovare, una grande casa dipinta di grigio. Ha un’insegna appesa al portico. La noterai per forza perché è fatta di conchiglie e ne casca sempre qualcuna: ‘Shoplaw – Appartamenti fronte oceano’. Dille che ti mando io.»

«Grazie, lo farò.»

«Se trovi un posto, da lì puoi raggiungere Joyland lungo la spiaggia, risparmiando i soldi della benzina per qualcosa di più importante, come andartene a zonzo nel tuo giorno libero. Passeggiare sulla sabbia è un ottimo modo per iniziare la mattinata. In bocca al lupo, bello. Non vedo l’ora di lavorare con te.» Mi porse la mano, gliela strinsi e lo ringraziai di nuovo.

Era stato lui a mettermi in testa quell’idea e così decisi di ritornare in città seguendo la costa. Avrei risparmiato venti minuti di attesa per un taxi che potevo a malapena permettermi. Avevo quasi raggiunto i gradini di legno che scendevano alla spiaggia quando Lane mi chiamò.

«Ehi, Jonesy! Ti va di sapere qualcosa che Rozzie non ti rivelerà mai?»


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