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Joyland
  • Текст добавлен: 9 октября 2016, 19:10

Текст книги "Joyland"


Автор книги: Stephen Edwin King


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Ужасы

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Attraversai la stanza il più silenziosamente possibile e infilai i guanti nel cassetto, insieme con i vestiti che aveva indosso al momento dell’ammissione. Restava il famoso qualcos’altro, una fotografia che avevo trovato sulla parete della sua piccola tana disordinata e puzzolente di fumo, accanto a un calendario ingiallito di due anni prima. Nell’immagine, Eddie e una donna dall’aria anonima erano nel cortile invaso dalle erbacce di un villino qualsiasi. Parks dimostrava circa venticinque anni e la cingeva con il braccio. Lei gli sorrideva e, meraviglia delle meraviglie, lui faceva altrettanto.

Di fianco al letto, un tavolino a rotelle con una caraffa di plastica e un bicchiere. Mi parve una stupidaggine; con le mani fasciate così, non sarebbe stato in grado di versarsi da bere per parecchio tempo. La caraffa comunque mi tornò utile. Ci appoggiai contro la foto, in modo che la vedesse non appena sveglio, e mi avviai verso la porta.

L’avevo quasi raggiunta quando lui mi parlò con un sussurro distante anni luce dal suo solito gracchiare irascibile. «Bamboccio…»

Tornai senza troppo entusiasmo al suo capezzale. Nell’angolo notai una sedia, ma non avevo nessuna intenzione di spostarla o usarla. «Come stai, Eddie?»

«Non lo so. Fatico… a respirare. Mi hanno incerottato da cima a fondo.»

«Ti ho portato i guanti, ma vedo che hanno già…» indicai le mani con un cenno del capo.

«Sì», ansimò. «Se non altro, in mezzo a tutta questa scalogna, forse qui riusciranno a curarmele. Non smettono mai di prudermi, le bastarde.» Lanciò uno sguardo alla fotografia. «Perché l’hai presa? E che cazzo ci facevi nella mia tana?»

«Ho rimesso a posto i tuoi guanti, come mi aveva detto Lane. Subito dopo ho pensato che forse ne avresti avuto bisogno. E che ti avrebbe fatto piacere rivedere la foto. Vuoi che Fred Dean chiami la donna ritratta con te?»

«Corinne?» domandò lui con una risatina nasale. «È crepata vent’anni fa. Versami dell’acqua, bamboccio. Ho la gola secca come una merda di cane abbrustolita dal sole.»

Gli obbedii, reggendogli il bicchiere e persino asciugandogli gli angoli della bocca quando si sbrodolò. Tutto fin troppo intimo, ma poi mi ricordai che avevo slinguato quel povero figlio di buona donna solo poche ore prima.

Non si sprecò a ringraziarmi, come da copione, limitandosi a ordinare: «Solleva la foto». Non trovai la forza di oppormi. La fissò intensamente per parecchi secondi e alla fine sospirò. «Brutta puttana traditrice. Solo brava a lamentarsi. Mollarla e mettermi a lavorare nei Royal American Show è stata la più grande pensata della mia vita.» Una lacrima gli guizzò all’angolo dell’occhio destro, per poi scendergli lungo la guancia dopo un attimo di esitazione.

«Vuoi che la porti via e la riattacchi nella tua tana, Eddie?»

«No, lasciala pure. Avevamo una figlia, sai?»

«Davvero?»

«Sì, è stata investita da un’auto. Aveva tre anni ed è morta come un cane rognoso in mezzo alla strada. Quella troia stava cianciando al telefono invece di starle dietro.» Si girò, serrando le palpebre. «Forza, sparisci. Sono stanco e mi fa male parlare. Mi sembra di avere un elefante seduto sul petto.»

«D’accordo. Stammi bene.»

Abbozzò una smorfia, senza riaprire gli occhi. «Ti va di scherzare? Come pensi sia possibile? Sono messo malissimo: non ho parenti, amici, risparmi o uno straccio di assicurazione. Come me la caverò?»

«Migliorerà, vedrai», risposi senza eccessiva convinzione.

«Sicuro. Nei film succede di continuo. Avanti, fila via.»

Quando si rivolse di nuovo a me, ero già fuori dalla porta.

«Avresti dovuto lasciarmi schiattare, bamboccio.» Lo disse senza tanti drammi, quasi fosse una considerazione di scarsa importanza. «Così avrei raggiunto la mia piccolina.»

Quando ritornai all’entrata dell’ospedale mi bloccai di colpo, sulle prime incerto di chi o che cosa stessi vedendo. Era lei, senza dubbio, con un esemplare della sua infinita collezione di «mattoni» spalancato davanti.

«Annie?»

La donna alzò lo sguardo, inizialmente guardinga, per poi sorridere non appena mi riconobbe. «Dev! Che ci fai qui?»

«Oggi un collega del parco ha avuto un infarto. Sono venuto a trovarlo.»

«Mio Dio, mi dispiace moltissimo. Si rimetterà?»

Mi sedetti accanto a lei, anche se non mi aveva invitato a farlo. Rivedere Eddie mi aveva messo addosso un’agitazione che non riuscivo a definire e mi sentivo i nervi a fior di pelle. Non era tristezza o commozione. Si trattava di una strana, vaga rabbia che aveva qualcosa a che spartire con il sapore schifoso di peperoncini verdi che ancora sentivo in bocca. E con Wendy, chissà perché. Era dura scoprire che non l’avevo dimenticata, non del tutto. Un braccio fratturato sarebbe guarito più in fretta.

«Non ne ho idea. Non ho sentito un medico. Che mi dici di Mike

«Solo una visita di controllo. Una radiografia del torace e un emocromo completo, per via della polmonite. Fortunatamente è guarito. Ora sta bene, a parte un residuo di tosse.» Non aveva chiuso il libro. Probabilmente desiderava che mi levassi di torno: un atteggiamento che rinfocolò la mia ira. Ricordatevi che quello era il famoso anno in cui tuttivolevano liberarsi di me, compreso il tipo a cui avevo appena salvato la pelle.

E così la mia risposta fu: «Mike non pensa assolutamente di stare bene. A chi devo dare retta, Annie?»

Il suo sguardo si fece prima stupefatto e poi distaccato. «Non mi importa a chi o a che cosa tu creda, Devin. Non sono affari tuoi, poco ma sicuro.»

«Invece sì», disse una voce alla nostre spalle. Mike si era avvicinato in sedia a rotelle. Non era elettrica e lui era costretto a girare le ruote con le mani. Un ragazzino robusto, tosse o meno. Però aveva sbagliato ad abbottonarsi la camicia.

Annie si voltò verso il figlio, sorpresa. «Che ci fai qui? Doveva essere l’infermiera a…»

«Le ho assicurato che me la sarei cavata da solo e mi ha lasciato andare. Da radiologia sono appena una svolta a sinistra e due a destra. Non sono cieco, sto solo mor…»

«Mike, il signor Jones era venuto a trovare un suo amico.» Il signor Jones.Ero stato retrocesso. La donna chiuse il libro con un colpo secco. «Probabilmente non vede l’ora di tornare a casa e anche tu sarai molto stan…»

«Voglio che Dev ci porti tutti e due al parco», ribatté Mike con un tono calmo ma abbastanza stentoreo da far voltare la gente attorno. «Tutti e due.»

«Mike, sai che non è…»

«A Joyland. La terra della gioia», proseguì, sempre sereno ma con la voce che aumentava di volume. Ormai lo stavano fissando tutti. Le gote di Annie erano rosse come il fuoco. «Forza portatemi.» Ormai gridava. «Portatemi a Joyland prima che muoia.»

La madre si coprì la bocca con la mano. Aveva gli occhi fuori dalla testa. La risposta tardò ad arrivare, bofonchiata ma comprensibile. «Mike, tu non morirai. Chi ti ha detto…» Si girò di scatto verso di me. «Sei tu che devo ringraziare per avergli messo in testa un’idea simile?»

«No, naturalmente.» Mi rendevo perfettamente conto che il nostro pubblico stava crescendo, che alla piccola folla si erano aggiunti un paio di infermiere e un medico in camice e zoccoli azzurri, ma non me ne fregava nulla.

Ero ancora arrabbiato. «Luil’ha detto a me. Perché ne sei tanto sorpresa, visto che sei perfettamente a conoscenza della sua perspicacia?»

Quel pomeriggio ero condannato a fare piangere la gente. Prima Eddie e poi Annie. Invece Mike non si lasciò scappare una lacrima. Sembrava furibondo quanto me, ma non si lamentò quando la madre afferrò le maniglie della sedia a rotelle, improvvisò un dietrofront e la spinse in direzione delle porte a vetri. Pensai che ci sarebbe andata a sbattere contro, ma si aprirono appena in tempo grazie alla cellula fotoelettrica.

Che se ne vadano, rimuginai. Però ero stufo di dire addio alle donne della mia vita. Di lasciare che le cose accadessero, restando con le mani in mano e sentendomi da schifo.

Mi si avvicinò un’infermiera. «Tutto bene?»

«No», risposi, e li seguii fuori.

Annie si era fermata nel parcheggio di fianco all’ospedale, dove un cartello avvertiva: QUESTE DUE FILE SONO RISERVATE AI DISABILI. La parte posteriore del suo furgoncino era abbastanza ampia da ospitare la sedia a rotelle, una volta ripiegata. Aveva spalancato la portiera del passeggero, ma Mike si rifiutava di salire. Stringeva i braccioli con tutte le sue forze, le dita contratte e bianche come quelle di un cadavere.

«Entra!» gli gridò la madre.

Il ragazzino scosse il capo, senza guardarla.

«Entra, porca miseria!»

Stavolta non mosse neanche la testa.

Annie lo agguantò, strattonandolo. La sedia a rotelle aveva il freno inserito e si inclinò in avanti. L’afferrai appena prima che si ribaltasse, rovesciandoli contro la portiera aperta.

I capelli le si erano sparsi sul volto, quasi a nasconderle lo sguardo da folle, simile a quello di un cavallo imbizzarrito durante un temporale. « Levati! È tutta colpa tua! Non avrei mai dovuto…»

«Basta.» La presi per le spalle. Erano incavate, le ossa vicine alla pelle. È troppo impegnata a imbottire il figlio di calorie per badare a se stessa.

«Metti giù le ma…»

«Non ho intenzione di portartelo via», risposi. «È l’ultima cosa che voglio.»

Si calmò e con cautela mollai la presa. Durante la colluttazione, il romanzo che stava leggendo era cascato sull’asfalto. Mi chinai e lo raccolsi, infilandolo nel tascone posteriore della sedia.

«Mamma.» Mike le afferrò la mano. «Non sarà l’ultima volta che ci divertiamo insieme.»

E allora capii, ancor prima che le si incurvassero le spalle e partissero i singhiozzi. Non aveva paura che lo ficcassi sopra un’attrazione mozzafiato e che il cuore gli esplodesse per un picco di adrenalina. O che uno sconosciuto rapisse il cucciolo malato che amava con tutta se stessa. Si trattava di una convinzione ancestrale, tipica di una madre. Se non ci fossero state ultime volte,la vita sarebbe proseguita come al solito: i frullati per colazione al termine della passerella di legno, le serate con l’aquilone sulla spiaggia, in una specie di estate infinita. Ormai si erano spente le urla felici dei ragazzini sul Muro del Tuono e dei bambini che schizzavano giù dall’acquascivolo; l’aria si faceva sempre più fresca con il passare dei giorni. Nessuna estate dura per sempre.

Annie si coprì il volto con le mani, cercando di sedersi al posto del passeggero. Era troppo alto per lei e rischiò di scivolare. La aiutai, sorreggendola, ma non se ne rese quasi conto.

«Forza, portalo con te», affermò. «Non me ne frega un cazzo. Buttatevi giù da un aereo con il paracadute, se vi va. Però, non pretendete che partecipi alla vostra avventura da duri.»

«Non ci andrei mai senza di te», rispose il ragazzino.

A quella frase, si scoprì il volto e lo fissò. «Michael, tu sei tutto quello che ho. Lo capisci?»

«Sì.» Le strinse le mani tra le sue. «E io non ho altri che te.»

Dalla sua espressione, mi accorsi che un’idea simile non le era mai passata per la testa, non con una tale chiarezza.

«Aiutatemi a salire, per favore», ci pregò Mike.

Quando si fu sistemato (non ricordo di avergli agganciato la cintura di sicurezza; probabilmente a quei tempi non erano ancora obbligatorie), chiusi la portiera e girai attorno al muso del furgone insieme con Annie.

«La sedia», disse lei distrattamente. «Ce ne stavamo scordando.»

«Faccio io. Tu mettiti al volante e pensa solo a guidare. Tira dei respiri profondi.»

Non si ribellò. La reggevo per l’avambraccio, che potevo chiudere tutto nella mano. Fui tentato di farle notare che non poteva alimentarsi solo di romanzi difficili e noiosi, ma non aprii bocca. Quel pomeriggio era già stata obbligata a sentire abbastanza.

Piegai la sedia a rotelle e la stivai nel bagagliaio, impiegandoci più del dovuto per darle il tempo di ricomporsi. Tornai al sedile del guidatore, aspettandomi di trovare il finestrino alzato. Invece era ancora aperto. Si era asciugata naso e occhi, ravviando i capelli alla bell’e meglio.

«Non può andarci senza di te, e nemmeno io», affermai.

«Sono sempre preoccupata per lui», rispose, come se Mike non fosse lì ad ascoltare. «È in grado di vedere e capire molte cose, che poi gli provocano dolore. Sono la causa dei suoi incubi. È un ragazzino fantastico. Perché non può stare bene? Perché questo? Perché questo

«Non lo so», conclusi.

Si voltò, baciando il figlio sulla guancia, e tornò a fissarmi. Inspirò a fondo, ansiosa, lasciando poi uscire tutta l’aria. «Allora, quando andiamo?»

Di sicuro Il ritorno del renon era complicato come l’ultimo volumone di Annie, ma quella sera non sarei stato in grado di leggere nemmeno Il gatto col cappello.Dopo una cena a base di spaghetti in lattina, ignorando bellamente le acute osservazioni della signora Shoplaw sulla capacità di certi ragazzi di rovinarsi la salute, ritornai nella mia stanza e mi sedetti davanti alla finestra, lo sguardo perso nelle tenebre, intento ad ascoltare il costante andirivieni della risacca.

Stavo per appisolarmi quando la signora S. bussò con discrezione alla porta. «C’è una chiamata per te, Dev. È un ragazzino.»

Mi affrettai in salotto, immaginando di chi si trattasse.

«Mike?»

«Mamma sta dormendo. Ha detto che era stanca», sussurrò.

«Non mi stupisce», continuai, pensando a come ceravamo coalizzati contro di lei.

«Sì, siamo stati obbligati», rispose, quasi avessi espresso la mia riflessione a voce alta.

«Mike… mi stai leggendo nella mente? Ne sei capace?»

«Non lo so. A volte vedo e sento certe cose, niente di più. Oppure ho delle illuminazioni. Sono stato io a insistere che venissimo a casa del nonno. Secondo mamma era impossibile, ma ero sicuro che ce l’avrebbe permesso. Questa dote, se vogliamo chiamarla così, credo che arrivi da lui. È capace di guarire il prossimo. Cioè, spesso fa finta, ma a volte ci riesce sul serio.»

«Perché mi hai telefonato, Mike?»

«Per Joyland!» esclamò in preda all’eccitazione. «Potremo davvero salire sulla giostra dei cavalli e sulla ruota panoramica?»

«Ne sono praticamente certo.»

«E sparare al tirassegno?»

«Forse. Con il consenso di tua madre. L’intera faccenda è legata alla sua approvazione. In altre parole…»

«Ho capito benissimo», ribatté con una punta di insofferenza, per poi tornare il ragazzino euforico di prima. «Fantastico!»

«Niente giostre veloci, chiaro? Primo, perché sono ferme per l’inverno.» Anche la Ruota del Sud lo era ma, con l’aiuto di Lane Hardy, avrei impiegato meno di un’ora a rimetterla in moto. «Secondo…»

«Sì, lo so, il mio cuore. Mi farò bastare la ruota. Pensa che la vediamo sempre dalla fine della passerella di legno. Dalla cima, sarà come osservare il mondo dal mio aquilone.»

Sorrisi. «Non ti sbagli di molto. Ma ricorda che l’ultima parola spetta a tua madre. Annie è il capo.»

«Ma se ci stiamo andando proprio per lei. Lo capirà non appena arrivata.» Sembrava misteriosamente sicuro di sé. «E anche per te, Dev. Ma soprattutto per la ragazza. È lì da troppo tempo. Vuole andarsene.»

Restai a bocca aperta, senza il rischio di sbavare, talmente era asciutta. «Come fai…» gracchiai. Deglutii a forza. «Come fai a sapere di lei?»

«Non ne ho idea, ma credo sia il motivo per cui mi trovo qui. Ti ho detto che non è bianco?»

«Sì, ma che non ne conoscevi il significato. Nel frattempo è cambiato qualcosa?»

«No.» Iniziò a tossire. Aspettai che finisse. Quando l’attacco si calmò, Mike proseguì ansimando. «Devo andare. Mamma si sta svegliando dal riposino. Adesso passerà metà notte a leggere.»

«Sul serio?»

«Sì. Spero tanto che mi lascerà salire sulla ruota panoramica.»

«È la Ruota del Sud, anche se i dipendenti la chiamano semplicemente il montacarichi.» Alcuni di loro, tra cui Eddie, in realtà la soprannominavano il montafessi, un particolare che preferii non rivelargli. «La gente di Joyland usa un gergo segreto, come in questo caso.»

«Il montacarichi. Non lo dimenticherò. Ciao, Dev.»

Nell’orecchio, il rumore della cornetta che veniva abbassata.

Quella volta l’infarto toccò a Fred Dean.

Era steso sulla pedana della Ruota del Sud, il volto livido e contratto. Mi inginocchiai accanto, iniziando a comprimergli il torace. Quando mi accorsi che non serviva, mi piegai in avanti e gli chiusi il naso con le dita, premendo le labbra contro le sue. Qualcosa mi solleticò i denti e la lingua. Mi staccai e vidi un fiotto di piccoli ragni neri uscirgli dalla gola.

Mi svegliai. Le tre del mattino di martedì. Ero mezzo cascato dal letto, le coperte sfatte ad avvolgermi in un sudario, il cuore che mi martellava in petto, le dita a tormentarmi la bocca. Impiegai una manciata di secondi a capire che non c’era niente. Mi alzai, raggiunsi il bagno e tracannai un paio di bicchieroni d’acqua. Se ho avuto incubi peggiori, fortunatamente non me li ricordo. Risistemai il letto e mi distesi di nuovo, convinto che non mi sarei riaddormentato. Contro ogni previsione, c’ero quasi riuscito quando mi resi conto che la lacrimevole sceneggiata dell’ospedale forse non sarebbe servita a nulla.

Certo, Joyland era ben felice di organizzare visite per gli storpi, i ciechi e gli zoppi (quelli che ultimamente vengono definiti «bambini con bisogni educativi speciali»), ma ormai la stagione era finita. La costosa polizza assicurativa del parco avrebbe coperto un eventuale incidente capitato a Mike Ross nel mese di ottobre? Già mi vedevo Fred Dean scuotere la testa di fronte alla mia richiesta, sostenendo che era molto spiacente, ma…

La mattinata era gelida, accompagnata da un forte vento, e così presi l’auto e la posteggiai di fianco al camioncino di Lane. Ero in anticipo e i nostri erano i soli veicoli nel parcheggio A, abbastanza vasto da accogliere cinquecento macchine. Foglie morte correvano sull’asfalto con un rumore di insetti che mi fece tornare in mente i ragni del sogno.

Lane era su una sedia da giardino fuori dal baraccone di Madame Fortuna, che presto sarebbe stato smontato e spostato in magazzino per l’inverno. Era occupato a divorare un bagel generosamente farcito di formaggio spalmabile. Aveva la sua immancabile bombetta calata sulle ventitré e una sigaretta appoggiata dietro un orecchio. Unica novità, un giubbotto di jeans: altro segno, se mai ne avessi avuto bisogno, che la bella stagione era agli sgoccioli.

«Jonesy, Jonesy, senza compagnia, si incammina per la via. Vuoi favorire? Ne ho in abbondanza.»

«Grazie. Posso parlarti mentre mangio?»

«Sei venuto a confessare le tue colpe? Prego, figliolo.» Indicò il lato del prefabbricato, contro il quale erano appoggiate altre due sedie pieghevoli.

«Nulla di peccaminoso», risposi, aprendone una. Mi sedetti, agguantando il sacchetto di carta marrone che mi stava porgendo. «Ma ho fatto una promessa che temo di non essere in grado di mantenere.»

Gli raccontai di Mike e di come avessi convinto la madre a lasciarlo venire al parco: un’impresa titanica, considerato il fragile stato emotivo della donna. Conclusi il discorsetto rivelandogli di essermi svegliato nel mezzo della notte, certo che Fred Dean non avrebbe mai permesso nulla del genere. Gli nascosi soltanto la storia del sogno con i ragni.

«Dunque dunque», commentò Lane alla fine. «È una tipa da sturbo, la mammina?»

«Uh, sì, in effetti. Ma non è questo il motivo per cui…»

Mi sferrò una pacca sulle spalle, sfoderando un sorrisetto paternalistico di cui avrei fatto volentieri a meno. «Ho capito tutto, Jonesy, eccome sé l’ho capito.»

«Lane, ha dieci anni più di me!»

«D’accordo, e se avessi un dollaro per ogni ragazza con dieci anni di menoche mi sono portato fuori, mi potrei permettere una cena a base di bistecche nel ristorante più chic di New York. L’età è solo un numero, figliolo.»

«Magnifico. Grazie per la lezione di aritmetica. Adesso però dimmi se ho combinato una cagata, promettendo a Mike che sarebbe potuto venire al parco per salire sulla ruota panoramica e sulla giostra dei cavalli.»

«Hai combinato una cagata», ammise. Mi sentii crollare la terra sotto i piedi. «Però…»

«Però?»

«Hai già fissato una data per la vostra simpatica gita?»

«Non proprio. Giovedì, forse.» Prima dell’arrivo di Erin e Tom, in soldoni.

«Pessima scelta. Lo stesso vale per venerdì. Il ragazzino e la mamma da sturbo resteranno qui fino alla prossima settimana?»

«Credo di sì, ma…»

«Lunedì o martedì, allora.»

«Perché aspettare?»

«Perché deve uscire il giornale», rispose, fissandomi come se fossi stato il più grande imbecille sulla faccia della Terra.

«Il giornale…?»

«Il foglio locale. Esce il giovedì. Quando la tua ultima impresa verrà schiaffata in prima pagina, diventerai il cocco di Freddy Dean.» Lane gettò i resti della colazione nel più vicino portarifiuti (canestro! due punti) e sollevò le mani, quasi a incorniciare il titolo di apertura di un giornale. «Correte a Joyland. Non solo vendiamo divertimento, ma salviamo vite umane!» Sorrise, inclinando il cappello dal lato opposto. «Una pubblicità impagabile. Fred te ne sarà debitore. Non ti resterà che passare all’incasso e grazie tante.»

«Ma come ne verranno a conoscenza i giornalisti? Non credo che Eddie Parks aprirà il becco.» E anche se l’avesse fatto, si sarebbe raccomandato di mettere in risalto il particolare che gli avevo quasi fracassato lo sterno.

Lane alzò gli occhi al cielo. «Continuo a scordarmi che sei un forestiero, Jonesy. Quella carta da lettiera viene comperata solo per la cronaca. E le chiamate di soccorso all’ospedale sono la parte più noiosa. In via del tutto eccezionale, ti farò il piacere di scarpinare fino agli uffici del Bannerdurante la pausa pranzo e raccontare ai bifolchi il tuo incredibile atto di eroismo. Manderanno subito qualcuno a intervistarti.»

«Non è che mi piaccia…»

«Ossignore, e chi sei? Un boy scout con una medaglia al merito per la modestia? Piantala. Vuoi che il ragazzino si goda un giro del parco, giusto?»

«Sì.»

«E allora preparati a essere intervistato. E a sorridere quando ti scatteranno una foto.»

Che poi, tagliando corto, è proprio quello che feci.

«Magari Freddy Dean se ne sarebbe impipato dell’assicurazione, decidendo di mettersi in gioco», continuò Lane mentre piegavo la sedia. «Anche se non lo diresti mai, è un figlio del carrozzone. Il padre era un raggira-polli da una tacca e mezzo che capitanava il bingo. Una volta Freddy mi ha rivelato che il paparino si portava sempre dietro un panino di verdoni farlocchi così farcito da strozzare un mulo.»

Riuscii a capire tutto, tranne la faccenda del panino. Quando glielo chiesi, Lane scoppiò a ridere. «È una mazzetta con due pezzi da venti, sopra e sotto, che racchiudono all’interno banconote da uno o foglietti di carta verde. Un sistema infallibile per attirare i gonzi. In quando a Freddy, però, il punto è un altro.» Si spostò di nuovo la bombetta.

«Cioè?»

«I figli del carrozzone hanno un debole per i bignè carini in gonne attillate e i bambini segnati dalla sfortuna. E provano una forte antipatia per le regole dei bifolchi, comprese le menate di certi contabili da strapazzo.»

«Allora forse non dovrei…»

Mi interruppe, alzando entrambe le mani. «Meglio andare sul sicuro. Tieniti pronto per l’intervista.»

Il fotografo del Bannermi scattò la foto davanti al Muro del Tuono. Quando la vidi, mi scappò una smorfia imbarazzata. Avevo gli occhi socchiusi e l’espressione da scemo del villaggio, ma lo stratagemma funzionò: il giornale era sulla scrivania di Fred quando andai a trovarlo il venerdì mattina. Dopo qualche tentennamento, approvò la mia richiesta, a patto che Lane non si schiodasse da noi mentre il bambino e la madre visitavano Joyland.

Lane accettò senza esitare, sostenendo che voleva conoscere la mia fidanzata e ridendo divertito quando iniziò a uscirmi il fumo dalle orecchie.

Poco più tardi chiamai Annie Ross, dallo stesso telefono usato da Lane per avvisare l’ambulanza. Le confermai che avevo organizzato un giro del parco per la mattinata di lunedì, o al massimo di martedì o mercoledì in caso di cattivo tempo. Poi trattenni il fiato.

Ci fu una lunga pausa, seguita da un sospiro.

Alla fine lei mormorò che andava bene.

Fu un venerdì impegnativo. Uscii da Joyland in anticipo, raggiunsi Wilmington in auto e aspettai che Erin e Tom scendessero dal treno. Lei attraversò la banchina di corsa e mi si gettò tra le braccia, baciandomi sulle guance e sulla punta del naso. Tenerla stretta era stupendo, ma i baci erano molto casti, come quelli di una sorella: impossibile confondersi. Mollai la presa, lasciando che Tom mi serrasse in un entusiastico abbraccio virile, con tanto di reciproche pacche sulla schiena. Sembrava che non ci vedessimo da cinque anni invece che da cinque settimane. Ormai avevo l’aria di uno che sgobbava sodo, anche se indossavo una polo e i miei pantaloni di tela più eleganti, e avevo abbandonato nel mio armadio i jeans macchiati di grasso e il cancappello scolorito dal sole.

«È fantastico rivederti!» esclamò Erin. «Mio Dio, che abbronzatura!»

Alzai le spalle. «Be’, d’altronde ho la fortuna di lavorare all’estremo nord della riviera dei buzzurri.»

«Hai preso la decisione giusta», intervenne Tom. «Proprio così, anche se non ci avrei mai scommesso quando mi hai detto che non saresti tornato all’università. Forse sarei dovuto rimanere ioa Joyland.»

Abbozzò il suo tipico sorriso da sciogliere i ghiacciai, e ammaliare qualsiasi essere del creato, ma che non riuscì a cancellargli un’ombra scura dallo sguardo. Non si sarebbe mai potuto fermare al parco, non dopo l’esperienza di quell’ultima attrazione al buio.

Trascorsero il fine settimana dalla signora Shoplaw.

Lei fu deliziata di ospitarli e Tina Ackerley fu felicissima di rivederli. Ci riunimmo tutti e cinque per un allegro picnic di tarda sera sulla spiaggia, finendo mezzi ubriachi, con le fiamme divampanti di un falò a riscaldarci. Il sabato mattina però, quando per Erin giunse il momento di condividere con me le informazioni che la mettevano tanto a disagio, Tom manifestò la precisa intenzione di stracciare Tina e la signora S. a Scarabeo, lasciandoci da soli. Pensai che se Annie e Mike si fossero trovati alla fine della loro passerella di legno, mi sarebbe piaciuto presentarli alla mia amica. Ma la giornata era gelida, il vento spirava freddo dall’oceano e nessuno era seduto attorno al tavolino pieghevole vicino alla casa vittoriana. Era sparito persino l’ombrellone, portato all’interno e riposto da qualche parte in attesa che finisse l’inverno.

A Joyland, i quattro parcheggi erano deserti a parte lo sparuto gruppetto dei camioncini della manutenzione. Erin, che indossava pantaloni di lana e un dolcevita pesante, stringeva in mano una sottile valigetta dall’aspetto professionale con le sue iniziali impresse. Inarcò le sopracciglia quando mi sfilai di tasca un largo anello e scelsi la chiave più grande.

«Così adesso sei uno di loro», commentò.

La sua frase mi imbarazzò: non succede a ognuno di noi, anche se non ne sappiamo il motivo, quando qualcuno se ne esce con un’espressione del genere? Uno di loro.

«Non proprio. Me la porto dietro in caso arrivi qui prima degli altri o me ne vada per ultimo, ma solo Fred e Lane hanno tutte le chiavi del regno.»

Lei si mise a ridere, come se avessi detto una stupidaggine. «Secondo me quella del cancello èla chiave del regno.» Poi ritornò seria e mi fissò a lungo, squadrandomi da cima a fondo. «Sembri più vecchio, Devin. L’ho pensato ancora prima che scendessimo dal treno, quando ti ho visto ad aspettarci lungo il binario. Ora so perché. Tu sei rimasto qui a lavorare mentre noi siamo tornati sull’isola Che Non C’è a giocare con i Ragazzi Perduti. Quelli che tra non molto sfoggeranno completi della Brooks Brothers e si ritroveranno con un master di economia aziendale in tasca.»

Indicai la sua valigetta. «Sarebbe un perfetto abbinamento con un vestito della Brooks Brothers… se ti piace la loro linea per donne, naturalmente.»

«Un regalo dei miei», sospirò Erin. «Mio padre vorrebbe che seguissi le sue orme, diventando un avvocato. Non ho ancora trovato il coraggio di confessargli che mi piacerebbe una carriera da fotografa indipendente. Gli prenderà un colpo.»

Ci incamminammo per la Passeggiata di Joyland, il silenzio rotto soltanto dalle foglie cadute, che crepitavano come piccole ossa. Erin osservò le giostre coperte da teloni, la fontana asciutta, i cavalli immobili della giostra per i bambini, il palcoscenico vuoto del teatrino della Borgata Incantata, ormai disabitato.

«A vederlo così mette tristezza. Ti fa capire che tutto ha una fine.» Mi lanciò uno sguardo denso di ammirazione. «Abbiamo letto il giornale. La signora Shoplaw si è premurata di lasciarcelo in camera. Ci sei riuscito di nuovo.»

«Ti riferisci a Eddie? Mi trovavo lì per caso.» Avevamo raggiunto il baraccone di Madame Fortuna, con le sedie pieghevoli da giardino appoggiate contro. Ne aprii due e feci cenno a Erin di accomodarsi. Mi sistemai di fianco a lei, sfilandomi dal giubbotto una bottiglia di whisky da mezzo litro. «Roba da due soldi, ma scaccia il freddo di dosso.»

Lei ne bevve un sorsetto con un’espressione divertita. La seguii a ruota, riavvitai il tappo e la ficcai di nuovo in tasca. A una cinquantina di metri, lungo il viale principale si stagliava la facciata posticcia del Castello del Brivido, con le sue grandi lettere verdi e gocciolanti: entrate se ne avete il coraggio.

La sua mano minuta mi strinse la spalla con una forza inattesa. «Hai salvato quel vecchio stronzo. Lo hai fatto. Non nascondere i tuoi meriti.»

Sorrisi, pensando alla frase di Lane secondo cui prima o poi mi sarei aggiudicato una medaglia per la modestia. Forse era vero; negli ultimi tempi non ero molto bravo a vantarmi delle mie imprese.

«Se la caverà?»

«Probabilmente sì. Freddy Dean ha chiesto ragguagli ai medici che gli hanno risposto blablablà, il paziente dovrà smettere di fumare, blablablà, il paziente dovrà rinunciare alle patatine fritte, blablablà, il paziente dovrà iniziare un programma regolare di attività fisica.»

«Me lo vedo proprio Eddie Parks impegnato nella corsa.»

«Certo, con una sigaretta in bocca e un sacchetto di ciccioli in mano.»

Erin ridacchiò. Una folata di vento le scompigliò i capelli. Con il maglione pesante e i pantaloni grigio scuro da ufficio non somigliava alla bellezza acqua e sapone che avevo osservato scorrazzare per Joyland.

«Che hai da dirmi? Cosa hai scoperto?»


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