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Gomorra
  • Текст добавлен: 24 сентября 2016, 03:28

Текст книги "Gomorra"


Автор книги: Roberto Saviano



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"No, e che piangete a fare? Questo era una chiavica, non è successo niente, va tutto bene. Non è successo niente. Non piangete…"

Da allora, alle scene della polizia scientifica con i guanti che cammina con passo felpato, attenta a non spostare polvere e bossoli, non sono mai più riuscito a crederci. Quando arrivo vicino ai corpi prima delle autoambulanze e fisso gli ultimi momenti di vita di chi si sta accorgendo di morire, mi viene sempre in mente il finale di Cuore di tenebra, quando una donna chiede a Marlowe, ormai tornato in patria, dell'uomo che ha amato, chiede cos'ha detto Kurtz prima di morire. E Marlowe mente. Risponde che ha chiesto di lei, mentre in realtà non ha pronunciato nessuna parola dolce e nessun pensiero prezioso. Kurtz ha detto solo: "L'orrore". Si pensa che l'ultima parola pronunciata da un moribondo sia il suo pensiero ultimo, il più importante, quello fondamentale. Che si muoia pronunciando ciò per cui è valso la pena vivere. Non è così. Quando uno muore non viene fuori nulla, se non la paura. Tutti o quasi tutti ripetono la stessa frase, banale, semplice, immediata: "Non voglio morire". Facce che si sono sempre sovrapposte a quella di Kurtz, visi che esprimono lo strazio, lo schifo e il rifiuto di finire in modo orrendo, nel peggiore dei mondi possibili. Nell'orrore.

Dopo aver visto decine di morti ammazzati, imbrattati del loro sangue che si mescola allo sporco, esalanti odori nauseabondi, guardati con curiosità o indifferenza professionale, scansati come rifiuti pericolosi o commentati da urla convulse, ne ho ricavato una sola certezza, un pensiero tanto elementare che rasenta l'idiozia: la morte fa schifo.

A Secondigliano i ragazzi, i ragazzini, i bambini hanno perfettamente idea di come si muore e di come è meglio morire. Stavo per andarmene dal luogo dell'agguato a Carmela Attrice quando sentii parlare un ragazzino con un suo compagno. I toni erano serissimi:

"Io voglio morire come la signora. In testa, pam pam… e finisce tutto."

"Ma in faccia, l'hanno colpita in faccia, in faccia è peggio!"

"No, non è peggio, è un attimo comunque. Avanti o dietro, sempre testa è!"

Mi intrufolai nei discorsi cercando di dire la mia e facendo domande. E così chiesi ai ragazzini:

"Meglio essere colpito al petto, no? Un colpo al cuore ed è finita…"

Ma il ragazzino conosceva molto meglio di me le dinamiche del dolore e iniziò a raccontare nel dettaglio i dolori della botta, ossia il colpo d'arma da fuoco, con una professionalità da esperto.

"No, al petto fa male, malissimo e muori dopo dieci minuti. Si devono riempire i polmoni di sangue e poi la botta è come uno spillo di fuoco che entra e te lo girano dentro. Fa male pure sulle braccia e le gambe. Ma lì è come un morso fortissimo di un serpente. Un morso che non lascia mai la carne. Invece la testa è meglio, così non ti pisci sotto, non ti esce la merda per fuori. Non sparpetei per mezz'ora a terra…"

Aveva visto. E ben più di un corpo. Essere colpiti alla testa evita di tremare dalla paura, pisciarsi sotto e far uscire la puzza, la puzza delle interiora dai buchi nella pancia. Continuai a fargli domande sui dettagli della morte, sugli agguati. Tutte le domande possibili tranne l'unica che avrei dovuto fare, ossia chiedergli perché a quattordici anni pensava a come morire. Ma questo pensiero non mi sfiorò neanche per un momento. Il ragazzino si presentò col soprannome. Gli veniva dai Pokemon, i cartoni animati giapponesi. Il ragazzino era biondo e chiatto, quanto bastava per ribattezzarlo Pika-chu. Mi indicò due tizi, tra la folla che si era creata intorno al corpo della donna uccisa, si erano messi a guardare il cadavere. Pikachu abbassò la voce:

"Ecco quelli, li vedi, sono quelli che hanno ammazzato Pupetta…"

Carmela Attrice era chiamata Pupetta. Cercai di fissare in volto i ragazzi che Pikachu mi aveva indicato. Avevano un'aria emozionata, palpitante, spostavano teste e spalle per meglio vedere i poliziotti che coprivano il corpo. Avevano ucciso la donna a viso scoperto, poi si erano seduti nelle vicinanze, sotto la statua di Padre Pio e appena un po' di folla si era raccolta intorno al cadavere erano andati a vedere. Qualche giorno dopo li beccarono. Un gruppo nutrito per un agguato a una donna inoffensiva, uccisa in pantofole e pigiama. Un gruppo al battesimo del fuoco, l'indotto dello spaccio al dettaglio che si muta in braccio armato. Il più giovane aveva sedici anni, il più vecchio ventotto. Il presunto assassino ventidue. Quando li arrestarono, uno di loro vedendo i flash e le telecamere iniziò a ridere e a fare l'occhiolino ai giornalisti. Arrestarono anche la presunta esca, il sedicenne che aveva citofonato per far scendere la donna. Sedici anni, gli stessi della figlia di Carmela Attrice, che quando sente i colpi si affaccia al balcone e inizia a piangere perché ha capito subito. Anche secondo le indagini gli esecutori erano tornati sul luogo del delitto. Troppa curiosità. Come partecipare al proprio film. Prima nel ruolo dell'attore e poi in quello dello spettatore, ma all'interno della stessa pellicola. Dev'essere vero che chi spara non riesce ad avere preciso ricordo del gesto che compie perché quei ragazzi sono tornati curiosissimi a vedere cos'avevano combinato e che faccia aveva la loro vittima. Chiesi a Pikachu se quei tìzi erano una paranza dei Di Lauro, o almeno ne volevano costituire una. Il ragazzino iniziò a ridere:

"Ma quale paranza… vorrebbero essere 'na paranza… ma sono piscitielli di cannuccia, io l'ho vista una paranza…"

Non sapevo se Pikachu mi stesse raccontando balle o semplicemente avesse assemblato cose che sentiva in giro per Scampia, ma la sua narrazione era precisa. Un ragazzino pignolo nei suoi racconti, puntuale al punto da rendere irreale ogni dubbio. Era contento di vedere il mio viso stupito mentre raccontava. Pikachu mi raccontò che aveva un cane chiamato Careca, come l'attaccante brasiliano del Napoli campione d'Italia. Questo cane usciva spesso sul pianerottolo di casa. Un giorno sentendo qualcuno dietro la porta della casa di fronte, solitamente vuota, iniziò a grattarla con le unghie delle zampe. Dopo pochi secondi una raffica di mitra sputata da dietro la porta lo prese in pieno. Pikachu mi raccontava la cosa riproducendomi tutti i rumori:

"Tratratra… Careca morì subito subito… e la porta pam… si aprì… di botto."

Pikachu si mise per terra vicino a un muretto, seduto sul sedere con i piedi poggiati al muro e le braccia che mimavano il calcio di un mitra in mano. Mi fece vedere come era posizionata la sentinella che gli aveva ammazzato il cane. Sentinella sempre dietro la porta. Seduta, con dietro la schiena un cuscino e le piante dei piedi poggiate ai lati della porta. Una posizione scomoda per evitare che venga il sonno e soprattutto perché sparare dal basso verso l'alto avrebbe eliminato con certezza chiunque si fosse parato dinanzi alla porta, senza colpire la sentinella. Pikachu mi raccontò che quando avevano ucciso il cane, per scusarsi diedero dei soldi alla famiglia, e poi lo invitarono a entrare in casa. Nella casa dove un'intera paranza era nascosta. Ricordava tutto, le stanze vuote, solo con dei letti, un tavolo e la televisione.

Parlava veloce Pikachu, gesticolando forte e disegnandomi posizioni, movimenti dei membri della paranza. Nervosi, tesi, e con un personaggio che aveva "gli ananassi" al collo. Gli ananassi sono le bombe a mano che gli uomini delle paranze portano addosso. Pikachu raccontò che c'era un cesto vicino a una finestra, pieno di ananassi. I clan camorristici hanno sempre avuto una particolare predilezione per le bombe a mano. Ovunque gli arsenali dei clan erano colmi di bombe a mano e anticarro, tutte provenienti dall'est Europa. Pikachu raccontava che nella stanza passavano ore a giocare alla playstation e lui aveva sfidato e battuto tutti i membri della paranza. Vìnceva sempre e gli promettevano che "un giorno di questi mi portavano con loro a sparare veramente".

Una delle leggende del quartiere, una di quelle a cui crescono ancora i capelli, racconta infatti che Ugo De Lucia giocava ossessivamente a Winning Eleven, il videogioco del calcio più celebre della playstation. In quattro giorni avrebbe commesso – secondo le accuse – non solo tre omicidi, ma anche terminato un campionato di calcio al videogame.

Ciò che racconta il pentito Pietro Esposito detto "Kojak" invece non sembra essere una leggenda. Era entrato in una casa dove Ugo De Lucia stava disteso sul letto davanti alla televisione commentando le notizie:

"Abbiamo fatto altri due pezzi! E quegli altri hanno fatto un pezzo nel Terzo Mondo."

La televisione era il modo migliore per tenere il passo in tempo reale con la guerra senza dover fare telefonate compromettenti. Da questo punto di vista l'attenzione mediatica che la guerra aveva attirato su Scampia era un vantaggio strategico militare. Ciò che però mi aveva colpito di più era il termine "pezzo". Pezzo era il nuovo modo per definire un omicidio. Anche Pikachu quando parlava dei morti della guerra di Secondigliano parlava dei pezzi fatti dai Di Lauro e dei pezzi fatti dagli scissionisti. "Fare un pezzo": un'espressione mutuata dal lavoro a cottimo, l'uccisione di un uomo equiparata alla fabbricazione di una cosa, non importa quale. Un pezzo.

Io e Pikachu iniziammo a passeggiare e mi raccontò dei ragazzini del clan, la vera forza dei EH Lauro. Gli chiesi dove si riunivano e lui si propose di accompagnarmi, lo conoscevano tutti e voleva dimostrarmelo. C'era una pizzeria dove la sera si incontravano. Prima di andarci passammo a prendere un amico di Pikachu, uno di quelli che facevano da tempo parte del Sistema. Pikachu lo adorava, lo descriveva come una sorta di boss, era un riferimento tra i ragazzini di Sistema perché aveva avuto il compito di rifocillare i latitanti e, a suo dire, fare la spesa direttamente alla famiglia Di Lauro. Si chiamava Tonino Kit Kat, perché divorava quintali di snack. Kit Kat si atteggiava a piccolo boss, ma io mi mostravo scettico. Gli facevo domande a cui si scocciava di rispondere, e così alzò il maglione. Aveva tutto il torace pieno di lividi sferici. Al centro delle circonferenze viola apparivano grumi gialli e verdastri di capillari sfasciati.

"Ma che hai fatto?"

"Il giubbetto…"

"Giubbetto?"

"Sì, il giubbetto antiproiettili…"

"E mica il giubbetto fa questi lividi?"

"Ma le melanzane sono le botte che ho preso…"

I lividi, le melanzane, erano il frutto dei colpi di pistola che il giubbotto fermava un centimetro prima di arrivare a entrare nella carne. Per addestrare a non avere paura delle armi facevano indossare il giubbotto ai ragazzini e poi gli sparavano addosso. Un giubbotto da solo non bastava a spingere un individuo a non fuggire dinanzi a un'arma. Un giubbotto non è il vaccino alla paura. L'unico modo per anestetizzare ogni timore

era mostrare come le armi potevano essere neutralizzate. Mi raccontavano che li portavano in campagna, appena fuori Secondigliano. Gli facevano indossare i giubbotti antiproiettile sotto le magliette, e poi uno per volta gli scaricavano contro mezzo caricatore di pistola. "Quando arriva la botta cadi per terra e non respiri più, apri la bocca e tiri il fiato, ma non entra niente. Non ce la fai proprio. Sono come cazzotti in petto, ti sembra di schiattare… ma poi ti rialzi, è questo l'importante. Dopo la botta, ti rialzi." Kit Kat era stato addestrato insieme ad altri a prendere i colpi, un addestramento a morire, anzi a quasi morire.

Li arruolano appena diventano capaci di essere fedeli al clan. Hanno dai dodici ai diciassette anni, molti sono figli o fratelli di affiliati, molti altri invece provengono da famiglie di precari. Sono il nuovo esercito dei clan della camorra napoletana. Vengono dal centro storico, dal quartiere Sanità, da Forcella, da Secondigliano, dal rione San Gaetano, dai Quartieri Spagnoli, dal Pallonetto, vengono reclutati attraverso affiliazioni strutturate in diversi clan. Per numero sono un vero e proprio esercito. I vantaggi per i clan sono molteplici, un ragazzino prende meno della metà dello stipendio di un affiliato adulto di basso rango, raramente deve mantenere i genitori, non ha le incombenze di una famiglia, non ha orari, non ha necessità di un salario puntuale e soprattutto è disposto a essere perennemente per strada. Le mansioni sono diverse e di diversa responsabilità. Si inizia con lo spaccio di droga leggera, hashish soprattutto. Quasi sempre i ragazzini si posizionano nelle strade più affollate, col tempo iniziano a spacciare pasticche e ricevono quasi sempre in dotazione un motorino. Infine la cocaina, che portano direttamente nelle università, fuori dai locali, dinanzi agli alberghi, alle stazioni della metropolitana. I gruppi di baby-spacciatori sono fondamentali nell'economia flessibile dello spaccio perché danno meno nell'occhio, vendono droga tra un tiro di pallone e una corsa in motorino e spesso vanno direttamente al domicilio del cliente. Il clan in molti casi non costringe i ragazzini a lavorare di mattina, continuano infatti a frequentare la scuola dell'obbligo, anche perché se decidessero di evaderla sarebbero più facilmente rintracciabili. Spesso i ragazzini affiliati dopo i primi mesi di lavoro vanno in giro armati, un modo per difendersi e farsi valere, una promozione sul campo che promette la possibilità di scalare i vertici del clan; pistole automatiche e semiautomatiche che imparano a usare nelle discariche di spazzatura della provincia o nelle caverne della Napoli sotterranea.

Quando diventano affidabili e ricevono la totale fiducia di un capozona, allora possono rivestire un ruolo che va ben oltre quello di pusher, diventano "pali". Controllano in una strada della città, a loro affidata, che i camion che accedono per scaricare merce a supermarket, negozi o salumerie, siano quelli che il clan impone oppure, in caso contrario, segnalano quando il distributore di un negozio non è quello "prescelto". Anche nella copertura dei cantieri è fondamentale la presenza dei "pali". Le ditte appaltataci spesso subappaltano a imprese edili dei gruppi camorristici, ma a volte il lavoro è assegnato a ditte "non consigliate". I clan per scoprire se i cantieri subappaltano i lavori a ditte "esterne" hanno bisogno di un monitoraggio continuo e insospettabile. Il lavoro è affidato ai ragazzini che osservano, controllano, portano voce al capozona e da questi prendono ordini su come agire in caso il cantiere abbia "sgarrato". Questi ragazzini affiliati hanno comportamenti e responsabilità da camorristi maturi. Iniziano la carriera molto presto, bruciano le tappe e la loro scalata ai posti di potere all'interno della camorra sta radicalmente modificando la struttura genetica dei clan. Capizona bambini, boss giovanissimi divengono interlocutori imprevedibili e spietati che seguono nuove logiche, impedendo a forze dell'ordine e Antimafia di comprenderne le dinamiche. Sono volti tutti nuovi e sconosciuti. Con la ristrutturazione del clan voluta da Cosimo, interi comparti dello spaccio vengono gestiti da quindicenni e sedicenni che danno ordini a quarantenni e cinquantenni, senza sentire neanche per un attimo soggezione o inadeguatezza. Un ragazzo, Antonio Galeota Lanza viene intercettato dalle cimici dei carabinieri in auto con lo stereo alto, mentre racconta come si vive facendo il pusher.

"… Ogni domenica sera faccio ottocento o novecento euro, anche se quello del pusher è un mestiere che ti porta ad avere a che fare con crack, cocaina e cinquecento anni di carcere…"

Sempre più spesso tutto ciò che i ragazzini del Sistema vogliono cercano di ottenerlo con il "ferro", così come chiamano la pistola, e il desiderio di un cellulare o di uno stereo, di un'auto o di un motorino, facilmente si tramuta in un assassinio. Nella Napoli dei bambini-soldato non è raro sentire vicino alla cassa dei negozi, nelle botteghe o nei supermarket affermazioni del tipo: "Appartengo al Sistema di Secondi-gliano" oppure "Appartengo al Sistema dei Quartieri". Parole magiche attraverso cui i ragazzini prendono ciò che vogliono e dinanzi alle quali nessun commerciante chiederà mai di pagare il dovuto.

A Secondigliano questa nuova struttura di ragazzi era stata militarizzata. Li avevano convertiti in soldati. Pikachu e Kit Kat mi portarono da Nello, un pizzaiolo della zona che aveva l'incarico di dare da mangiare ai ragazzini del Sistema, quando finivano il loro turno. Entrò un gruppo appena misi piede nella pizzeria. Erano goffi, goffissimi, gonfi sotto i maglioni per i giubbotti antiproiettile. Lasciarono i motorini sui marciapiedi e poi entrarono senza salutare nessuno. Somigliavano nei movimenti e con i petti imbottiti a giocatori di football americano. Facce da ragazzini, qualcuno aveva anche la prima barba sulle guance, andavano dai tredici ai sedici anni. Pikachu e Kit Kat mi fecero sedere tra loro, a nessuno la cosa sembrò dispiacere. Mangiavano e soprattutto bevevano. Acqua, Coca Cola, Fanta. Una sete incredibile. Anche con la pizza volevano dissetarsi, si fecero portare una bottiglia d'olio, aggiunsero olio e ancora olio su ogni pizza perché sostenevano che erano troppo asciutte. Tutto nella loro bocca era stato seccato, dalla saliva alle parole. Mi accorsi subito che venivano dalle nottate di guardia e avevano preso pasticche. Gli davano le pasticche di MDMA. Per non farli addormentare, per evitare che si fermino a mangiare due volte al giorno. Del resto la MDMA venne brevettata dai laboratori Merck in Germania per essere somministrata ai soldati in trincea nella Prima guerra, quei soldati tedeschi che venivano chiamati Men-schenmaterial, materiale umano che così superava fame, gelo, e terrore. Poi fu usata anche dagli americani per operazioni di spionaggio. Ora anche questi piccoli soldati avevano avuto il loro quantitativo di coraggio artificiale e resistenza artefatta. Mangiavano succhiando gli spicchi di pizza che tagliavano. Dal tavolo proveniva un rumore simile a quello dei vecchi che succhiano il brodo dal cucchiaio. I ragazzi ripresero la parola, continuarono a ordinare bottiglie d'acqua. E lì feci un gesto che avrebbe potuto essere punito con violenza, ma sentivo che potevo farlo, sentivo che davanti avevo dei ragazzini. Imbottiti di lastre di piombo, ma pur sempre ragazzini. Misi un registratore in tavola e mi rivolsi ad alta voce a tutti, cercando di incrociare gli occhi di ognuno:

"Forza, parlate qua dentro, dite quello che volete…"

A nessuno parve strano il mio gesto, a nessuno venne in mente di stare davanti a uno sbirro o un giornalista. Qualcuno iniziò a urlacchiare qualche insulto al registratore, poi un ragazzino spinto da qualche mia domanda mi raccontò la sua carriera. E pareva non vedesse l'ora di farlo.

"Prima lavoravo in un bar, prendevo duecento euro al mese; con le mance arrivavo a duecentocinquanta e non mi piaceva come lavoro. Io volevo lavorare nell'officina con mio fratello, ma non mi hanno preso. Nel Sistema prendo trecento euro a settimana, ma se vendo bene prendo anche una percentuale su ogni mattone (il lingotto di hashish) e posso arrivare a trecentocinquanta-quattrocento euro. Mi devo fare il mazzo, ma alla fine qualcosa in più me la danno sempre."

Dopo una mitragliata di rutti che due ragazzetti vollero registrare, il ragazzino che veniva chiamato Satore, un nome a metà tra Sasà e Totore, continuò:

"Prima stavo sempre in mezzo alla strada, mi scocciava il fatto di non avere il motorino e me la dovevo fare a piedi o con gli autobus. Mi piace come lavoro, tutti mi rispettano e poi posso fare quello che voglio. Mo però mi hanno dato il ferro e devo sempre stare qua. Terzo Mondo, Case dei Puffi. Sempre chiuso qua dentro, avanti e indietro. E non mi piace." Satore mi sorrise e poi urlò ridendo nel registratore:  "Fatemi uscire da qua!… Diteglielo al masto!" Li avevano armati, gli avevano dato il ferro, la pistola, e un territorio limitatissimo in cui lavorare. Kit Kat poi continuò a parlare nel registratore poggiando le labbra ai fori del microfono, registrando anche il suo fiato.

"Io voglio aprirmi una ditta per ristrutturare le case oppure un magazzino o un negozio, il Sistema mi deve dare i soldi per aprire, poi al resto ci penso io, pure a chi sposarmi. Mi devo sposare non una di qua, ma una modella, nera o tedesca." Pikachu cacciò un mazzo di carte dalla tasca, quattro di loro cominciarono a giocare. Gli altri si alzarono stiracchiandosi, ma nessuno si tolse il giubbotto. Continuai a chiedere a Pikachu delle paranze, ma stava iniziando a essere infastidito dalla mia insistenza. Mi disse che c'era stato qualche giorno prima a casa di una paranza e che avevano smantellato tutto, era rimasto solo un lettore Mp3 che ascoltavano quando andavano a fare i pezzi. L'Mp3 che ascoltavano gli uomini della paranza mentre andavano ad ammazzare, la raccolta di file musicali, penzolava al collo di Pikachu. Con una scusa gli chiesi di prestarmelo qualche giorno. Lui fece una risata come per dirmi che non si offendeva se l'avevo preso per uno così stupido, per un idiota, che presta le cose. Così glielo comprai, cacciai cinquanta euro e ottenni il lettore. Ficcai subito le cuffie nelle orecchie, volevo capire qual era il sottofondo musicale della mattanza. Mi aspettavo musica rap, rock pesante, heavy metal, invece era un continuo susseguirsi di brani neomelodici e di musica pop. In America si spara gonfiandosi col rap, i killer di Secondigliano andavano a uccidere ascoltando canzoni d'amore.

Pikachu iniziò a smazzare le carte chiedendomi se volevo partecipare, ma a carte sono sempre stato incapace. Così mi alzai dal tavolo. I camerieri della pizzeria avevano la stessa età dei ragazzi di Sistema e li guardavano ammirati, senza neanche avere il coraggio di servirli. Ci pensava direttamente il proprietario. Qui lavorare come garzone, cameriere, o in un cantiere è come un'ignominia. Oltre ai soliti eterni motivi: lavoro nero, ferie e malattie non pagate, dieci ore di media al giorno, non hai speranza di poter migliorare la tua condizione. Il Sistema concede almeno l'illusione che l'impegno sia riconosciuto, che ci sia la possibilità di fare carriera. Un affiliato non verrà mai visto come un garzone, le ragazzine non penseranno mai di essere corteggiate da un fallito. Questi ragazzini imbottiti, queste ridicole vedette simili a marionette da football americano, non avevano in mente di diventare Al Capone, ma Flavio Briatore, non un pistolero, ma un uomo d'affari accompagnato da modelle: volevano diventare imprenditori di successo.

Il 19 gennaio viene ammazzato il quarantacinquenne Pasquale Paladini. Otto colpi. Al petto e alla testa. Dopo poche ore sparano nelle gambe ad Antonio Auletta di diciannove anni. Ma il 21 gennaio sembra esserci una svolta. La voce inizia subito a correre, senza avere bisogno di agenzie di stampa. Cosimo Di Lauro è stato arrestato. Il reggente della cosca, il leader della mattanza, secondo le accuse della Procura Antimafia di Napoli, il comandante del clan secondo i pentiti. Cosimo si nascondeva in un buco di quaranta metri quadri, dormendo su un letto quasi sfondato. L'erede di un sodalizio criminale capace di fatturare solo con il narcotraffico cinquecentomila euro al giorno, e che poteva disporre di una villa da cinque milioni di euro nel cuore di uno dei quartieri più miseri d'Italia, era costretto a rintanarsi in un buco fetente e microscopico non lontano dalla sua presunta reggia.

Una villa spuntata dal nulla in via Cupa dell'Arco, vicino alla casa di famiglia dei Di Lauro. Un'elegante masseria del Settecento, ristrutturata come una villa pompeiana. Impluvium, colonne, stucchi e gessi, controsoffittature e scalinate. Una villa di cui nessuno sospettava l'esistenza. Nessuno conosceva i proprietari formali, i carabinieri stavano indagando ma nel quartiere nessuno aveva dubbi. Era per Cosimo. I carabinieri scoprirono la villa per caso, superando le spesse mura di cinta, trovarono dentro alcuni operai che appena videro le divise scapparono. La guerra non aveva permesso che la villa fosse ultimata, che fosse riempita di mobili e quadri, che divenisse la reggia del reggente, il cuore d'oro del corpo marcescente dell'edilizia di Secondigliano.

Quando Cosimo sente il calpestio degli anfibi dei carabinieri che lo stanno per arrestare, quando sente rumoreggiare i fucili, non tenta di scappare, non si arma nemmeno. Si mette davanti allo specchio. Bagna il pettine, tira indietro i capelli dalla fronte e poi li lega in un codino all'altezza della nuca, lasciando la zazzera riccia cascare sul collo. Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero. Cosimo Di Lauro si abbiglia da pagliaccio del crimine, da guerriero della notte, scende per le scale impettito. È claudicante, qualche anno prima è caduto rovinosamente dalla moto e la gamba zoppa è la dote avuta da quell'incidente. Ma quando scende dalle scale ha pensato anche a questo. Poggiandosi sugli avambracci dei carabinieri che lo scortano riesce a non mostrare il suo handicap, a camminare con passo normale. I nuovi sovrani militari dei sodalizi criminali napoletani non si presentano come guappi di quartiere, non hanno gli occhi sgranati e folli di Cutolo, non pensano di doversi atteggiare come Luciano Liggio o come caricature di Lucky Luciano e Al Capone. Matrix, The Croio, Pulp Fiction riescono con maggiore capacità e velocità a far capire cosa vogliono e chi sono. Sono modelli che tutti conoscono e che non abbisognano di eccessive mediazioni. Lo spettacolo è superiore al codice sibillino deH'ammiccamento o alla circoscritta mitologia del crimine da quartiere malfamato. Cosimo fissa le telecamere e gli obiettivi dei fotografi, abbassa il mento, sporge la fronte. Non si è fatto trovare come Brusca con un jeans liso e una camicia sporca di salsa, non è impaurito come Rima portato di corsa sopra un elicottero, né sorpreso con il volto pieno di sonno come capitò a Misso, boss della Sanità. È un uomo formato nella società dello spettacolo e sa di andare in scena. Si presenta come un guerriero che si è imbattuto nella sua prima sosta. Sembra che stia pagando per il troppo coraggio, l'eccessivo zelo nella guerra che ha condotto. Questo racconta il suo volto. Non sembra che sia tratto in arresto, ma che muti semplicemente il luogo del suo comando. Innescando la guerra sapeva di andare incontro all'arresto. Ma non aveva scelta. O guerra o morte. E l'arresto vuole rappresentarlo come la dimostrazione della sua vittoria, il simbolo del suo coraggio capace di sprezzare ogni sorta di tutela di sé, pur di salvare il sistema della famiglia.

La gente del quartiere al solo guardarlo si sente bruciare lo stomaco. Inizia la rivolta, rovesciano auto, riempiono bottiglie di benzina e le lanciano. La crisi isterica non serve a evitare l'arresto come potrebbe sembrare, ma a scongiurare vendette. Ad annullare ogni possibilità di sospetto. A segnalare a Cosimo che nessuno lo ha tradito. Che nessuno ha spifferato, che il geroglifico della sua latitanza non è stato decifrato grazie ai suoi vicini di casa. È un enorme rito quasi di scusa, una metafisica cappella di espiazione che le persone del quartiere vogliono costruire con le volanti dei carabinieri bruciate, i cassonetti posti a barricate, il fumo nero dei copertoni. Se Cosimo sospetta, non avranno neanche il tempo di fare le valigie, la mannaia militare si abbatterà su di loro come l'ennesima spietata condanna.

Pochi giorni dopo l'arresto del rampollo del clan, il volto arrogante che fissa le telecamere campeggia sugli screen saver dei telefonini di decine di ragazzini e ragazzine delle scuole di Torre Annunziata, Quarto, Marano. Gesti di mera provocazione, di banale balordaggine adolescenziale. Certo. Ma Cosimo sapeva. Così bisogna agire per essere riconosciuti come capi, per raggiungere il cuore degli individui. Bisogna saper usare anche lo schermo, l'inchiostro dei giornali, bisogna sapere annodare il proprio codino. Cosimo rappresenta chiaramente il nuovo imprenditore di Sistema. L'immagine della nuova borghesia svincolata da ogni freno, mossa dall'assoluta volontà di dominare ogni territorio del mercato, di mettere le mani su tutto. Non rinunciare a nulla. Fare una scelta non significa limitare il proprio campo d'azione, privarsi di ogni altra possibilità. Non per chi considera la vita come uno spazio dove poter conquistare tutto al rischio di perdere ogni cosa. Significa mettere in conto di essere arrestati, di finir male, di morire. Ma non significa rinunciare. Volere tutto e subito, e averlo quanto prima. È questa la forza e l'attrattiva che Cosimo Di Lauro impersona.

Tutti, anche i più premurosi verso la propria incolumità, finiscono nella gabbia della pensione, tutti prima o poi si scoprono cornuti, tutti finiscono con una badante polacca. Perché crepare di depressione cercando un lavoro che fa boccheggiare, perché finire in un part-time a rispondere al telefono? Diventare imprenditore. Ma vero. Capace di commerciare con tutto e di fare affari anche col nulla. Ernst Jùnger direbbe che la grandezza è esposta alla tempesta. Lo stesso ripeterebbero i boss, gli imprenditori di camorra. Essere il centro di ogni azione, il centro del potere. Usare tutto come mezzo e se stessi come fine. Chi dice che è amorale, che non può esserci vita senza etica, che l'economia possiede dei limiti e delle regole da seguire, è soltanto colui che non è riuscito a comandare, che è stato sconfitto dal mercato. L'etica è il limite del perdente, la protezione dello sconfitto, la giustificazione morale per coloro che non sono riusciti a giocarsi tutto e vincere ogni cosa. La legge ha i suoi codici stabiliti, ma non la giustizia che è altro. La giustizia è un principio astratto che coinvolge tutti, passabile a seconda di come lo si interpreta di assolvere o condannare ogni essere umano: colpevoli i ministri, colpevoli i papi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e i reazionari. Colpevoli tutti di aver tradito, ucciso, sbagliato. Colpevoli d'essere invecchiati e morti. Colpevoli di essere stati superati e sconfitti. Colpevoli tutti dinanzi al tribunale universale della morale storica e assolti da quello della necessità. Giustizia e ingiustizia hanno un significato solo se considerate nel concreto. Di vittoria o sconfitta, di atto fatto o subito. Se qualcuno ti offende, se ti tratta male, sta commettendo un'ingiustizia, se invece ti riserva un trattamento di favore ti fa giustizia. Osservando i poteri del clan bisogna fermarsi a questi calibri. A queste maglie di giudizio. Bastano. Devono bastare. È questa l'unica forma reale di valutazione della giustizia. Il resto è solo religione e confessionale. L'imperativo economico è foggiato da questa logica. Non sono gli affari che i camorristi inseguono, sono gli affari che inseguono i camorristi. La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo. Le regole dettate, le regole imposte, sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente. H resto vale zero. Il resto non esiste. Poter decidere della vita e della morte di tutti, poter promuovere un prodotto, monopolizzare una fetta di mercato, investire in settori d'avanguardia, è un potere che si paga con il carcere o con la vita. Avere potere per dieci anni, per un anno, per un'ora. Non importa la durata: vivere, comandare per davvero, questo conta. Vincere nell'arena del mercato e arrivare a fissare il sole con gli occhi come faceva in carcere Raffaele Giuliano, boss di Forcella, sfidandolo, mostrando che il suo sguardo non si accecava neanche dinanzi alla luce prima. Raffaele Giuliano che aveva avuto la spietata volontà di cospargere di peperoncino la lama di un coltello prima di accoltellare un parente di un suo nemico, così da fargli sentire bruciori lancinanti mentre la lama entrava nella carne, centimetro per centimetro. In carcere veniva temuto non per questa sua acribia sanguinaria, ma per la sfida dello sguardo capace di mantenersi alto anche fissando il sole. Avere la coscienza di essere dei business man destinati alla fine – morte o ergastolo – ma con volontà spietata dominare economie potenti e illimitate. Il boss viene ammazzato o arrestato, ma il sistema economico che ha generato rimane: non smettendo di mutare, trasformarsi, migliorare e innescare profitto. Questa coscienza da samurai liberisti, i quali sanno che il potere, quello assoluto, per averlo si paga, la trovai sintetizzata in una lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile, una lettera che consegnò a un prete e che fu letta durante un convegno. La ricordo ancora. A memoria:


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