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Gomorra
  • Текст добавлен: 24 сентября 2016, 03:28

Текст книги "Gomorra"


Автор книги: Roberto Saviano



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Stipammo tutti i pacchi in diversi furgoni. Arrivarono anche gli altri scafi. I furgoni andavano verso Roma, Viterbo, Latina, Formia. Xian ci fece riaccompagnare a casa.

Tutto era cambiato negli ultimi anni. Tutto. D'improvviso. Repentinamente. Qualcuno intuisce il cambiamento, ma ancora non lo comprende. Il golfo fino a dieci anni fa era solcato da scafi di contrabbandieri, le mattine erano cariche di dettaglianti che si andavano a rifornire di sigarette. Strade affollate, macchine piene di stecche, angoli con sedia e banco per la vendita. Si giocavano le battaglie tra guardie costiere, finanzieri, e contrabbandieri. Si scambiavano quintali di sigarette in cambio di un arresto mancato, o ci si faceva arrestare per salvare quintali di sigarette stipate in qualche doppio fondo di scafo in fuga. Nottate, pali e fischi per avvertire strani movimenti di auto, walkie talkie accesi per segnalare allarmi, e file di uomini lungo la costa che si passavano velo-mente le scatole. Macchine che sfrecciavano dalla costa pugliese all'entroterra e dall'entroterra verso la Campania. Napoli-Brindisi era un asse fondamentale, la strada dell'economia florida delle sigarette a buon mercato. Il contrabbando, la FIAT del sud, il welfare dei senza Stato, ventimila persone che lavoravano esclusivamente nel contrabbando tra Puglia e Campania. Il contrabbando innescò la grande guerra di camorra dei primi anni '80.

I clan pugliesi e campani reintroducevano in Europa le sigarette non più soggette ai Monopoli di Stato. Importavano migliaia di casse al mese dal Montenegro, fatturando cinquecento milioni di lire a carico. Ora tutto si è spaccato e trasformato. Ai clan non conviene più. Ma in realtà ha verità di dogma la massima di Lavoisier: niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma. In natura, ma soprattutto nelle dinamiche del capitalismo. I prodotti del quotidiano, e non più il vizio della nicotina, sono il soggetto nuovo del contrabbando. Sta nascendo la guerra dei prezzi, terribilmente spietata. Le percentuali di sconto degli agenti, dei grossisti, e dei commercianti, determinano la vita e la morte di ognuno di questi soggetti economici. Ma non basta. La merce prodotta a basso costo dovrà essere venduta su un mercato dove sempre più persone accedono con stipendi precari, risparmi minimi, attenzione maniacale ai centesimi. L'invenduto aumenta e allora le merci, originali, false, semifalse, parzialmente vere, arrivano in silenzio. Senza lasciare traccia. Con meno visibilità delle sigarette, poiché non avranno una distribuzione parallela. Come se non fossero mai state trasportate, come se spuntassero dai campi e qualche mano anonima le avesse raccolte. Se il danaro non puzza la merce invece profuma. Ma non del mare attraversato, non riporta l'odore delle mani che l'hanno prodotta, né butta il grasso delle braccia meccaniche che l'hanno assemblata. La merce sa di quello che sa. Questo odore non ha origine che sul bancone del negoziante, non ha fine che nella casa dell'acquirente.

Lasciandoci dietro il mare, arrivammo a casa. Il furgone ci diede appena il tempo di scendere. Poi tornò al porto a raccogliere, raccogliere, raccogliere ancora pacchi e merce. Salii ormai semisvenuto sull'ascensore-montacarichi. Mi tolsi la maglietta zuppa d'acqua e sudore prima di gettarmi sul letto. Non so quante scatole avevo sistemato e trasportato. Ma la sensazione era di aver scaricato le scarpe per i piedi di mezz'Italia. Ero stanco come fosse stata la fine di una giornata faticosa e pienissima. A casa, gli altri ragazzi si svegliavano. Era soltanto prima mattina.

Angelina Jolie

Nei giorni successivi accompagnai Xian nei suoi incontri d'affari. In realtà mi aveva scelto per fargli compagnia durante gli spostamenti e i pranzi. Parlavo troppo o troppo poco. Le due attitudini gli piacevano entrambe. Seguivo come si seminava e coltivava la semenza del danaro, come veniva messo a maggese il terreno dell'economia. Arrivammo a Las Vegas. A nord di Napoli. Qui chiamano Las Vegas questa zona per diverse ragioni. Come Las Vegas del Nevada è edificata in mezzo al deserto, così anche questi agglomerati sembrano spuntare dal nulla. Si arriva qui da un deserto di strade. Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull'autostrada verso Roma, dritto verso il nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d'improvviso, ficcati nella terra uno accanto all'altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant'Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un'unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l'altra metà ne sono un altro.

Avrò sentito centinaia di volte chiamare la zona del foggiano la Califoggia, oppure il sud della Calabria Calafrica o Calabria Saudita, o magari Sahara Consilina per Sala Consilina, Terzo Mondo per indicare una zona di Secondigliano. Ma qui Las Vegas è davvero Las Vegas. Qualsiasi persona avesse voluto tentare una scalata imprenditoriale, per anni avrebbe potuto farlo. Realizzare il sogno proibito, una liquidazione, un forte risparmio per la sua fabbrica. Scarpe, vestiti, confezioni erano produzioni che si imponevano al buio sul mercato internazionale. Le città non si facevano fregio di questa produzione preziosa. I prodotti erano tanto più riusciti quanto assemblati in silenzio e clandestinamente. Territori che da decenni producevano i migliori capi della moda italiana. E quindi i migliori capi di moda del mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di formazione, non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla macchina per cucire, dalla piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla merce spedita. Null'altro che un rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa era superflua. La formazione la facevi al tavolo da lavoro, la qualità imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente finanziamenti, niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O vendi o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate tra le più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una ricchezza saccheggiata, presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio buco. Arrivavano da ogni parte per investire, indotti che producevano confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti, guanti, cappelli, scarpe, borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In queste zone dagli anni '50 non v'era necessità di avere permessi, contratti, spazi. Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la concorrenza cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualità media. Non ha più dato spazio di crescita alla manualità degli operai. O lavori nel migliore dei modi subito o qualcuno saprà lavorare a un livello medio in maniera più veloce. Un numero elevato di persone si sono trovate senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti stritolati dai debiti, dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza.

C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualità ha esaurito il respiro, la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra l'emblema. Con le case sempre illuminate e piene di gente, con i cortili affollati. Le macchine sempre parcheggiate. Nessuno che esce mai di là. Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In nessun momento della giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al mattino quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un rumore continuo di abitato. Parco Verde a Caivano.

Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di catrame che taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto che un quartiere, una paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che l'architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un angolo una cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio mausoleo dedicato a un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro che in certe zone è persino peggio del lavoro nero in fabbrica. Ma è un mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva sempre di sabato, tutti i sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa ora, stessa strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il giorno delle coppiette. E la Statale 87 era il luogo dove tutte le coppie della zona si appartano. Una strada di merda, tra catrame rattoppato e microdiscariche. Ogni volta che ci passo e vedo le coppiette penso che sia necessario dare fondo a tutta la propria passione per riuscire a star bene in mezzo a tanto schifo. Proprio qui Emanuele e due suoi amici si nascondevano, attendevano l'auto della coppia che parcheggiava, la luce che si spegneva. Aspettavano qualche minuto dopo che la luce s'era spenta per farli svestire, e nel momento di massima vulnerabilità arrivavano. Con il calcio della pistola rompevano il finestrino e poi la puntavano sotto il naso del ragazzo. Ripulivano le coppiette e se ne andavano nei weekend con decine di rapine fatte e cinquecento euro in tasca: un bottino minuscolo che può avere il sapore del tesoro.

Capita però che una notte una pattuglia di carabinieri li intercetti. Sono così imbecilli, Emanuele e i suoi compari, che non prevedono che fare sempre le stesse mosse e rapinare sempre nelle stesse zone è il miglior modo per essere arrestati. Le due auto si inseguono, si speronano, partono gli spari.

Poi tutto si ferma. In auto c'è Emanuele, colpito a morte. Aveva in mano una pistola, e aveva fatto il gesto di puntarla contro i carabinieri. Lo ammazzarono con undici colpi sparati in pochi secondi.

I suoi amici avevano tentato di aprire gli sportelli, ma appena avevano capito che Emanuele era morto si erano fermati. Avevano aperto le portiere senza fare resistenza ai pugni in faccia che precedono ogni arresto. Emanuele era incartocciato su se stesso, aveva in mano una pistola finta. Una di quelle riproduzioni che una volta chiamavano scacciacani, usate in campagna per cacciare i branchi di randagi dai pollai. Un giocattolo che veniva usato come fosse vero; del resto Emanuele era un ragazzino che agiva come fosse un uomo maturo, sguardo spaventato che fingeva d'essere spietato, la voglia di qualche spicciolo che fingeva essere brama di ricchezza. Emanuele aveva quindici anni. Tutti lo chiamavano semplicemente Manu. Aveva una faccia asciutta, scura e spigolosa, uno di quelli che ti immagini come archetipo di ragazzino da non frequentare. Emanuele era un ragazzo su questo angolo di territorio dove onore e rispetto non ti sono dati da pochi spiccioli, ma da come li ottieni. Emanuele era parte di Parco Verde. E non c'è errore o crimine che possa cancellare la priorità dell'appartenenza a certi luoghi che ti marchiano a fuoco. Avevano fatto una colletta tutte le famiglie di Parco Verde. E avevano tirato su un piccolo mausoleo. Dentro ci avevano messo una fotografia della Madonna dell'Arco e una cornice con il volto sorridente di Manu. Comparve anche la cappella di Emanuele, tra le oltre venti che i fedeli avevano edificato a tutte le madonne possibili, una per ogni anno di disoccupazione. Il sindaco però non poteva sopportare che si edificasse un altare a un mariuo-lo, e mandò una ruspa ad abbatterlo. In un attimo il cemento tirato su si sbriciolò come un lavoretto di Das. In pochi minuti si sparse la voce nel Parco, i ragazzi arrivarono con motorini e moto vicino alle ruspe. Nessuno pronunciava parola. Ma tutti fissavano l'operaio che stava muovendo le leve. Con il carico di sguardi l'operaio si fermò, e fece cenno di guardare il maresciallo. Era lui che gli aveva dato l'ordine. Come un gesto per mostrare l'obiettivo della rabbia, per togliere il bersaglio dal suo petto. Era impaurito. Si chiuse dentro. Assediato. In un attimo iniziò la guerriglia. L'operaio riuscì a scappare nella macchina della polizia. Presero a pugni e calci la ruspa, svuotarono le bottiglie di birra e le riempirono con la benzina. Inclinarono i motorini facendo colare il carburante nelle bottiglie direttamente dai serbatoi. E presero a sassate i vetri di una scuola, vicino al Parco. Cade la cappella di Emanuele, deve cadere tutto il resto. Dai palazzi lanciavano piatti, vasi, posate. Poi le bottiglie incendiarie contro la polizia. Misero in fila i cassonetti come barricate. Diedero fuoco a tutto quanto potesse prenderlo e diffonderlo. Si prepararono alla guerriglia. Erano centinaia, potevano resistere a lungo. La rivolta si stava diffondendo, stava arrivando nei quartieri napoletani.

Ma poi giunse qualcuno, da non troppo lontano. Tutto era circondato da auto della polizia e dei carabinieri, ma un fuoristrada nero riuscì a superare le barricate. L'autista fece un cenno, qualcuno aprì la portiera e un gruppetto di rivoltosi entrò. In poco più di due ore tutto venne smantellato. Si tolsero i fazzoletti dalla faccia, lasciarono spegnere le barricate di spazzatura. I clan erano intervenuti, ma chissà quale. Parco Verde è una miniera per la manovalanza camorristica.

Qui tutti quelli che vogliono raccolgono le leve più basse, la manovalanza da pagare persino meno dei pusher nigeriani o albanesi. Tutti cercano i ragazzi di Parco Verde: i Casalesi, i Maliardo di Giugliano, i "tigrotti" di Crispano. Divengono spacciatori con stipendi senza percentuali sulle vendite. E poi autisti e pali, a presidiare territori anche a chilometri di distanza da casa loro. E pur di lavorare non chiedono il rimborso della benzina. Ragazzi fidati, scrupolosi nel loro mestiere. A volte finiscono nell'eroina. La droga dei miserabili.

Qualcuno si salva, si arruola, entra nell'esercito e va lontano, qualche ragazza riesce ad andare via per non mettere più piede in questi luoghi. Quasi nessuno delle nuove generazioni viene affiliato. La parte maggiore lavora per i clan, ma non saranno mai camorristi. I clan non li vogliono, non li affiliano, li fanno lavorare sfruttando questa grande offerta.

Non hanno competenze, talento commerciale, fanno i corrieri. Portano zaini pieni di hashish.

Lo sentono un guadagno ozioso, ineguagliabile quasi, certamente irraggiungibile con qualsiasi altro mestiere rintracciabile in questo luogo. Ma hanno trasportato merce capace di fatturare dieci volte il costo della moto. Non lo sanno e non riescono a immaginarlo. Se un posto di blocco li intercetta subiranno condanne sotto i dieci anni, e non essendo affiliati non avranno le spese legali pagate né l'assistenza fa miliare garantita dai clan. Ma in testa c'è il rombo dello scappamento e Roma da raggiungere.

Qualche barricata continuò ancora a sfogarsi ma lentamente, a seconda della quantità di rabbia nella pancia. Poi tutto sfiatò. I clan non avevano timore della rivolta, né del clamore. Potevano uccidersi e bruciare per giorni, nulla sarebbe accaduto. Ma la rivolta non li avrebbe fatti lavorare. Non avrebbe fatto di Parco Verde il serbatoio d'emergenza da cui attingere sempre manovalanza a prezzo bassissimo. Tutto, e subito, doveva rientrare. Tutti dovevano tornare al lavoro, o meglio, disponibili al lavoro eventuale. Il gioco della rivolta doveva finire.

Al funerale di Emanuele c'ero stato. Quindici anni in certi meridiani di mondo sono solo una somma. Crepare a quindici anni in questa periferia sembra scontare una condanna a morte piuttosto che essere privati della vita. In chiesa c'erano molti, moltissimi ragazzi tutti scuri in volto, ogni tanto lanciavano qualche urlo e addirittura un coretto ritmato fuori dalla chiesa: "Sem-pre con noi, rim-arrai sem-pre con noi… sempre con noi…". Gli ultra lo scandiscono solitamente quando qualche vecchia gloria abbandona la maglia. Sembravano allo stadio, ma c'erano solo cori di rabbia. C'erano poliziotti in borghese che cercavano di stare lontano dalle navate. Tutti li avevano riconosciuti, ma non c'era spazio per scaramucce. In chiesa riuscii subito a individuarli; o meglio loro individuarono me, non trovando sul mio viso traccia del loro archivio mentale. Come per venire incontro alla mia cupezza uno di questi mi si avvicinò dicendomi: "Questi qua sono tutti pregiudicati. Spaccio, furto, ricettazione, rapina… qualcuno fa pure le marchette. Non c'è nessuno pulito. Qua più ne muoiono, meglio è per tutti…".

Parole a cui si risponde con un gancio, o una testata sul setto nasale. Ma era in realtà il pensiero di tutti. E forse persino un pensiero saggio. Quei ragazzi che si faranno l'ergastolo per una rapina da 200 euro – feccia, surrogati d'uomini, spacciatori – li guardavo, uno per uno. Nessuno di loro superava i vent'anni. Padre Mauro, il parroco che celebrava la funzione, sapeva chi aveva di fronte. Sapeva anche che i ragazzini che gli stavano intorno non avevano il timbro dell'innocenza.

"Oggi non è morto un eroe…"

Non aveva le mani aperte, come i preti quando leggono le parabole alla domenica. Aveva i pugni chiusi. Assente qualsiasi tono d'omelia. Quando iniziò a parlare la sua voce era rovinata da una raucedine strana, come quella che viene quando ti parli dentro per troppo tempo. Parlava con un tono rabbioso, nessuna pena molle per la creatura, non delegava niente.

Sembrava uno di quei preti sudamericani durante i moti di guerriglia in Salvador, quando non ne potevano più di celebrare funerali di massacri e smettevano di compatire, e iniziavano a urlare. Ma qui Romero nessuno lo conosce. Padre Mauro ha un'energia rara. "Per quante responsabilità possiamo attribuire a Emanuele, restano i suoi quindici anni. I figli delle famiglie che nascono in altri luoghi d'Italia a quell'età vanno in piscina, a fare scuola di ballo. Qui non è così. Il Padreterno terrà conto del fatto che l'errore è stato commesso da un ragazzo di quindici anni. Se quindici anni nel sud Italia sono abbastanza per lavorare, decidere di rapinare, uccidere ed essere uccisi, sono anche abbastanza per prendere responsabilità di tali cose".

Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: "Ma quindici anni sono così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a distribuire la responsabilità. Quindici anni è un'età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie".

Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né c'erano autorità o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando si catapultano dal palco sugli spettatori. Il fere tro ondeggiava nel lago di dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero. Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna. Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: "I miei nipoti anche se disoccupati non avrebbero mai fatto ra

pine…". E continuando nervosa: "Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?"

Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica bisbigliò: "Il fatto è che qui si impara solo a morire".

"Cosa padre?"

"Niente signora, niente."

Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese perché lavorano sulle grandi griffe. Velocità e qualità. Altissima qualità. Il monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arza-no, e via via tutta la Las Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene. Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro. Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metà dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro volerebbe via dall'Italia. Gli imprenditori di queste parti conoscono a memoria questa logica. In queste fabbriche spesso non c'è astio tra operai e proprietari. Qui il conflitto di classe è molle come un biscotto spugnato. Il padrone spesso è un ex operaio, condivide le ore di lavoro dei suoi dipendenti, nella stessa stanza, sullo stesso scranno. Quando sbaglia paga direttamente con ipoteche e prestiti. La sua autorità è paternalistica. Si litiga per un giorno di ferie e per qualche centesimo di aumento. Non c'è contratto, non c'è burocrazia. Volto contro volto. E si tracciano così gli spazi delle concessioni e degli obblighi che hanno il sapore dei diritti e delle competenze. La famiglia dell'imprenditore vive al piano di sopra dove si lavora. In queste fabbriche spesso le operaie affidano i loro bambini alle figlie del proprietario che diventano babysitter o alle madri che si trasformano in nonne vicarie. I bambini delle operaie crescono con le famiglie dei proprietari. Tutto questo crea una vita comune, realizza il sogno orizzontale del postfordismo – far condividere il pranzo a operai e dirigenti, farli frequentare nella vita privata, farli sentire parte di una stessa comunità.

In queste fabbriche non ci sono sguardi che fissano il terreno. Sanno di lavorare sull'eccellenza, e sanno di avere stipendi infimi. Ma senza l'uno non c'è l'altro. Si lavora per prendere ciò di cui hai bisogno, nel miglior modo possibile, così nessuno troverà motivo per cacciarti. Non c'è rete di protezione. Diritti, giuste cause, permessi, ferie. Il diritto te lo costruisci. Le ferie le implori. Non c'è da lagnarsi. Tutto accade come deve accadere. Qui c'è solo un corpo, un'abilità, una macchina e uno stipendio. Non si conoscono dati precisi su quanti siano i lavoratori in nero di queste zone. Né quanti invece siano regolarizzati, ma costretti ogni mese a firmare buste paga che indicano somme mai percepite.

Xian doveva partecipare a un'asta. Entrammo nell'aula di una scuola elementare, nessun bambino, nessuna maestra. Solo i fogli bristol attaccati alle pareti con enormi letterone disegnate. In aula aspettavano una ventina di persone che rappresentavano le loro aziende, Xian era l'unico straniero. Salutò soltanto due dei presenti e senza neanche troppa confidenza. Un'auto si fermò nel cortile della scuola. Entrarono tre persone. Due uomini e una donna. La donna aveva una gonna di pelle, tacchi alti, scarpe di vernice. Si alzarono tutti a salutarla. I tre presero posto e iniziarono l'asta. Uno degli uomini tirò tre linee verticali sulla lavagna. Iniziò a scrivere sotto dettatura della donna. La prima colonna:

"800"

Era il numero di vestiti da produrre. La donna elencò tipi di stoffa e qualità dei capi. Un imprenditore di Sant'Antimo si avvicinò alla finestra e dando le spalle a tutti propose il suo prezzo e i suoi tempi:

"Quaranta euro a capo in due mesi…"

Venne tracciata sulla lavagna la sua proposta.

"800 / 40 / 2"

I visi degli altri imprenditori non sembravano preoccupati. Non aveva osato con la sua proposta entrare nelle dimensioni dell'impossibile. E questa cosa evidentemente faceva piacere a tutti. Ma i committenti non erano soddisfatti. L'asta continuò.

Le aste che le grandi griffe italiane fanno in questi luoghi sono strane. Nessuno perde e nessuno vince l'appalto. Il gioco sta nel partecipare o meno alla corsa. Qualcuno si lancia con una proposta, dettando il tempo e il prezzo che può sostenere. Ma se le sue condizioni saranno accettate non sarà l'unico vincitore. La sua proposta è come una rincorsa che gli altri imprenditori possono tentare di seguire. Quando un prezzo viene accettato dai mediatori gli imprenditori presenti possono decidere se partecipare o meno; chi accetta riceve il materiale. Le stoffe. Le fanno inviare direttamente al porto di Napoli e da lì ogni imprenditore le va a prendere. Ma uno soltanto verrà pagato a lavoro ultimato. Quello che consegnerà per primo i capi confezionati con elevatissima qualità di fattura. Gli altri imprenditori che hanno partecipato all'asta potranno tenersi i materiali, ma non avranno un centesimo. Le aziende di moda ci guadagnano così tanto che sacrificare stoffa non è una perdita rilevante. Se un imprenditore per più volte non consegna, sfruttando l'asta per avere materiale gratuito, viene escluso da quelle successive. Con quest'asta, i mediatori delle griffe si assicurano la velocità di produzione, perché se qualcuno tenta di rimandare qualcun altro ne prenderà il posto. Nessuna proroga è possibile per i tempi dell'alta moda.

Un altro braccio si alzò per la gioia della donna dietro la scrivania. Un imprenditore ben vestito, elegantissimo.

"Venti euro in venticinque giorni."

Alla fine accettarono quest'ultima proposta. Si accodarono a lui nove su venti. Neanche Xian osò dirsi disponibile. Non poteva coordinare velocità e qualità in tempi così brevi e con prezzi così bassi. Finita l'asta la donna scrisse in un file i nomi degli imprenditori, l'indirizzo delle fabbriche, i numeri di telefono. Il vincitore offrì un pranzo a casa sua. Aveva la fabbrica al piano terra; al primo piano viveva con la moglie, e al secondo piano c'era suo figlio. Orgogliosamente raccontava:

"Ora sto chiedendo il permesso per tirare su un altro piano. Il mio secondo figlio si sta per sposare."

Salendo continuava a raccontarci della sua famiglia, in costruzione come la sua villetta.

"Non mettete mai maschi a controllare le operaie, fanno solo guai. Due figli maschi ho, e tutte e due si sono sposati con nostre dipendenti. Mettete i ricchioni. Mettete i ricchioni a gestire turni e controllare il lavoro, come si faceva una volta…"

Le operaie e gli operai salirono a brindare per l'appalto. Avrebbero dovuto fare turnazioni molto rigide: dalle sei alle ventuno, con uno stacco di un'ora a pranzo e un secondo turno dalle ventuno alle sei del mattino. Le operaie erano tutte truccate, con gli orecchini e il grembiule per proteggersi dalle colle, dalla polvere, dal grasso dei macchinari. Come Superman che si toglie la camicia e sotto ha già la sua tuta azzurra, queste ragazze tolto il grembiule erano pronte per una cena fuori. Gli operai invece erano abbastanza trasandati, con fel-pacce e pantaloni da lavoro. Dopo il brindisi il padrone di casa si appartò con un invitato. Si defilò insieme agli altri che avevano accettato il prezzo d'asta. Non stavano nascondendosi, ma rispettavano l'antica usanza di non parlare di danaro a tavola. Xian mi spiegò sin nel dettaglio chi fosse quella persona. Era identico a come nell'immaginario appaiono i cassieri di banca. Doveva anticipare liquidità e stava discutendo i tassi d'interesse. Ma non rappresentava una banca. Le griffe italiane pagano solo a lavoro ultimato. Anzi, solo dopo aver approvato il lavoro. Stipendi, costi di produzione, e persino di spedizione: tutto viene anticipato dai produttori. I clan, a seconda della loro influenza territoriale, danno liquidità in prestito alle fabbriche. Ad Arzano i Di Lauro, a Sant'Antimo i Verde, i Cerniamo a Crispano, e così in ogni territorio. Queste aziende ricevono liquidità dalla camorra con tassi bassi. Dal 2 al 4 per cento. Nessuna azienda più delle loro potrebbe accedere ai crediti bancari: producono per l'eccellenza italiana, per il mercato dei mercati. Ma sono fabbriche buie, e gli spettri non vengono ricevuti dai direttori di banca. La liquidità della camorra è anche l'unica possibilità per i dipendenti per accedere a un mutuo. Così, in comuni dove oltre il 40 per cento dei residenti vive di lavoro nero, sei famiglie su dieci riescono ugualmente a comprare una casa. Anche gli imprenditori che non soddisfano le esigenze delle griffe troveranno un acquirente. Venderanno tutto ai clan per farlo entrare nel mercato del falso. Tutta la moda delle passerelle, tutta la luce delle prime più mondane proviene da qui. Dal napoletano e dal Salente. I centri principali del tessile in nero. I paesi di Las Vegas e quelli "dintra lu Capu". Casarano, Tricase, Taviano, Melissano ossia Capo di Leuca, il basso Salente. Da qui partono. Da questo buco. Tutte le merci hanno origine oscura. È la legge del capitalismo. Ma osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco.


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