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Gomorra
  • Текст добавлен: 24 сентября 2016, 03:28

Текст книги "Gomorra"


Автор книги: Roberto Saviano



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"È morto. Dobbiamo fare tutto più leggero…"

Il tizio rientrò in auto dove l'autista non aveva neanche per un secondo smesso di zompettare sul sedile ballando una musica di cui non riuscivo a sentire neanche un rumore, nonostante si muovesse come se fosse stata al massimo volume. In pochi minuti tutti si allontanarono dal corpo, passeggiando per questo frammento di polvere. Rimase il ragazzo steso a terra. E la fidanzata, piagnucolante. Anche il suo lamento rimaneva attaccato alle labbra, come se l'eroina permettesse una cantilena rauca come unica forma di espressione vocale.

Non riuscii a capire perché la ragazza lo fece, ma si calò il pantalone della tuta e accovacciandosi proprio sul viso del ragazzo gli pisciò in faccia. Il fazzolettino gli si attaccò sulle labbra e sul naso. Dopo un po' il ragazzo sembrò riprendere i sensi, si passò una mano sul naso e la bocca, come quando ci si toglie l'acqua dal viso dopo essere usciti dal mare. Questo Lazzaro di Miano resuscitato da chissà quali sostanze contenute nell'urina, lentamente si alzò. Giuro che se non fossi stato stordito dalla situazione, avrei gridato al miracolo. Invece camminavo avanti e indietro. Lo faccio sempre quando sento di non capire, di non sapere cosa fare. Occupo spazio, nervosamente. Facendo così devo aver attirato l'attenzione, poiché i Visitors iniziarono ad avvicinarmi, a urlarmi contro. Pensavano fossi un uomo legato al tizio che stava quasi uccidendo quel ragazzo. Mi gridavano contro: "Tu… tu… volevi ammazzarlo…".

Mi si fecero intorno, mi bastò allungare il passo per seminarli, ma continuavano a seguirmi, a racimolare da terra schifezze varie e lanciarmele. Non avevo fatto niente. Se non sei un tossico, sarai uno spacciatore. Spuntò d'improvviso un camion. Dai depositi ne uscivano a decine tutte le mattine. Frenò vicino ai piedi, e sentii una voce che mi chiamava. Era Pasquale. Aprì lo sportello e mi fece salire. Non un angelo custode che salva il suo protetto, ma piuttosto due topi che percorrono la stessa fogna e si tirano per la coda.

Pasquale mi guardò con la severità di un padre che tutto aveva previsto. Quel ghigno che basta a sé, e non deve neanche perdere tempo a pronunciarsi per rimproverare. Io invece gli fissavo le mani. Sempre più rosse, screpolate, spaccate sulle nocche e anemiche nel palmo. Difficile che i polpastrelli abituati alle sete e ai velluti dell'alta moda possano accomodarsi per dieci ore sui manubri di un camion. Pasquale parlava ma continuavano a distrarmi le immagini dei Visitors. Scimmie. Anzi meno che scimmie. Cavie. A testare il taglio di una droga che girerà mezza Europa e non può rischiare di ammazzare qualcuno. Cavie umane che permetteranno a romani, napoletani, abruzzesi, lucani, bolognesi, di non finire male, di non colare sangue dal naso e schiuma dai denti. Un Visitors morto a Secondigliano è solo un ennesimo disperato su cui nessuno farà indagini. Già tanto sarà raccoglierlo da terra, pulirgli il viso dal vomito e dal piscio e sotterrarlo. Altrove ci sarebbero analisi, ricerche, congetture sulla morte. Qui solo: overdose.

Il camion di Pasquale attraversava le strade statali che annodano il territorio nord di Napoli. Capannoni, depositi, luoghi dove raccogliere detriti, e roba sparsa, arrugginita, gettata ovunque. Non ci sono agglomerati industriali. C'è puzza di ciminiere ma mancano le fabbriche. Le case si seminano lungo le strade, e le piazze si fanno intorno a un bar. Un deserto confuso, complicato. Pasquale aveva capito che non lo stavo ascoltando così frenò di botto. Senza accostare, giusto per farmi dare una frustata con la schiena e scuotermi. Poi mi fissò e disse: "A Secondigliano le cose stanno per andare male… "'a vicchiarella" è in Spagna, con i soldi di tutti. Devi smettere di girare da queste parti, sento la tensione ovunque. Pure il catrame mo si stacca da terra per andare via di qua…".

Avevo deciso di seguire quello che stava per accadere a Secondigliano. Più Pasquale segnalava la pericolosità della situazione, più mi convincevo che non era possibile non tentare di comprendere gli elementi del disastro. E comprendere significava almeno farne parte. Non c'è scelta, e non credo vi fosse altro modo per capire le cose. La neutralità e la distanza oggettiva sono luoghi che non sono mai riuscito a trovare. Raffaele Amato '"a vicchiarella", il responsabile delle piazze spagnole, un dirigente del secondo livello del clan, era fuggito a Barcellona con i soldi della cassa dei Di Lauro. Questo si diceva. In realtà non aveva versato la sua quota al clan mostrando in tal modo di non avere più alcun tipo di sudditanza con chi lo voleva mettere a stipendio. Aveva ufficializzato la scissione. Per ora trattava solo in Spagna, territorio da sempre egemonizzato dai clan. In Andalusia i Casalesi del casertano, sulle isole i Nuvoletta di Marano, e a Barcellona gli "scissionisti". Questo il nome che qualcuno comincia a dare agli uomini dei Di Lauro che si sono allontanati. I primi cronisti che seguono la cosa. I cronisti di nera. Per tutti a Secondigliano sono invece gli Spagnoli. Così chiamati proprio perché in Spagna hanno il loro leader e hanno iniziato a controllare non solo le piazze ma anche i traffici; siccome Madrid è uno degli snodi fondamentali per il traffico di cocaina proveniente dalla Colombia e dal Perù. Gli uomini legati ad Amato per anni, secondo le indagini, avevano fatto circolare quintali di droga attraverso uno stratagemma geniale. Usavano i camion della spazzatura. Sopra rifiuti, e sotto droga. Un metodo infallibile per evitare controlli. Nessuno fermerebbe un camion della spazzatura di notte mentre carica e scarica immondizia e al contempo trasporta quintali di droga.

Cosimo Di Lauro aveva intuito – secondo quanto emerge dalle indagini – che i dirigenti stavano versando nella cassa del clan sempre meno capitale. Le puntate erano state fatte con capitale dei Di Lauro, ma una grossa parte del profitto che doveva essere ripartito era stato trattenuto. Le puntate sono gli investimenti che ogni dirigente fa nell'acquisto di una partita di droga con capitale dei Di Lauro. Puntata. Il nome deriva dall'economia irregolare e iperliberista della coca e delle pasticche per cui non c'è elemento di certezza e calibro. Si punta, anche in questo caso, come su una roulette. Se punti centomila euro e le cose ti vanno bene, in quattordici giorni divengono trecentomila. Quando mi imbatto in questi dati di accelerazione economica, ricordo sempre quando Giovanni Falcone trovandosi in una scuola fece un esempio finito poi su centinaia di quaderni di scolari: "Per capire che la droga è un'economia florida, pensate che mille lire investite il 1° settembre nella droga diventano cento milioni il 1° agosto dell'anno successivo".

Le cifre che i dirigenti versavano nelle casse dei Di Lauro continuavano a essere astronomiche, ma progressivamente minori. Sul lungo periodo una prassi del genere avrebbe rafforzato alcuni a scapito di altri e lentamente, appena il gruppo ne avrebbe avuto la forza organizzativa e militare, avrebbe dato una spallata a Paolo Di Lauro. La spallata finale, quella che non conosce rimedio. Quella che avviene col piombo e non con la concorrenza. Così Cosimo ordina di mettere tutti a stipendio. Li vuole tutti strettamente alle sue dipendenze. Una scelta in controtendenza con le decisioni che sino ad allora aveva preso suo padre, ma necessaria per proteggere i propri affari, la propria autorità, la propria famiglia. Non più imprenditori consorziati, liberi di decidere le quantità di danaro da investire, le qualità e i tipi di droghe da immettere nel mercato. Non più liberi livelli autonomi all'interno di una impresa multilevel, ma dipendenti. Messi a stipendio. Cinquantamila euro al mese, qualcuno dice. Una cifra enorme. Ma pur sempre uno stipendio. Pur sempre un ruolo di sottoposto. Pur sempre la fine del sogno imprenditoriale a scapito di un lavoro da dirigente. E poi la rivoluzione amministrativa non terminava qui. I pentiti raccontano che Cosimo aveva imposto una trasformazione generazionale. I dirigenti non dovevano avere più di trent'anni. Ringiovanire, subito, nell'immediato i vertici. Il mercato non permette concessioni a plusvalori umani. Non concede nulla. Devi vincere, commerciare. Ogni vincolo, fosse affetto, legge, diritto, amore, emozione, religione, ogni vincolo è una concessione alla concorrenza, un inciampo per la sconfitta. Tutto può esserci, ma solo dopo la priorità della vittoria economica, dopo la certezza del dominio. Per una sorta di residuo rispetto, i vecchi boss venivano ascoltati anche quando proponevano idee vetuste, ordini inefficaci e le loro decisioni erano prese spesso in considerazione esclusivamente in nome della loro età. E soprattutto l'età poteva mettere a repentaglio la leadership dei figli di Paolo Di Lauro.

Ora invece erano tutti sullo stesso piano: nessuno può fare appello a passati mitici, esperienze pregresse, rispetto dovuto. Tutti devono confrontarsi con la qualità delle proprie proposte, la capacità di gestione, la forza del proprio carisma. Quando i gruppi di fuoco secondiglianesi iniziarono a mostrare la propria forza militare, la scissione non era ancora avvenuta. Stava maturando. Uno dei primi obiettivi fu Ferdinando Bizzarro, "bacchetella" o anche "zio Fester" come il personaggio calvo, basso e viscido della Famiglia Addams. Bizzarro era il ras di Melito. Ras è espressione che intende definire chi possiede un'autorità forte ma non totale, pur sempre sottoposta al boss, alla massima carica. Bizzarro aveva smesso di essere un diligente capozona dei Di Lauro. Il danaro voleva gestirlo da solo. E anche le decisioni cardine, non solo quelle amministrative, voleva prenderle lui. La sua non era una rivolta classica, voleva soltanto promuoversi come interlocutore nuovo, autonomo. Ma si era autopromosso. I clan a Melito sono feroci. Territorio di fabbriche in nero, di produzione di scarpe di altissima qualità per i negozi di mezzo mondo. Queste fabbriche sono fondamentali per la liquidità da prestare a usura. Il proprietario di una fabbrica in nero appoggia quasi sempre il politico, o il capozona del clan che farà eleggere il politico, che gli farà ottenere meno controlli sulla sua attività. I clan camorristici secondiglianesi non sono mai stati schiavi dei politici, non hanno mai avuto piacere nello stabilire patti programmatici, ma da queste parti è fondamentale avere amici.

E proprio colui che era stato riferimento di Bizzarro nelle istituzioni divenne il suo angelo della morte. Per ammazzare Bizzarro il clan aveva chiesto l'aiuto di un politico: Alfredo Cicala. A dare precise indicazioni su dove poter rintracciare Bizzarro, secondo le indagini della DDA di Napoli, fu proprio Cicala, l'ex sindaco di Melito, nonché ex dirigente locale del partito della Margherita. A leggere le intercettazioni non sembra si stia organizzando un omicidio, ma semplicemente avvicendando dei capi. Non c'è differenza. Gli affari devono andare avanti, la decisione di Bizzarro di rendersi autonomo rischiava di ingolfare il business. Bisogna farlo con ogni mezzo, con ogni potenza. Quando muore la madre di Bizzarro, gli affiliati di Di Lauro pensano di andare al funerale e sparare, sparare su tutto e tutti. Fare fuori lui, il figlio, i cugini. Tutti. Erano pronti. Ma Bizzarro e suo figlio non si fecero vedere al funerale. L'organizzazione dell'agguato però continua. Capillare al punto che il clan comunica con un fax ai propri affiliati cosa sta accadendo e le cose da fare:

"Non c'è più nessuno di Secondigliano, lui ha cacciato via tutti… sta uscendo solo il martedì e il sabato con quattro auto-a voi vi hanno raccomandato di non muovervi per nessuna ragione. Zio Fester ha mandato il messaggio che per Pasqua vuole duecentocinquanta euro a negozio e non ha paura di nessuno. In settimana dovranno torturare Siviere"

E così, via fax si concerta una strategia. Si mette in agenda una tortura come una fattura commerciale, un'ordinazione, una prenotazione d'aereo. E si denunciano le azioni di un traditore. Bizzarro usciva con una scorta di quattro auto, aveva imposto un racket di 250 euro mensili. Siviero, uomo di Bizzarro, suo autista fedele, andava torturato magari per fargli uscire di bocca i percorsi che il suo capozona avrebbe fatto in futuro. Ma l'almanacco di ipotesi per massacrare Bizzarro non termina qui. Pensano di andare a casa del figlio e "non risparmiare nessuno". E poi una telefonata: un killer è quasi disperato per l'occasione persa, poiché viene a sapere che Bizzarro ha messo il naso fuori, in piazza, di nuovo a mostrare il suo potere e la sua incolumità. E sbraita per l'occasione persa:

"Mannaggia la madonna che ci stiamo perdendo, quello è stato tutta la mattina in piazza…"

Nulla è nascosto. Tutto sembra chiaro, ovvio, suturato alla pelle del quotidiano. Ma l'ex sindaco di Melito segnala in quale albergo Bizzarro si rintana con la sua amante, dove va a consumare tensione e sperma. A tutto ci si può ridurre. A vivere con le luci spente così da non dare segnale di presenza in casa, a uscire con quattro auto di scorta, a non telefonare e ricevere telefonate, a non andare al funerale della propria madre. Ma ridursi a non incontrare la propria amante ha il gusto della beffa, della fine di ogni potere.

È in albergo Bizzarro il 26 aprile 2004, all'hotel Villa Giulia, al terzo piano. A letto con la sua amante. E. commando arriva. Hanno la pettorina della polizia. Nella hall dell'albergo si fanno dare la carta magnetica per aprire, il portiere non chiede neanche il tesserino di riconoscimento ai presunti poliziotti. Battono alla sua porta. Bizzarro è ancora in mutande ma lo sentono avvicinarsi alla porta. Iniziano a sparare. Due raffiche di pistola. La scardinano, la trapassano e colpiscono il suo corpo. I colpi poi sfondano la porta e lo finiscono sparandogli alla testa. Proiettili e schegge di legno conficcati nella carne. Il percorso della mattanza si è ormai configurato. Bizzarro è stato il primo. O uno dei primi. O quantomeno il primo su cui si è testata la forza del clan Di Lauro. Una forza capace di catapultarsi su chiunque osi rompere l'alleanza, distruggere il patto d'affari. L'organigramma degli scissionisti non è ancora certo, non si comprende d'immediato. L'aria che si respira è tesa, ma sembra che si attenda ancora qualcosa. Ma a fare chiarezza, a dare origine al conflitto, arriva qualche mese dopo l'omicidio di Bizzarro qualcosa come una dichiarazione di guerra. Il 20 ottobre 2004 Fulvio Montanino e Claudio Salerno – secondo le indagini, fedelissimi di Cosimo e responsabili di alcune piazze di spaccio – vengono ammazzati con quattordici colpi. Sfumata la riunione trappola, in cui Cosimo e suo padre avrebbero dovuto essere fatti fuori, quest'agguato è l'inizio delle ostilità. Quando arrivano i morti non c'è altro da fare che combattere. Tutti i capi hanno deciso di ribellarsi ai figli di Di Lauro: Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, e poi i nuovi dirigenti Raffaele Amato, Gennaro McKay Marino, Arcangelo Abate, Giacomo Migliaccio. Fedeli a Di Lauro rimangono i De Lucia, Giovanni Cortese, Enrico D'Avanzo e un nutrito gruppo di gregari. Assai nutrito. Ragazzi a cui è promessa la scalata al potere, il bottino, la crescita economica e sociale nel clan. La dirigenza del gruppo viene assunta dai figli di Paolo Di Lauro. Cosimo, Marco e Ciro. Cosimo, con grande probabilità, ha intuito che rischierà la morte o il carcere. Arresti e crisi economica. Ma la scelta è obbligata: o attendere lentamente di essere sconfitti dalla crescita di un clan nel proprio seno, o tentare di salvare gli affari, o almeno la propria pelle. Sconfitti nel potere economico significa immediatamente sconfitti anche nella carne.

È guerra. Nessuno comprende come si combatterà, ma tutti sanno con certezza che sarà terribile e lunga. La più spietata che il sud Italia abbia mai visto negli ultimi dieci anni. I Di Lauro hanno meno uomini, sono molto meno forti, molto meno organizzati. In passato hanno sempre reagito con forza a scissioni interne. Scissioni date dalla gestione liberista che ad alcuni sembrava un lasciapassare per l'autonomia, per mettere su il proprio centro imprenditoriale. Una libertà invece quella del clan Di Lauro che viene concessa e non si può pretendere di possedere. Nel 1992 il vecchio gruppo dirigente risolse la scissione di Antonio Rocco, capo-zona di Mugnano, al bar Fulmine, entrando armato di mitra e bombe a mano. Massacrarono cinque persone. Per salvarsi Rocco si pentì, e lo Stato accogliendo la sua collaborazione mise sotto protezione quasi duecento persone, tutte pronte a entrare nel mirino dei Di Lauro. Ma non servì a nulla il pentimento. Le dirigenze del sodalizio non furono scalfite dalle dichiarazioni del pentito.

Questa volta invece gli uomini di Cosimo Di Lauro iniziano a essere preoccupati, come mostra l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Napoli il 7 dicembre 2004. Due affiliati, Luigi Petrone e Salvatore Tamburino, si telefonano e commentano la dichiarazione di guerra avvenuta con l'uccisione di Montanino e Salerno.

Petrone: "Hanno ucciso a Fulvio".

Tamburino: "Ah…".

Petrone: "Hai capito?".

Inizia a prendere forma la strategia di lotta, quella dettata secondo Tamburino da Cosimo Di Lauro. Prenderli uno per uno, e massacrarli, se fosse stato necessario anche con le bombe.

Tamburino: "Proprio le bombe, proprio, o no? Questo ha detto Cosimino mo li mando a prendere a uno alla volta… li faccio… malamente, ha detto… tutti quanti…".

Petrone: "Quelli là… L'importante che ci sta la gente, che "faticano"…".

Tamburino: "Gino, ce ne sono a milioni qua. Sono tutti guaglioni… tutti guaglioni… mo ti faccio vedere che combina quello…".

La strategia è nuova. Prendere nella guerra ragazzini, elevarli a rango di soldati, trasformare la macchina perfetta dello spaccio, dell'investimento, del controllo del territorio in un congegno militare. Garzoni di salumieri e macellai, meccanici, camerieri, ragazzini disoccupati. Tutti dovevano divenire la forza nuova e inaspettata del clan. Dalla morte di Montanino comincia un lungo e sanguinoso botta e risposta, con morti su morti: uno, due agguati al giorno, prima i gregari dei due clan, poi i parenti, l'incendio delle case, i pestaggi, i sospetti.

Tamburino: "Cosimino è proprio freddo, ha detto "Mangiamo, beviamo, chiaviamo". Che dobbiamo fare… è successo, andiamo avanti".

Petrone: "Ma io non ce la faccio a mangiare. Ho mangiato per mangiare…".

L'ordine di combattere non dev'essere disperato. L'importante è mostrarsi vincenti. Per un esercito come per un'azienda. Chi si mostra in crisi, chi fugge, chi scompare, chi si rannicchia in sé ha già perso. Mangiare, bere, chiavare. Come se non fosse accaduto nulla, come se nulla stesse accadendo. Ma i due personaggi sono pieni di timore, non sanno quanti affiliati sono passati con gli Spagnoli e quanti sono rimasti con la loro parte.

Tamburino: "E che ne sappiamo quanti di loro si sono buttati con quelli là… non lo sappiamo!".

Petrone: "Ah! quanti di loro si sono portati? Ne sono rimasti un sacco di loro qua Totore! Non ho capito… a questi qua… non gli piacciono i Di Lauro?".

Tamburino: "Io se fossi Cosimino sai che farei? Comincerei a uccidere a tutti quanti. Pure se tenessi il dubbio… a tutti quanti. Inizierei a togliere… hai capito! La prima melma da mezzo…".

Uccidere tutti. Tutti quanti. Anche col dubbio. Anche se non sai da che parte stanno, anche se non sai se hanno una parte. Spara! È melma. Melma, solo melma. Dinanzi alla guerra, al pericolo della sconfitta, alleati e nemici sono ruoli interscambiabili. Piuttosto che individui divengono elementi su cui testare la propria forza e oggettivarla. Solo dopo si creeranno d'intorno le parti, gli alleati, i nemici. Ma prima di allora, bisogna iniziare a sparare.

Il 30 ottobre 2004 si presentano a casa di Salvatore de Ma-gistris: un signore sessantenne che ha sposato la madre di Biagio Esposito, uno scissionista, uno Spagnolo. Vogliono sapere dove si è nascosto. I Di Lauro devono prenderli tutti: prima che si organizzino, prima che possano rendersi conto di essere in maggioranza. Gli spezzano braccia e gambe con un bastone, gli maciullano il naso. Per ogni colpo gli chiedono informazioni sul figlio di sua moglie. Lui non risponde, e a ogni silenzio fanno cadere un altro colpo. Lo riempiono di calci, deve confessare. Ma non lo fa. O forse non sa davvero il luogo del nascondiglio. Morirà dopo un mese di agonia.

Il 2 novembre viene ucciso Massimo Galdiero in un parcheggio. Dovevano colpire il fratello Gennaro, presunto amico di Raffaele Amato. Il 6 novembre viene ammazzato in via Labriola Antonio Landieri, per beccarlo sparano su tutto il gruppo che gli era vicino. Rimarranno ferite in modo grave altre cinque persone. Tutte gestivano una piazza di coca e pare fossero dipendenti di Gennaro McKay. Gli Spagnoli però rispondono e il 9 novembre fanno trovare una Fiat Punto bianca in mezzo a una strada. Dribblano posti di blocco e lasciano l'auto in via Cupa Perrillo. È pieno pomeriggio quando la polizia trova tre cadaveri. Stefano Maisto, Mario Maisto e Stefano Mauriello. I poliziotti, qualsiasi portiera aprano, trovano un corpo. Davanti, dietro, nel portabagagli. A Mugnano, il 20 novembre, ammazzano Biagio Migliaccio. Lo vanno a uccidere nella concessionaria dove lavorava. Gli dicono: "Questa è una rapina" e poi sparano al petto. L'obiettivo era suo zio Giacomo. Lo stesso giorno rispondono gli Spagnoli ammazzando Gennaro Emolo, padre di un fedelissimo dei Di Lauro accusato di far parte del braccio militare. Il 21 novembre i Di Lauro fanno fuori, mentre si trovano in una tabaccheria Domenico Riccio e Salvatore Gagliardi, persone vicine a Raffaele Abbinante. Un'ora dopo, viene ammazzato Francesco Tortora. I killer non vanno in moto ma in auto. Si avvicinano, gli sparano, poi lo raccolgono come un sacco. Lo caricano e lo portano alla periferia di Casavatore dove danno fuoco all'au to e al corpo. Due cose utili in una. A mezzanotte del 22 i carabinieri trovano un'auto bruciata. Un'altra.

Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina, Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuoiate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria.

Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra. I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all'opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei soldati morti. Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all'auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos'altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos'altro è possibile, cos'altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po' si alzano i commenti: "Si ammazzano tra loro, meglio così!". "Se fai il camorrista ecco cosa ti accade." "lì è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza." I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all'ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita.

Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi le punte delle scarpe. I commenti s'interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l'avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l'avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l'ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov'è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati e. fare il "servizio" forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente.

Gelsomina Verde, Mina: il diminutivo con cui veniva chiamata nel quartiere. La chiamano così anche i giornali quando cominciano a vezzeggiarla col senso di colpa del giorno dopo. Sarebbe stato facile non distinguerla dalla carne di quelli che si ammazzano fra di loro. O, se fosse stata viva, continuare a considerarla la ragazza di un camorrista, una delle tante che accettano per i soldi o per il senso di importanza che ti dà. Nulla più che l'ennesima "signora" che gode della ricchezza del marito camorrista. Ma il "Saracino", come chiamano Gennaro Notturno, è agli inizi. Poi sé diventa capozo-na e controlla gli spacciatori, arriva a mille-duemila euro. Ma è una carriera lunga. Duemilacinquecento euro pare sia il prezzo per l'indennizzo di un omicidio. E poi se hai bisogno di togliere le tende perché i carabinieri ti stanno beccando, il clan ti paga un mese al nord Italia o all'estero. Anche lui forse sognava di diventare boss, di dominare su mezza Napoli e di investire in tutt'Europa.

Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di periferia intorno a cui circola come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzini e vecchi novantenni catarrosi. O forse si saranno incontrati in qualche discoteca. Un giro a piazza Plebiscito, un bacio prima di tornare a casa. Poi i sabati trascorsi assieme, qualche pizza in compagnia, la porta della stanza chiusa a chiave la domenica dopo pranzo quando gli altri si addormentano sfiniti dalla mangiata. E così via. Come si fa sempre, come accade per tutti e per fortuna. Poi Gennaro entra nel Sistema. Sarà andato da qualche amico camorrista, si sarà fatto presentare e poi avrà iniziato a faticare per Di Lauro. Immagino che forse la ragazza avrà saputo, avrà tentato di cercargli qualcos'altro da fare, come spesso accade a molte ragazze di queste parti, di sbattersi per i propri fidanzati. Ma forse alla fine si sarà dimenticata del mestiere di Gennaro. Insomma, è un lavoro come un altro. Guidare un'auto, trasportare qualche pacco, si inizia con piccole cose. Da niente. Ma che ti fanno vivere, ti fanno lavorare e a volte provare anche la sensazione di essere realizzato, stimato, gratificato. Poi la storia tra loro è finita.


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