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Gomorra
  • Текст добавлен: 24 сентября 2016, 03:28

Текст книги "Gomorra"


Автор книги: Roberto Saviano



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Tra gli operai dell'imprenditore vincente ne incontrai uno particolarmente abile. Pasquale. Aveva una figura allampanata. Alto, inagrissimo e un po' "scuffato": la sua altezza si piegava sulle spalle, dietro il collo. Un fisico a uncino. Lavorava su capi e disegni spediti direttamente dagli stilisti. Modelli inviati solo per le sue mani. Il suo stipendio non fluttuava ma variavano gli incarichi. In qualche modo aveva una certa aria di soddisfazione. Pasquale mi divenne simpatico subito. Appena fissai il suo nasone. Aveva una faccia anziana, anche se era un ragazzone. Una faccia ficcata sempre tra forbici, tagli di stoffe, polpastrelli strusciati sulle cuciture. Pasquale era uno dei pochi che poteva comprare direttamente la stoffa. Alcune griffe – fidandosi della sua capacità – gli facevano ordinare direttamente i materiali dalla Cina, e lui stesso poi ne verificava la qualità. Per questo motivo Xian e Pasquale si erano conosciuti. Al porto dove una volta ci trovammo a mangiare insieme. Finito il pranzo Xian e Pasquale si salutarono e noi subito salimmo in macchina. Stavamo andando verso il Vesuvio. Di solito si rappresentano i vulcani con colori scuri. Il Vesuvio è verde. Un manto infinito di muschio, sembra a vederlo da lontano. Prima però di prendere la strada per i paesi vesuviani, l'auto entrò nell'androne di una casa. Lì c'era Pasquale ad aspettarci. Non capivo cosa stesse accadendo. Uscì dalla sua auto e direttamente si ficcò nel portabagagli dell'auto di Xian. Tentai di chiedere spiegazioni:

"Cosa succede? Perché nel cofano?"

"Non preoccuparti. Adesso andiamo a Terzigno, alla fabbrica."

Alla guida si mise una specie di Minotauro. Era uscito dall'auto di Pasquale e sembrava sapesse a memoria cosa fare. Fece marcia indietro, uscì dal cancello, e prima di immettersi sulla strada cacciò una pistola. Una semiautomatica. Scarrellò e se la mise tra le gambe. Io non fiatai, ma il Minotauro, guardando nello specchietto retrovisore, vedeva che lo fissavo preoccupato:

"Una volta ci stavano facendo la pelle."

"Ma chi?"

Cercavo di farmi spiegare tutto dall'inizio.

"Sono quelli che non vogliono che i cinesi imparino a lavorare sull'alta moda. Quelli che dalla Cina vogliono le stoffe, punto e basta."

Non capivo. Continuavo a non capire. Intervenne Xian col suo solito tono tranquillizzante.

"Pasquale ci aiuta a imparare. A imparare a lavorare sui capi di qualità che ancora non ci affidano. Impariamo da lui come fare i vestiti…"

Il Minotauro, dopo la sintesi di Xian, cercò di motivare la pistola:

"Allora… una volta uno è sbucato lì, proprio lì vedi, in mezzo alla piazza, e ha sparato contro la macchina. Hanno colpito il motore e il tergicristalli. Se volevano farci fuori ci facevano fuori. Ma era un avvertimento. Se lo rifanno questa volta però sono pronto."

Il Minotauro poi mi spiegò che quando si guida tenere la pistola tra le cosce è la tecnica migliore, poggiarla sul cruscotto rallenterebbe i gesti, i movimenti per prenderla. Per arrivare a Terzigno la strada era in salita, la frizione gettava un odore puzzolentissimo. Piuttosto che temere per qualche sventagliata di mitra temevo che il rinculo dell'auto potesse far sparare la pistola nello scroto dell'autista. Arrivammo tranquillamente. Appena ferma la macchina Xian andò ad aprire il cofano. Pasquale uscì. Sembrava un kleenex appallottolato che tentava di stiracchiarsi. Mi si avvicinò e disse:

"Ogni volta questa storia, manco fossi un latitante. Però meglio che non mi vedono in macchina. Altrimenti…"

E fece il gesto della lama sulla gola. Il capannone era grande. Non enorme. Xian me lo descriveva orgoglioso. Era di sua proprietà, ma all'interno c'erano nove microfabbriche affidate a nove imprenditori cinesi. Entrando infatti sembrava di vedere una scacchiera. Ogni singola fabbrica aveva i propri operai e i propri banchi da lavoro ben circoscritti nei quadrati. A ogni fabbrica Xian aveva concesso lo stesso spazio delle fabbriche di Las Vegas. Ogni appalto lo concedeva per asta. Il metodo era lo stesso. Aveva deciso di non far stare i bambini nella zona di lavorazione, e i turni li aveva organizzati come facevano le fabbriche italiane. In più, quando lavoravano per altre aziende, non chiedevano liquidità anticipata. Xian insomma stava diventando un vero e proprio imprenditore della moda italiana.

Le fabbriche cinesi in Cina stavano facendo concorrenza alle fabbriche cinesi in Italia. E così Prato, Roma, e le China-town di mezza Italia stavano crollando miseramente: avevano avuto un boom di crescita così veloce da rendere la caduta ancora più repentina. In un unico modo si sarebbero potute salvare le fabbriche cinesi: fare diventare gli operai esperti dell'alta moda, capaci di lavorare in Italia sull'eccellenza. Imparare dagli italiani, dai padroncini sparsi per Las Vegas, divenire non più produttori di paccottiglia ma referenti nel sud Italia delle griffe. Prendere il posto, le logiche, gli spazi, i linguaggi delle fabbriche in nero italiane e cercare di fare lo stesso lavoro. Solo a un po' di meno e a qualche ora in più.

Pasquale cacciò della stoffa da una valigetta. Era un vestito che avrebbe dovuto tagliare e lavorare nella sua fabbrica. Invece fece l'operazione su una scrivania davanti a una telecamera, che lo riprendeva rimandando l'immagine su un enorme telone appeso alle sue spalle. Una ragazza con un microfono traduceva in cinese ciò che diceva. Era la sua quinta lezione.

"Dovete avere massima cura delle cuciture. La cucitura dev'essere leggera, ma non inesistente."

Il triangolo cinese. San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano. E il fulcro dell'imprenditoria tessile cinese. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione, e anche i primi assassinii. Qui è stato ammazzato Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali. Lo invitarono e poi gli spararono in testa. Wang era una testa di serpente, ovvero una guida. Legato ai cartelli criminali pechinesi che organizzano l'entrata clandestina di cittadini cinesi. Spesso le diverse teste di serpente si scontrano con i committenti di merce-uomo. Promettono agli imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua merce, sugli esseri umani. Ma a crepare non sono solo mafiosi. Fuori della fabbrica c'era una foto appesa su una porta. La foto di una ragazza piccola. Un bel viso, zigomi rosa, occhi neri che sembravano truccati. Era proprio posta nel punto in cui, nell'iconografia tradizionale, ci si aspetta il volto giallo di Mao. Era Zhang Xiangbi, una ragazza incinta uccisa e gettata in un pozzo qualche anno fa. Lei lavorava qui. Un meccanico di queste zone l'aveva adocchiata; lei passava davanti alla sua officina, a lui era piaciuta e questo credeva fosse condizione sufficiente per averla. I cinesi lavorano come bestie, strisciano come bisce, sono più silenziosi dei sordomuti, non possono avere forme di resistenza e di volontà. L'assioma nella mente di tutti, o quasi tutti, è questo. Zhang invece aveva resistito, aveva tentato di scappare quando il meccanico l'aveva avvicinata, ma non poteva denunciarlo. Era cinese, ogni gesto di visibilità è negato. Quando c'ha riprovato, questa volta l'uomo non ha sopportato il rifiuto. L'ha massacrata di calci sino a farla svenire e poi le ha squarciato la gola gettando il suo cadavere in fondo a un pozzo artesiano, lasciandolo gonfiare di umido e acqua per giorni. Pasquale conosceva questa storia, ne era rimasto sconvolto; ogni volta che teneva la sua lezione aveva infatti l'accortezza di andare dal fratello di Zhang e chiedere come stava, se aveva bisogno di qualcosa e si sentiva perennemente rispondere: "Niente, grazie".

Io e Pasquale legammo molto. Quando parlava dei tessuti sembrava un profeta. Nei negozi era pignolissimo, non era possibile neanche passeggiare, si piantava davanti a ogni vetrina insultando il taglio di una giacca, vergognandosi al posto del sarto per il disegno di una gonna. Era capace di prevedere la durata della vita di un pantalone, di una giacca, di un vestito. H numero esatto di lavaggi che avrebbero sopportato quei tessuti prima di ammosciarsi addosso. Pasquale mi iniziò al complicato mondo dei tessuti. Avevo cominciato anche a frequentare casa sua. La sua famiglia, i suoi tre bambini, sua moglie, mi davano allegria. Erano sempre attivi ma mai frenetici. Anche quella sera i bambini più piccoli correvano per la casa scalzi. Ma senza fare chiasso. Pasquale aveva acceso la televisione, cambiando i vari canali era rimasto immobile davanti allo schermo, aveva strizzato gli occhi sull'immagine come un miope, anche se ci vedeva benissimo. Nessuno stava parlando ma il silenzio sembrò farsi più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla televisione e si mise le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa grave e si tappa un urlo. In tv Angelina Jolie calpestava la passerella della notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star. Quel vestito l'aveva cucito Pasquale in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo che ogni sarto immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari, nelle sue ceramiche d'ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra muscolo, ossa e portamento. Era andato a prendersi la stoffa al porto, lo ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre, di vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano destinati, ma nessuno l'aveva avvertito.

In Giappone il sarto della sposa dell'erede al trono aveva ricevuto un rinfresco di Stato; un giornale berlinese aveva dedicato sei pagine al sarto del primo cancelliere donna tedesco. Pagine in cui si parlava di qualità artigianale, di fantasia, di eleganza. Pasquale aveva una rabbia, ma una rabbia impossibile da cacciare fuori. Eppure la soddisfazione è un diritto, se esiste un merito questo dev'essere riconosciuto. Sentiva in fondo, in qualche parte del fegato o dello stomaco, di aver fatto un ottimo lavoro e voleva poterlo dire. Sapeva di meritarsi qualcos'altro. Ma non gli era stato detto niente. Se n'era accorto per caso, per errore. Una rabbia fine a se stessa, che spunta carica di ragioni ma di queste non può far nulla. Non avrebbe potuto dirlo a nessuno. Neanche bisbigliarlo davanti al giornale del giorno dopo. Non poteva dire "Questo vestito l'ho fatto io". Nessuno avrebbe creduto a una cosa del genere. La notte degli Oscar, Angelina Jolie indossa un vestito fatto ad Arzano, da Pasquale. Il massimo e il minimo. Milioni di dollari e seicento euro al mese. Quando tutto ciò che è possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno, vengono fusi in un'azione, in una prassi, quando tutto questo non serve a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare a respirare. Nient'altro. Tanto nulla può mutare condizione: nemmeno un vestito fatto ad Angelina Jolie e indossato la notte degli Oscar.

Pasquale uscì di casa, non si curò neanche di chiudere la porta. Luisa sapeva dove andava, sapeva che sarebbe andato a Secondigliano e sapeva chi andava a incontrare. Poi si buttò sul divano e immerse la faccia nel cuscino come una bambina. Non so perché, ma quando Luisa si mise a piangere mi vennero in mente i versi di Vittorio Bodini. Una poesia che raccontava delle strategie che usavano i contadini del sud per non partire soldati, per non riempire le trincee della Prima guerra, alla difesa di confini di cui ignoravano l'esistenza. Faceva così:

Al tempo dell'altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia.

D pianto di Luisa mi sembrò anch'esso un giudizio sul governo e sulla storia. Non uno sfogo. Non un dispiacere per una soddisfazione non celebrata. Mi è sembrato un capitolo emendato del Capitale di Marx, un paragrafo della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, un capoverso della Teoria generale dell'occupazione di John Maynard Keynes, una nota del-YEtica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Una pagina aggiunta o sottratta'. Dimenticata di scrivere o forse scritta continuamente ma non nello spazio della pagina. Non era un atto disperato ma un'analisi. Severa, dettagliata, precisa, argomentata. Mi immaginavo Pasquale per strada, a battere i piedi per terra come quando ci si toglie la neve dagli scarponi. Come un bambino che si stupisce del perché la vita dev'essere tanto dolorosa. Sino ad allora ci era riuscito. Era riuscito a trattenersi, a fare il suo mestiere, a volerlo fare. E a farlo come nessun altro. Ma in quel momento, quando ha visto quel vestito, quel corpo muoversi dentro alle stoffe da lui carezzate si è sentito solo. Solissimo. Perché quando qualcuno conosce una cosa solo nel perimetro della propria carne e del proprio cranio è come se non la sapesse. E così il lavoro quando serve solo a galleggiare, a sopravvivere, solo a se stessi, allora è la peggiore delle solitudini.

Rividi Pasquale due mesi dopo. L'avevano messo sui camion. Trasportava ogni tipo di merce – legale e illegale – per conto delle imprese legate alla famiglia Licciardi di Secondi-gliano. O almeno così dicevano. Il miglior sarto sulla terra guidava i camion della camorra tra Secondigliano e il Lago di Garda. Mi offrì un pranzo, mi fece fare un giro nel suo enorme camion. Aveva le mani rosse e le nocche spaccate. Come a tutti i camionisti che per ore reggono i volanti, le mani gelano e la circolazione si ingolfa. Non aveva un viso sereno, aveva scelto quel lavoro per dispetto, per dispetto al suo destino, un calcio in culo alla sua vita. Ma non si poteva sempre sopportare, anche se mandare tutto al diavolo significava vivere peggio. Mentre mangiavamo si alzò per andare a salutare qualche suo compare. Lasciò il portafogli sul tavolo. Vidi uscire dal fagotto di cuoio una pagina di giornale piegata in quattro parti. Aprii. Era una foto, una copertina di Angelina Jolie vestita di bianco. Il completo cucito da Pasquale. La giacca portata direttamente sulla pelle. Bisognava avere il talento di vestirla senza nasconderla. Il tessuto doveva accompagnare il corpo, disegnarlo facendosi tracciare dai movimenti.

Sono sicuro che Pasquale, da solo, qualche volta, magari quando ha finito di mangiare, quando a casa i bambini si addormentano sfiancati dal gioco a pancia sotto sul divano, quando la moglie prima di lavare i piatti si mette al telefono con la madre, proprio in quel momento gli viene in mente di aprire il portafogli e fissare quella pagina di giornale. E sono sicuro che, guardando quel capolavoro che ha creato con le sue mani, Pasquale è felice. Una felicità rabbiosa. Ma questo non lo saprà mai nessuno.

Il Sistema

Era il Sistema ad aver alimentato il grande mercato internazionale dei vestiti, l'enorme arcipelago dell'eleganza italiana. Ogni angolo del globo era stato raggiunto dalle aziende, dagli uomini, dai prodotti del Sistema. Sistema, un termine qui a tutti noto, ma che altrove resta ancora da decifrare, uno sconosciuto riferimento per chi non conosce le dinamiche del potere dell'economia criminale. Camorra è una parola inesistente, da sbirro. Usata dai magistrati e dai giornalisti, dagli sceneggiatori. È una parola che fa sorridere gli affiliati, è un'indicazione generica, un termine da studiosi, relegato alla dimensione storica. Il termine con cui si definiscono gli appartenenti a un clan è Sistema: "Appartengo al Sistema di Secondigliano". Un termine eloquente, un meccanismo piuttosto che una struttura. L'organizzazione criminale coincide direttamente con l'economia, la dialettica commerciale è l'ossatura del clan.

Il Sistema di Secondigliano governava ormai tutta la filiera dei tessuti, la periferia di Napoli era il vero territorio produttivo, il vero centro imprenditoriale. Tutto quanto altrove non era possibile pretendere per via delle rigidità dei contratti, della legge, del copyright, a nord di Napoli si otteneva. La periferia strutturandosi intorno al potere imprenditoriale del clan permetteva di macinare capitali astronomici, inimmaginabili per qualsiasi agglomerato industriale legale. I clan avevano creato interi indotti industriali di produzione tessile e di lavorazione di scarpe e di pelletteria in grado di produrre vestiti, giacche, scarpe e camicie, identiche a quelle delle grandi case di moda italiane.

Godevano sul territorio di una manodopera di elevatissima qualità formatasi in decenni di lavoro sui grandi capi dell'alta moda, sui più importanti disegni degli stilisti italiani ed europei. Le stesse maestranze che avevano lavorato in nero per le più importanti griffe venivano assunte dai clan. Non solo la lavorazione era perfetta ma persino i materiali erano i medesimi, venivano comprati direttamente sul mercato cinese o erano quelli inviati dalle griffe alle fabbriche in nero che partecipavano alle aste. Gli abiti contraffatti dei clan secondiglianesi quindi non erano la classica merce tarocca, la pessima imitazione, il simile spacciato per autentico. Era una sorta di falso-vero. Al capo mancava solo l'ultimo passaggio, l'autorizzazione della casa madre, il suo marchio, ma quell'autorizzazione i clan se la prendevano senza chiedere niente a nessuno. Il cliente, del resto, in ogni parte del mondo era interessato alla qualità e al modello. La marca c'era, la qualità pure. Nulla di differente quindi. I clan secondiglianesi avevano creato una rete commerciale diffusa in tutto il mondo, in grado di acquistare intere filiere di negozi e così di dominare il mercato dell'abbigliamento internazionale. La loro organizzazione economica prevedeva anche il mercato dell'outlet. Produzioni di qualità appena più bassa avevano un altro mercato, quello dei distributori ambulanti africani, le bancarelle per le strade. Della produzione nulla veniva scartato. Dalla fabbrica al negozio, dal dettagliante alla distribuzione, partecipavano centinaia di ditte e di lavoratori, migliaia di braccia e di imprenditori che premevano per entrare nel grande affare tessile dei secondiglianesi.

Tutto era coordinato e gestito dal Direttorio. Sentivo continuamente citato questo termine. In ogni discussione da bar che vertesse su qualche affare o sul semplice e solito lamento per la mancanza di lavoro: "È il Direttorio che ha voluto così". "È il Direttorio che dovrebbe muoversi e fare le cose ancora più in grande." Sembravano frammenti di un discorso d'epoca napoleonica. Direttorio era il nome che i magistrati della DDA di Napoli avevano dato a una struttura economica, finanziaria e operativa composta da imprenditori e boss rappresentanti di diverse famiglie camorristiche dell'area nord di Napoli. Una struttura con compiti squisitamente economici. H Direttorio – come l'organo collegiale del Termidoro francese – rappresentava il reale potere dell'organizzazione più delle batterie di fuoco e dei settori militari.

Facevano parte del Direttorio i clan afferenti all'Alleanza di Secondigliano, il cartello camorristico che raccoglieva diverse famiglie: Licciardi, Contini, Maliardo, Lo Russo, Boc-chetti, Stabile, Prestieri, Bosti, e poi, a un livello di maggiore autonomia, i Sarno e i Di Lauro. Un territorio egemonizzato da Secondigliano, Scampia, Piscinola, Chiaiano, Miano, San Pietro a Paterno sino a Giugliano e Ponticelli. Una struttura federativa di clan che progressivamente si sono resi sempre più autonomi lasciando sfaldare definitivamente la struttura organica dell'Alleanza. Per la parte produttiva, nel Direttorio sedevano imprenditori di diverse aziende come la Valent, la Vip Moda, la Vocos, la Vitec, che confezionavano a Casoria, Arzano, Melito, i falsi prodotti di Valentino, Ferré, Versace, Armarti poi rivenduti in ogni angolo della terra. L'inchiesta del 2004, coordinata dal pm Filippo Beatrice della DDA di Napoli, aveva portato a scoprire l'intero impero economico della camorra napoletana. Tutto era partito da un dettaglio, uno di quelli che possono passare inosservati. Un boss di Secondigliano era stato assunto in un negozio di abbigliamento in Germania, il Nenentz Fashion di Dresdner Strasse 46, a Chemnitz. Un evento strano, insolito. In realtà il negozio, intestato a un prestanome, era di sua proprietà. Seguendo questa traccia venne fuori l'intera rete produttiva e commerciale dei clan secondiglianesi. Le indagini della DDA di Napoli erano riuscite, attraverso i pentiti e le intercettazioni, a ricostruire tutte le catene commerciali dei clan dai magazzini ai negozi.

Non c'era luogo in cui non avessero impiantato i loro affari. In Germania negozi e magazzini erano presenti ad Amburgo, Dortmund, Francoforte. A Berlino c'erano i negozi Laudano, Gneisenaustrasse 800 e Witzlebenstrasse 15, in Spagna al Paseo de la Ermita del Santo 30, a Madrid, e anche a Barcellona; in Belgio a Bruxelles, in Portogallo a Oporto e Boavista; in Austria a Vienna, in Inghilterra un negozio di giacche a Londra, in Irlanda a Dublino. In Olanda ad Amsterdam, e poi in Finlandia e Danimarca, a Sarajevo e a Belgrado. Attraversando l'Atlantico i clan secondiglianesi avevano investito sia in Canada, che negli Stati Uniti, arrivando in Sud America. Al 253 Jevlan Drive, a Montreal e a Wood-bridge, Ontario; la rete USA era immensa, milioni di jeans erano stati venduti nei negozi di New York, Miami Beach, New Jersey, Chicago, monopolizzando, quasi totalmente, il mercato in Florida. I negozianti americani, i proprietari dei centri commerciali volevano trattare esclusivamente con mediatori secondiglianesi. Capi d'abbigliamento dell'alta moda, dei grandi stilisti a prezzi accessibili, permettevano che i loro centri commerciali, le loro shopping mail si gonfiassero di persone. I marchi impressi sui tessuti erano perfetti.

In un laboratorio nella periferia di Napoli è stata scoperta una matrice per poter stampare la gorgone di Versace. A Se-condigliano si era sparsa la voce che il mercato americano era dominato dai vestiti del Direttorio, e questo avrebbe reso le cose più facili per i ragazzi che volevano andare in USA a fare gli agenti commerciali, seguendo il successo dei jeans della Vip moda che riempivano i negozi in Texas dove venivano venduti come jeans Valentino.

Gli affari si espandevano anche sull'altro emisfero. In Australia il Moda Italiana Emporio a New South Wales, 28 Ramsay Road, Five Dock, era divenuto uno dei più ricercati luoghi per comprare abiti eleganti, e anche a Sydney avevano magazzini e negozi. In Brasile, a Rio de Janeiro e Sào Paulo i secondiglianesi egemonizzavano il mercato dell'abbigliamento. A Cuba avevano in progetto di aprire un negozio per i turisti europei e americani, e in Arabia Saudita e nel Magh-reb avevano iniziato a investire da tempo. Il meccanismo di distribuzione che il Direttorio attuava era quello dei magazzini. Così li chiamavano nelle intercettazioni telefoniche: sono veri e propri centri di smistamento di uomini e merci. Depositi dove arrivavano ogni tipo di abiti. I magazzini erano il centro della raggiera commerciale dove giungevano gli agenti che prelevavano la merce da distribuire ai negozi dei clan o ad altri dettaglianti. La logica veniva da lontano. Dai magliari: i venditori napoletani che dopo la Seconda guerra avevano invaso mezzo mondo macinando chilometri, portando in borse stracariche calzini, camicie, giacche. Applicando su scala più vasta la loro antica esperienza mercantile, i magliari si sono trasformati in veri e propri agenti commerciali in grado di vendere ovunque: dai mercati rionali ai centri commerciali, dai parcheggi alle stazioni di servizio. I magliari più capaci potevano fare il salto di qualità e tentare di vendere grosse partite di vestiti direttamente ai dettaglianti. Alcuni imprenditori, secondo le indagini, organizzavano la distribuzione dei falsi, offrendo assistenza logistica agli agenti, ai "magliari". Anticipavano le spese di viaggio e di soggiorno, fornivano furgoni e vetture, in caso di arresto o sequestro dei capi garantivano l'assistenza legale. E ovviamente incassavano il danaro delle vendite. Affari che fatturavano per ogni famiglia giri annuali di circa trecento milioni di euro.

Le griffe della moda italiana hanno cominciato a protestare contro il grande mercato del falso gestito dai cartelli dei secondiglianesi soltanto dopo che l'Antimafia ha scoperto l'intero meccanismo. Prima di allora non avevano progettato una campagna pubblicitaria contro i clan, non avevano mai fatto denunce, né avevano informato la stampa rivelando i meccanismi di produzione parallela che subivano. È difficile comprendere perché le griffe non si siano mai esposte contro i clan. I motivi potrebbero essere molteplici. Denunciare il grande mercato significava rinunciare per sempre alla manodoperà a basso costo che utilizzavano in Campania e Puglia. I clan avrebbero chiuso i canali d'accesso al bacino delle fabbriche tessili del napoletano e ostacolato i rapporti con le fabbriche nell'est Europa e in Oriente. Denunciare avrebbe compromesso migliaia di contatti di vendita nei negozi, siccome moltissimi punti commerciali erano direttamente gestiti dai clan. La distribuzione, gli agenti, e i trasporti in molte parti sono dirette emanazioni delle famiglie. Denunciando avrebbero subito impennate dei prezzi nella distribuzione. I clan del resto non commettevano un crimine che andava a rovinare l'immagine delle griffe, ma ne sfruttavano semplicemente il carisma pubblicitario e simbolico. Producevano i capi non storpiandoli, non infangavano qualità o modelli. Riuscivano a non far concorrenza simbolica alle griffe, ma a diffondere sempre di più prodotti i cui prezzi di mercato li avevano resi proibitivi al grande pubblico. Diffondevano il marchio. Se quasi nessuno indossa più i capi, se finiscono per essere visibili solo addosso ai manichini di carne delle passerelle, il mercato si spegne lentamente e anche il prestigio si indebolisce. Del resto nelle fabbriche napoletane venivano prodotti abiti e pantaloni falsi di taglie che le griffe, per questioni d'immagine, non producono. I clan invece non si ponevano questioni d'immagine dinanzi alla possibilità di profitto. I clan secondiglianesi attraverso il falso-vero e il danaro del narcotraffico erano riusciti a comprare negozi e centri commerciali, dove sempre più spesso i prodotti autentici e quelli vero-falsi venivano mischiati, impedendo ogni distinzione. Il Sistema aveva in qualche modo sostenuto l'impero della moda legale, nonostante l'impennata dei prezzi, anzi sfruttando la crisi del mercato. Il Sistema, guadagnandoci cifre esponenziali, aveva continuato a diffondere ovunque nel mondo il made in Italy.

A Secondigliano avevano compreso che la capillare rete internazionale di punti vendita era il loro business più esclusivo, non secondario a quello della droga. Attraverso i canali dello smercio di abiti in molti casi si muovevano anche i percorsi del narcotraffico. La forza imprenditoriale del Sistema non si è fermata all'abbigliamento, ha investito anche nella tecnologia. Dalla Cina, secondo quanto emerge dall'inchiesta del 2004, i clan spostano e distribuiscono in Europa attraverso la loro rete commerciale diversi prodotti hi-tech. L'Europa aveva il contenitore, la marca, la fama, la pubblicità; la Cina aveva il contenuto, il prodotto in sé, la produzione a basso costo, i materiali a prezzi irrisori. Il Sistema camorra ha unito le due cose risultando vincente su ogni mercato. I clan avevano compreso che il sistema economico era allo spasmo e, seguendo i percorsi delle imprese che prima investivano nelle periferie del mezzogiorno e poi lentamente si spostavano in Cina, erano riusciti a individuare i distretti industriali cinesi che producevano per le grandi case di produzione occidentali. Avevano così pensato di ordinare partite di prodotti ad alta tecnologia per rivenderli in Europa con ovviamente un marchio falso che li avrebbe resi più appetibili. Ma non si sono fidati nell'immediato: come per una partita di coca, hanno prima provato la qualità dei prodotti che gli vendevano le fabbriche cinesi a cui si erano rivolti. Soltanto dopo aver testato sul mercato la validità dei prodotti, diedero vita a uno dei traffici intercontinentali più floridi che la storia criminale abbia mai conosciuto. Macchine fotografiche digitali e videocamere, ma anche utensili per i cantieri: trapani, flex, martelli pneumatici, smerigliatrici, levigatrici. Tutti prodotti commercializzati con i marchi Bosch, Hammer, Hilti. Il boss di Secon-digliano Paolo Di Lauro aveva deciso di investire in macchine fotografiche arrivando in Cina dieci anni prima che la Confindustria stringesse rapporti commerciali con l'Oriente. Sul mercato dell'est Europa, migliaia di modelli Canon e Hitachi vennero venduti dal clan Di Lauro. Prodotti che prima erano appannaggio della borghesia medio-alta divennero, attraverso l'importazione della camorra napoletana, accessibili a un pubblico più vasto. I clan si appropriavano solo del marchio finale, per meglio introdursi nel mercato, ma il prodotto era praticamente il medesimo.

L'investimento in Cina dei clan Di Lauro e Contini – messo a fuoco nell'inchiesta del 2004 della DDA di Napoli – dimostra la lungimiranza imprenditoriale dei boss. La grande impresa era terminata e così si erano sfaldati gli agglomerati criminali. La Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo degli anni '80 era ima sorta di azienda enorme, un agglomerato centralizzato. Poi venne la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, strutturata in maniera federativa, con famiglie economicamente autonome e unite da interessi operativi congiunti, ma anch'essa elefantiaca.


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